Sono sdraiata in riva
al mare, guardo il mare, io sono il mare.
Di che colore è il
mare? Rosso? Azzurro? Verde?
E il cielo? Se guardo
a lungo il cielo inizio a galleggiare come una nuvola, mi condenso e poi
esplodo e divento pioggia.
Sono una nuvola,
piccola, bianca, leggera che guarda verso la terra e vede persone sdraiate
sulla sabbia che la guardano.
Così, in un solo
momento, la nuvola e la sacerdotessa sono un’unica cosa traslucente e noi
intuiamo più che vedere, la grazia di ogni movimento.
Un raggio di sole
attraversa le onde, si riflette sul fondo chiaro e ritorna verso di noi in
forma di schiuma.
Cosa sarebbe la poesia
senza l’esercizio continuo dei cinque sensi?
Anche se è la vista,
cioè lo sguardo, il senso più coinvolto, la nostra idea del mondo e degli altri
dipende dalla nostra percezione. Scrive Flannery O’ Connor:
“La natura della
narrativa è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato
percettivo. La conoscenza umana inizia attraverso i sensi, e lo scrittore di
narrativa inizia laddove inizia la percezione umana. Agisce attraverso i sensi,
e sui sensi non si può agire con delle astrazioni. Ai più riesce molto meglio
enunciare un’idea astratta anziché descrivere quindi ricreare un oggetto che
hanno davanti agli occhi. Ma il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di
materia ed è proprio questo che gli scrittori principianti sono così restii a
creare. Il loro interesse precipuo va a idee ed emozioni disincarnate”.
Ma cosa sono esperienza
e materia?
Introduciamo nel
nostro discorso alcune intuizioni del filosofo e ingegnere Riccardo Manzotti
che sono eccentriche ed eterodosse rispetto al dibattito contemporaneo guidato
dalle neuroscienze:
“Ogni cosa esiste
relativamente a un’altra cosa.
Quando guardiamo e
vediamo il mondo, che cosa è la cosa che è tutt’uno con la nostra esperienza?
Se il mondo è fatto di cose, come appare se ci guardiamo attorno, anche la
nostra esperienza deve essere una cosa, una cosa fisica. Ma quale? Questo fatto
non dovrebbe sorprendere nessuno. Quando guardiamo il mondo non vediamo niente
che non sia fisico. Ovunque non c’è altro che oggetti, eventi, corpi, processi
e proprietà fisiche. La nostra esperienza cosciente deve essere a sua volta
fisica.
(…)
Il ruolo del corpo è
simile a quello di una diga.
Una diga non contiene
l’acqua del lago (non è una vasca). Una diga non crea l’acqua. Una diga alta 1
Km nel deserto non formerebbe alcun lago. Ma una diga, nelle opportune
condizioni (terreno, pioggia, fiumi, etc.) è una delle condizioni sufficienti a
far sì che un lago si formi ed inizi ad esistere.
In modo analogo, il
nostro corpo è una delle condizioni che permettono a un mondo di oggetti,
situazioni, persone, eventi, momenti, di esistere. Questi momenti sono ciò che
troviamo dentro la nostra mente, anzi sono la nostra mente.
Dentro la nostra mente
non troviamo l’idea di una mela, o il ricordo di una mela, troviamo una mela.
Nei nostri sogni non incontriamo l’immagine di una mela – come ci hanno spesso
detto – troviamo una mela.
Il nostro corpo è la
diga che tiene insieme quel lago che è il nostro mondo e che, per tanti motivi,
abbiamo pensato fosse la nostra mente. La diga è la condizione che rende
possibile l’esistenza di un lago, ma non crea l’acqua del lago. (…)
Siamo un corpo? No.
Siamo dentro un corpo? No. Siamo nel mondo, siamo il mondo. Il corpo è solo una
diga.
Ma pensiamoci un
attimo. Se non vediamo le stelle, che cosa vediamo? La risposta della guida è
qualcosa tipo “vediamo la luce che le stelle ci hanno mandato”. Ma se questo è
vero, allora anche quando guardiamo il palazzo di fronte o persino la nostra
mano, non vediamo altro che la luce che ci mandano. Ma sarebbe un po’ strano
dire che non vediamo mai niente e solo luce.
Se vediamo una mela,
allo stesso modo vediamo anche le stelle. Non può esserci una differenza tra i
due casi.
E quindi? Quindi nel
caso delle stelle deve esserci un errore di ragionamento. Ma quale?
L’errore consiste nel
pensare che quello che vediamo debba essere contemporaneo (cioè accadere nello
stesso istante di tempo) della nostra percezione.
Io vedo la mela
Io ho un’immagine
della mela
Io sono la mela”.
Questo io-mela-mondo
apre il dibattito sugli infiniti io-cose-mondo che interagiscono, si guardano,
si amano, si combattono.
Cerchiamo altre voci,
così recupero qualche citazione da Jonah Lehrer, brillante giornalista
scientifico, caduto in disgrazia per essersi inventato un’intervista mai fatta
a Bob Dylan.
La prima citazione
riguarda il poeta Walt Whitman:
“Whitman elaborò la
sua teoria dei sentimenti corporei indagando se stesso. Per lui Foglie d'erba non era che «un tentativo,
dalla prima all'ultima riga, di trascrivere in assoluta libertà, pienamente,
sinceramente, un Individuo, un essere umano (me stesso, nella seconda metà
del secolo decimonono,
in America)». E così il poeta si trasformò in empirista, in cantore della
propria stessa esperienza. Come scrisse nella prefazione a Foglie d'erba: «Voi mi starete al fianco e osserverete lo specchio
insieme a me». Questo metodo portò Whitman a considerare anima e corpo come
indissolubilmente «intrecciati». Fu il primo poeta a scrivere versi in cui la
carne non fosse un'estranea. Piuttosto, in quella forma senza metrica, il
paesaggio del suo corpo divenne l'ispirazione per la sua poesia. Ogni verso
recava dolorosamente in sé le sollecitazioni dell'anatomia di Whitman, i suoi
desideri e le sue simpatie inarticolate.
Non vergognandosi di
nulla, non ometteva niente. «La vostra carne stessa», promise ai suoi lettori,
«diverrà un grande poema». Le neuroscienze oggi sanno che la poesia di Whitman
diceva il vero: le emozioni sono generate dal corpo. Per quanto effimeri
possano sembrare, i nostri sentimenti sono radicati nei movimenti dei nostri
muscoli e nelle palpitazioni delle nostre viscere. Di più, questi sentimenti
materiali sono un elemento essenziale nell'elaborazione
del pensiero. Come
nota il neuroscienziato Antonio Damasio: «La mente è incorporata, nel senso più
pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello»”.
E già qui vediamo
affermazioni antitetiche a quelle di Riccardo Manzotti.
Ancora Lehrer ci offre
spunti interessanti per la nostra ricerca quando scrive di Cézanne:
“La psicologia
continuava a considerare i nostri sensi un riflesso perfetto del mondo esterno.
L'occhio era come una macchina fotografica: catturava i pixel di luce e li
inviava passivamente al cervello. Il fondatore di questa psicologia era
l'eminente sperimentalista William Wundt, per il quale ogni sensazione poteva
essere scomposta nei suoi dati elementari. La scienza poteva togliere via uno
dopo l'altro gli strati della coscienza e rivelare i veri stimoli che ne erano
alla base. Cézanne capovolse quest'idea della visione. I suoi dipinti
riguardavano la soggettività dello sguardo, l'illusione delle superfici.
Cézanne inventò il postimpressionismo perché gli impressionisti non erano abbastanza
strani. «Quel che sto cercando di tradurre», disse il pittore, «è più
misterioso; è intrecciato alle profondità dell'essere». Monet, Renoir e Degas
credevano che la vista fosse semplicemente la totalità della sua luce. Nei loro
bei quadri volevano descrivere i fugaci fotoni assorbiti dall'occhio,
descrivere la natura rifacendosi soltanto alla sua illuminazione. Cézanne
invece pensava che la luce fosse solo l'inizio
della visione.
«L'occhio non basta», disse, «bisogna anche pensare». La sua intuizione fu che
le nostre impressioni esigono un'interpretazione; guardare significa creare ciò
che vediamo. Oggi sappiamo che Cézanne aveva ragione. La nostra visione
comincia con i fotoni, ma è solo l'inizio. Ogni volta che apriamo gli occhi, il
cervello si impegna in un atto di immaginazione, perché trasforma i residui di
luce in un mondo di forme e spazio che può essere capito. Rovistando nella
scatola cranica, gli scienziati possono vedere come vengono create le nostre
sensazioni, come le cellule della corteccia visiva costruiscono silenziosamente
la vista. La realtà non è lì fuori in attesa di essere testimoniata; la realtà
è creata dalla mente. L'arte di Cézanne svela il processo della visione. I suoi
lavori vennero criticati perché inutilmente astratti - persino gli
impressionisti schernirono la sua tecnica-, eppure ci mostrano il mondo così
come
appare inizialmente al
cervello. Un quadro di Cézanne non ha contorni o precise righe nere che
separino una cosa dall'altra. Ci sono solo pennellate e punti in cui un colore,
raggrumato in superficie, sembra trasmutare in un altro. È l'inizio della
visione, è l'aspetto che la realtà ha prima di essere elaborata dal cervello.
La luce non è ancora stata trasformata in forma.
Ma Cézanne non si
fermò qui. Sarebbe stato troppo facile. Anche quando la sua arte celebra la
propria stravaganza, resta fedele a ciò che raffigura. Per questo riusciamo
sempre a riconoscere i soggetti dei suoi quadri. Siccome l'artista dà al
cervello sufficienti informazioni,
gli osservatori sono
in grado di decifrare i suoi dipinti e salvare l'immagine dal baratro
dell'oscurità (le sue forme saranno anche fragili, ma non sono mai incoerenti).
Quelle pennellate stratificate, tanto precise nella loro ambiguità, diventano
una ciotola di pesche,
una montagna di
granito o un autoritratto. Questo è il genio di Cézanne: ci costringe a
guardare, su una stessa tela statica, l'inizio e la fine della nostra visione.
Ciò che comincia
come un astratto
mosaico di colori diventa una descrizione realistica. Il dipinto emerge non dal
colore o dalla luce, ma da un qualche luogo dentro la nostra mente. Entriamo a
far parte dell'opera d'arte: la sua stranezza è anche la nostra.”
(E a proposito dell’essere
una mela: quando Cézanne non sapeva cosa dipingere, si chiudeva nel suo studio,
metteva delle mele sul tavolo e le copiava.)
Ecco cosa mi incanta
dell’arte in generale e della poesia in particolare: la sua “stranezza”.
Anche Siri Hustvedt,
scrittrice, studiosa di neuroscienze e moglie dello scrittore Paul Auster
sostiene che:
“La percezione non è
mai passiva. Non ci limitiamo a ricevere il mondo, lo produciamo anche. C’è un
che di allucinatorio in qualsiasi percezione, ed è facile creare illusioni”.
Ecco cosa mi incanta
dell’arte in generale e della poesia in particolare: la sua “capacità di creare
illusioni”.
Mentre l’orecchio è
impegnato a cogliere la conversazione, l’occhio oscilla tra il paesaggio
intorno e quello mentale, tra la lettura e la scrittura.
Potrebbe esistere la
poesia senza lo sguardo? Senza la percezione del mondo?
Guardo i lupi che si
rincorrono in riva al mare.
Guardo la sacerdotessa
e il guerriero sapiente che scrutano l’orizzonte con un vecchio cannocchiale.
Il misterioso architetto
arriva in spiaggia con il re e la regina, mentre il poeta esce dell’acqua come
un dio greco e ci lascia ammutoliti.
Tra poco inizierà a scemare
la luce, andremo ancora in veranda a preparare la tavola e l’occhio si abituerà
pian piano alla luce tenue delle candele.
Inizia così luglio,
con un temporale, una passeggiata, una conversazione appassionata, la ricerca
di un senso al mondo che vediamo e a quello che immaginiamo.
È estate, è davvero
estate.
Lo sanno anche il mare
e le stelle che si accomodano nel fondo del tuo occhio e illuminano il tuo
pensiero.
Il titolo di questa Cronaca 115 è una citazione da L’ombra e la grazia di Simone Weil.
Riccardo Manzotti è
autore del notevole saggio che sto leggendo La
mente allargata, il Saggiatore 2019. Le citazioni sono tratte dal suo blog.
La citazione di Flannery O’Connor è tratta da Nel territorio del diavolo, Theoria 1993 e minimum fax 2003.
La citazione di Siri Hustvedt è tratta da L'estate senza uomini, traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi 2012.
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