mercoledì 1 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/115: La nostra vita reale è per più di tre quarti composta di immaginazione e di finzione


Sono sdraiata in riva al mare, guardo il mare, io sono il mare.

Di che colore è il mare? Rosso? Azzurro? Verde?

E il cielo? Se guardo a lungo il cielo inizio a galleggiare come una nuvola, mi condenso e poi esplodo e divento pioggia.

Sono una nuvola, piccola, bianca, leggera che guarda verso la terra e vede persone sdraiate sulla sabbia che la guardano.

Così, in un solo momento, la nuvola e la sacerdotessa sono un’unica cosa traslucente e noi intuiamo più che vedere, la grazia di ogni movimento.

Un raggio di sole attraversa le onde, si riflette sul fondo chiaro e ritorna verso di noi in forma di schiuma.

Cosa sarebbe la poesia senza l’esercizio continuo dei cinque sensi?

Anche se è la vista, cioè lo sguardo, il senso più coinvolto, la nostra idea del mondo e degli altri dipende dalla nostra percezione. Scrive Flannery O’ Connor:

“La natura della narrativa è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato percettivo. La conoscenza umana inizia attraverso i sensi, e lo scrittore di narrativa inizia laddove inizia la percezione umana. Agisce attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle astrazioni. Ai più riesce molto meglio enunciare un’idea astratta anziché descrivere quindi ricreare un oggetto che hanno davanti agli occhi. Ma il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia ed è proprio questo che gli scrittori principianti sono così restii a creare. Il loro interesse precipuo va a idee ed emozioni disincarnate”.

Ma cosa sono esperienza e materia?

Introduciamo nel nostro discorso alcune intuizioni del filosofo e ingegnere Riccardo Manzotti che sono eccentriche ed eterodosse rispetto al dibattito contemporaneo guidato dalle neuroscienze:


“Ogni cosa esiste relativamente a un’altra cosa.

Quando guardiamo e vediamo il mondo, che cosa è la cosa che è tutt’uno con la nostra esperienza? Se il mondo è fatto di cose, come appare se ci guardiamo attorno, anche la nostra esperienza deve essere una cosa, una cosa fisica. Ma quale? Questo fatto non dovrebbe sorprendere nessuno. Quando guardiamo il mondo non vediamo niente che non sia fisico. Ovunque non c’è altro che oggetti, eventi, corpi, processi e proprietà fisiche. La nostra esperienza cosciente deve essere a sua volta fisica.
(…)
Il ruolo del corpo è simile a quello di una diga.

Una diga non contiene l’acqua del lago (non è una vasca). Una diga non crea l’acqua. Una diga alta 1 Km nel deserto non formerebbe alcun lago. Ma una diga, nelle opportune condizioni (terreno, pioggia, fiumi, etc.) è una delle condizioni sufficienti a far sì che un lago si formi ed inizi ad esistere.

In modo analogo, il nostro corpo è una delle condizioni che permettono a un mondo di oggetti, situazioni, persone, eventi, momenti, di esistere. Questi momenti sono ciò che troviamo dentro la nostra mente, anzi sono la nostra mente.

Dentro la nostra mente non troviamo l’idea di una mela, o il ricordo di una mela, troviamo una mela. Nei nostri sogni non incontriamo l’immagine di una mela – come ci hanno spesso detto – troviamo una mela.

Il nostro corpo è la diga che tiene insieme quel lago che è il nostro mondo e che, per tanti motivi, abbiamo pensato fosse la nostra mente. La diga è la condizione che rende possibile l’esistenza di un lago, ma non crea l’acqua del lago. (…)

Siamo un corpo? No. Siamo dentro un corpo? No. Siamo nel mondo, siamo il mondo. Il corpo è solo una diga.

Ma pensiamoci un attimo. Se non vediamo le stelle, che cosa vediamo? La risposta della guida è qualcosa tipo “vediamo la luce che le stelle ci hanno mandato”. Ma se questo è vero, allora anche quando guardiamo il palazzo di fronte o persino la nostra mano, non vediamo altro che la luce che ci mandano. Ma sarebbe un po’ strano dire che non vediamo mai niente e solo luce.

Se vediamo una mela, allo stesso modo vediamo anche le stelle. Non può esserci una differenza tra i due casi.

E quindi? Quindi nel caso delle stelle deve esserci un errore di ragionamento. Ma quale?

L’errore consiste nel pensare che quello che vediamo debba essere contemporaneo (cioè accadere nello stesso istante di tempo) della nostra percezione.

Io vedo la mela

Io ho un’immagine della mela

Io sono la mela”.



Questo io-mela-mondo apre il dibattito sugli infiniti io-cose-mondo che interagiscono, si guardano, si amano, si combattono.

Cerchiamo altre voci, così recupero qualche citazione da Jonah Lehrer, brillante giornalista scientifico, caduto in disgrazia per essersi inventato un’intervista mai fatta a Bob Dylan.

La prima citazione riguarda il poeta Walt Whitman:

“Whitman elaborò la sua teoria dei sentimenti corporei indagando se stesso. Per lui Foglie d'erba non era che «un tentativo, dalla prima all'ultima riga, di trascrivere in assoluta libertà, pienamente, sinceramente, un Individuo, un essere umano (me stesso, nella seconda metà
del secolo decimonono, in America)». E così il poeta si trasformò in empirista, in cantore della propria stessa esperienza. Come scrisse nella prefazione a Foglie d'erba: «Voi mi starete al fianco e osserverete lo specchio insieme a me». Questo metodo portò Whitman a considerare anima e corpo come indissolubilmente «intrecciati». Fu il primo poeta a scrivere versi in cui la carne non fosse un'estranea. Piuttosto, in quella forma senza metrica, il paesaggio del suo corpo divenne l'ispirazione per la sua poesia. Ogni verso recava dolorosamente in sé le sollecitazioni dell'anatomia di Whitman, i suoi desideri e le sue simpatie inarticolate.
Non vergognandosi di nulla, non ometteva niente. «La vostra carne stessa», promise ai suoi lettori, «diverrà un grande poema». Le neuroscienze oggi sanno che la poesia di Whitman diceva il vero: le emozioni sono generate dal corpo. Per quanto effimeri possano sembrare, i nostri sentimenti sono radicati nei movimenti dei nostri muscoli e nelle palpitazioni delle nostre viscere. Di più, questi sentimenti materiali sono un elemento essenziale nell'elaborazione
del pensiero. Come nota il neuroscienziato Antonio Damasio: «La mente è incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello»”.


E già qui vediamo affermazioni antitetiche a quelle di Riccardo Manzotti.

Ancora Lehrer ci offre spunti interessanti per la nostra ricerca quando scrive di Cézanne:

“La psicologia continuava a considerare i nostri sensi un riflesso perfetto del mondo esterno. L'occhio era come una macchina fotografica: catturava i pixel di luce e li inviava passivamente al cervello. Il fondatore di questa psicologia era l'eminente sperimentalista William Wundt, per il quale ogni sensazione poteva essere scomposta nei suoi dati elementari. La scienza poteva togliere via uno dopo l'altro gli strati della coscienza e rivelare i veri stimoli che ne erano alla base. Cézanne capovolse quest'idea della visione. I suoi dipinti riguardavano la soggettività dello sguardo, l'illusione delle superfici. Cézanne inventò il postimpressionismo perché gli impressionisti non erano abbastanza strani. «Quel che sto cercando di tradurre», disse il pittore, «è più misterioso; è intrecciato alle profondità dell'essere». Monet, Renoir e Degas credevano che la vista fosse semplicemente la totalità della sua luce. Nei loro bei quadri volevano descrivere i fugaci fotoni assorbiti dall'occhio, descrivere la natura rifacendosi soltanto alla sua illuminazione. Cézanne invece pensava che la luce fosse solo l'inizio
della visione. «L'occhio non basta», disse, «bisogna anche pensare». La sua intuizione fu che le nostre impressioni esigono un'interpretazione; guardare significa creare ciò che vediamo. Oggi sappiamo che Cézanne aveva ragione. La nostra visione comincia con i fotoni, ma è solo l'inizio. Ogni volta che apriamo gli occhi, il cervello si impegna in un atto di immaginazione, perché trasforma i residui di luce in un mondo di forme e spazio che può essere capito. Rovistando nella scatola cranica, gli scienziati possono vedere come vengono create le nostre sensazioni, come le cellule della corteccia visiva costruiscono silenziosamente la vista. La realtà non è lì fuori in attesa di essere testimoniata; la realtà è creata dalla mente. L'arte di Cézanne svela il processo della visione. I suoi lavori vennero criticati perché inutilmente astratti - persino gli impressionisti schernirono la sua tecnica-, eppure ci mostrano il mondo così come
appare inizialmente al cervello. Un quadro di Cézanne non ha contorni o precise righe nere che separino una cosa dall'altra. Ci sono solo pennellate e punti in cui un colore, raggrumato in superficie, sembra trasmutare in un altro. È l'inizio della visione, è l'aspetto che la realtà ha prima di essere elaborata dal cervello. La luce non è ancora stata trasformata in forma.
Ma Cézanne non si fermò qui. Sarebbe stato troppo facile. Anche quando la sua arte celebra la propria stravaganza, resta fedele a ciò che raffigura. Per questo riusciamo sempre a riconoscere i soggetti dei suoi quadri. Siccome l'artista dà al cervello sufficienti informazioni,
gli osservatori sono in grado di decifrare i suoi dipinti e salvare l'immagine dal baratro dell'oscurità (le sue forme saranno anche fragili, ma non sono mai incoerenti). Quelle pennellate stratificate, tanto precise nella loro ambiguità, diventano una ciotola di pesche,
una montagna di granito o un autoritratto. Questo è il genio di Cézanne: ci costringe a guardare, su una stessa tela statica, l'inizio e la fine della nostra visione. Ciò che comincia
come un astratto mosaico di colori diventa una descrizione realistica. Il dipinto emerge non dal colore o dalla luce, ma da un qualche luogo dentro la nostra mente. Entriamo a far parte dell'opera d'arte: la sua stranezza è anche la nostra.”

(E a proposito dell’essere una mela: quando Cézanne non sapeva cosa dipingere, si chiudeva nel suo studio, metteva delle mele sul tavolo e le copiava.)

Ecco cosa mi incanta dell’arte in generale e della poesia in particolare: la sua “stranezza”.

Anche Siri Hustvedt, scrittrice, studiosa di neuroscienze e moglie dello scrittore Paul Auster sostiene che:

“La percezione non è mai passiva. Non ci limitiamo a ricevere il mondo, lo produciamo anche. C’è un che di allucinatorio in qualsiasi percezione, ed è facile creare illusioni”.



Ecco cosa mi incanta dell’arte in generale e della poesia in particolare: la sua “capacità di creare illusioni”.

Mentre l’orecchio è impegnato a cogliere la conversazione, l’occhio oscilla tra il paesaggio intorno e quello mentale, tra la lettura e la scrittura.

Potrebbe esistere la poesia senza lo sguardo? Senza la percezione del mondo?

Guardo i lupi che si rincorrono in riva al mare.

Guardo la sacerdotessa e il guerriero sapiente che scrutano l’orizzonte con un vecchio cannocchiale.

Il misterioso architetto arriva in spiaggia con il re e la regina, mentre il poeta esce dell’acqua come un dio greco e ci lascia ammutoliti.

Tra poco inizierà a scemare la luce, andremo ancora in veranda a preparare la tavola e l’occhio si abituerà pian piano alla luce tenue delle candele.

Inizia così luglio, con un temporale, una passeggiata, una conversazione appassionata, la ricerca di un senso al mondo che vediamo e a quello che immaginiamo.

È estate, è davvero estate.

Lo sanno anche il mare e le stelle che si accomodano nel fondo del tuo occhio e illuminano il tuo pensiero.






Il titolo di questa Cronaca 115 è una citazione da L’ombra e la grazia di Simone Weil.

Riccardo Manzotti è autore del notevole saggio che sto leggendo La mente allargata, il Saggiatore 2019. Le citazioni sono tratte dal suo blog.

La citazione di Flannery O’Connor è tratta da Nel territorio del diavolo, Theoria 1993 e minimum fax 2003.

La citazione di Siri Hustvedt è tratta da L'estate senza uomini, traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi 2012.

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