martedì 31 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/23: ci dev’essere un colloquio nella terra


Chiamo a raccolta gli assenti, i perduti, i dimenticati o forse è meglio dire che sono loro a chiamarmi.

L’amicizia è sempre stata il sale della vita per me, lo è ancora e ancora di più oggi che posso solo parlare e talvolta vedere i volti dei miei amici e delle mie amiche.

Ne ho già citati alcuni in queste Cronache dall’anno senza Carnevale che accompagnano i miei giorni, vorrei dire a ognuno di loro, che sono vicina anche se non mi sentono e non mi vedono.

Ancora a Milano, e grazie alla poesia, è nata un’amicizia di ormai lunghissima data con una coppia veronese che è nel cerchio più vicino al mio cuore. Ho conosciuto Lorenzo e Maddalena una sera di giugno di circa venti anni fa. Eravamo alle Colonne di San Lorenzo per una lettura poetica, c’erano anche Grazia e Danilo. Era una serata bellissima, piena di rondini e profumi estivi. Abbiamo iniziato a chiacchierare e non abbiamo mai smesso da allora. La maggior parte dei nostri libri non era ancora stata né scritta, né tanto meno pubblicata e mi piace pensare che i sentieri invisibili che hanno portato alla scrittura delle nostre poesie, prose, saggi, articoli, romanzi e racconti, si siano segretamente e misteriosamente intrecciati nel tempo. Di certo si sono intrecciati con la vita della piccola casa editrice che ha pubblicato i nostri ultimi libri di poesia nella collana “Il passo di Efesto” ideata da Danilo Bramati, un saggio di Lorenzo, i racconti di Maddalena e i miei romanzi.

A Verona abbiamo condiviso pranzi meravigliosi sulle tovaglie di tela di Fiandra allestite con le più belle porcellane e cristalli della loro dimora. Sono stata loro ospite nella stanza che è lo studio di Lorenzo dove, anziché dormire, ho letto fino a notte fonda e scritto nel buio illuminato solo dalla piccola luce di una lampada antica.

Ho visto i cieli di Verona sovrapporsi ai cieli di Corot, con le stesse nuvole meravigliose. Ho visto le piccole api che regnano su una tappezzeria, risvegliarsi nel giardino di Torri del Benaco e ronzare intorno ai cespugli di lavanda, in uno dei luoghi dove ho trascorso alcune delle più belle vacanze della mia vita.

Ho bighellonato con Lorenzo per le campagne intorno a Dolo Veneto e poi a Treviso mentre Maddalena frequentava una delle scuole di formazione obbligatorie per gli insegnanti negli anni passati.

Il Lago di Garda, Piazza delle Erbe a Verona, gli antichi palazzi seicenteschi con scaloni di marmo larghi il doppio delle scale attuali, i cieli del Veneto, il calore delle passioni condivise, l’amore per le parole e per la vita nella sua nuda essenza, l’amore per Rainer Maria Rilke e Etty Hillesum - per inciso Lorenzo è stato il primo a scoprire che tante frasi del diario di Etty Hillesum sono sue traduzioni dal Libro d’ore di Rilke ancorché non citato - per la letteratura francese e per quelle anglosassone e qui fermo nella stesura di una delle mie tante liste perché le liste sono per me le stanze di ciò che è reale.

Oggi voglio dedicare a loro questa Cronaca, perché mentre con Maddalena da tempo condividiamo il dolore di avere perso entrambi i genitori, ultime le nostre madri nell’ultimo anno, ieri Lorenzo ha perso, come migliaia di altri italiani in questo tempo livido e doloroso, suo padre. Suo padre, non una statistica, un anziano, un vecchietto. Era suo padre e questo dolore del distacco, lo straniamento, sono unici per lui e per ciascuno di noi, per tutte le persone che stanno perdendo chi amano, perché siamo nomi e relazioni, non numeri e quello che resterà di noi è nei gesti e nei ricordi di chi è rimasto. Anche Edoardo ha perso di recente suo padre, ma la situazione sociale “normale” di qualche mese fa, non faceva però notizia quando morivano gli anziani e il suo dolore è rimasto ammantato della discrezione che lo contraddistingue e chissà se mai diventerà poesia.

Ma siamo tutti uguali di fronte al dolore che non ha risposte, di fronte al momento in cui l’ombra dei genitori si fa da parte e smettiamo di essere figli.

I figli sono come le foglie che cadono ai piedi dell’albero e ritornano in vita una primavera dopo l’altra. L’albero è la vita stessa che prosegue e insiste, generazione dopo generazione.

La poesia è quel segno sulla corteccia che si vede solo quando ci fermiamo e in silenzio, con attenzione, sfioriamo la superficie del tronco e sussurriamo ai rami quanto è fredda questa primavera.

Anche Danilo ha perso una figura di riferimento della sua infanzia e giovinezza, il mitico zio Giuseppe detto Pepp’, amico di Giovanni Testori e dell'amico Pumo, abile pittore in grado di riprodurre I mangiatori di patate di Van Gogh e consegnare così al nipote un’immagine che sarebbe riemersa potente anni e anni dopo, mentre stava componendo il poema Nel cuore della luce. Una vita di Van Gogh in versi e con quell’opera monumentale e purtroppo poco conosciuta, ha iniziato a compiere il suo destino di poeta.

Un destino, una vocazione alla scrittura anche per Lorenzo Gobbi e Maddalena Cavalleri che hanno pubblicato i loro ultimi romanzi Stella dei volti e Un kepì comprato al volo con Castelvecchi editore.

La poesia di Lorenzo, che vi lascio per questa nuova notte che scende, è uscita nella raccolta La gioia è un turbine di quiete. Poesie 2000 – 2009, Atì editore 2014.


Layla, penso spesso
a questo bene traboccante
dalla nostra vita in forma
di parole: ci dev’essere
un colloquio nella terra, così
vasto e disarmante
che non bastano gli alberi e le bacche:
serve un’anima di passo,
una voce in più nell’aria
tra le rondini, per grazia.

lunedì 30 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/22: le storie portate dal vento


Procedo a piccoli passi, mi incanto, conto le piastrelle, le fughe, i centimetri e i metri quadrati.

Vivo in compagnia dei libri, dei lupi e delle sirene. Vivo in compagnia di molte assenze, come scriveva la Dickinson, vivo in compagnia delle vostre assenze, più acute presenze, come diceva Bertolucci,  di voi che amo e siete lontani. Vivo con i miei fantasmi e le nostalgie, non sono mai sola.

Il mattino conto le lame di luce che attraversano le vetuste persiane di legno, dal loro canto so il numero degli uccellini. Conto il silenzio e le sue voci, le folate di vento che fugge tra alberi e tetti. Conto le ore del sonno che sono abbastanza, le ore che danno rifugio da questo mondo e su un mondo più vasto e oscuro, misterioso, si aprono.

Le ore del giorno si accatastano una sull'altra come i reperti di un naufragio.

Un unico lungo giorno si staglia alle mie spalle. Un unico lungo giorno si stende davanti a me.

Soltanto le vostre voci interrompono, di tanto in tanto, il mio quieto dialogare con ricordi e cose.

Ed ecco che le vostre voci umane irrompono e danno colore al mondo, senza la voce che porta il pensiero, che porta alle mie orecchie ciò che i miei occhi non possono vedere, nulla avrebbe senso, nulla darebbe senso alla vita.

Ogni voce che posso udire al telefono porta in sé l’ombra delle conversazioni più antiche, costruisce nei miei occhi l’immagine di chi parla.

Così ricordo una passeggiata in un viale cinto di querce, dove il crinale si staglia tra due province e due campagne.

Ci sdraiamo insieme nel prato, Elena, Annalisa, Edoardo, Grazia e Danilo. Conosciamo già quei panorami, quel luogo è uno dei luoghi segreti della nostra amicizia. C’è anche una villa sempre chiusa, con ampi porticati e un abbeveratoio scavato nella pietra dove favoleggiamo di trascorrere l’estate in un anno che verrà.

Rondini sfrecciano nel cielo terso della primavera nel suo pieno splendore, il grano è ancora verde e asseconda il vento nei suoi giochi scherzosi.

Papaveri, fiordalisi, non ti scordar di me. I ciliegi in fiore interrompono tutto questo verde che pare un oceano e come un oceano porta alle sue rive i versi ancora monchi che popoleranno le nostre poesie.

Torneranno nelle tue passeggiate nella terra natale Annalisa, quello che abbiamo visto insieme, nessuna creatura resterà senza voce, nessun albero o sentiero.

Tornerà tutto questo invisibile che tu non hai rivelato a voce Danilo, tornerà nelle tue poesie e noi avremo visto quel che non era dato vedere nei giorni gloriosi della nostra primavera.

La tua lingua Edoardo, si nutre di Lombardia e Inghilterra, suoni remoti di un altro tempo trovano vita nei tuoi sonetti, e io ascolto e capisco, leggo e capisco questa tua lingua lombarda così lontana dalle mie lingue originarie, ma che sento risuonare in me.

Tu Grazia ci avrai ascoltati con la tua nota attenzione e con la grazia, non solo di nome, che ti contraddistingue, sei diventata il nume tutelare di questi poeti ciarlieri e muti allo stesso tempo.

Garriscono le rondini che stanno scrivendo le pagine del cielo, sento il rumore dei loro voli in picchiata, sento il vento, sento il profumo dell’erba, sento le vostre voci e poi il nostro silenzio.

Ricordo un mattino di nebbia e pioggia, un primo giorno dell’anno dove abbiamo camminato lungo le marcite dal Molino d’Isella sino alla campagna popolata di cascine e gelo. Abbiamo lasciato le nostre impronte nel fango fresco, abbiamo cercato tracce di animali, ma il cuore dell’inverno è ancora più segreto di quello di un poeta e solo nei versi ho ritrovata impressioni di un tempo che è stato, di una dolcezza della stagione nella sua più pura solitudine, quando solo i rami spogli disegnano il cielo, insieme al fumo discreto che sale dei camini accesi.

Torneranno questi giorni e avranno l’eco di cose già viste e già vissute, e sarà ancora più bello essere tra quei campi e quei sentieri, sarà quando lo sguardo e il ricordo di un altro sguardo siederanno accanto nei nostri occhi e nelle menti.

La voce di Rossana mi giunge dalla più lontana Russia, Mosca e Pietroburgo hanno dolcezza di miele quando mi parla nella sua lingua materna, un dono ancor più prezioso perché di rado la lingua della madre trova dimora nella nostra città. Anche in questi giorni di chiusura e timore la sua voce tintinna dei campanelli appesi alla slitta e presto arriverà il disgelo, sentiremo il lamento del ghiaccio che ritorna acqua e la trasparenza dei fondali, trasformarsi in onde impetuose che non possono fermare la fuga verso il mare. Allora potremo tornare in uno dei vecchi ristoranti sui Navigli dove d’inverno accendono il camino e festeggiare la nuova stagione, l’inedita stagione della vita che riprende e tutti potremo uscire da un tempo senza tempo e lasciarci trasportare come 
storie portate dal vento.

La poesia seguente è tratta dal mio ultimo libro Un’estate invincibile, Atì editore 2019.


Le storie portate dal vento
  

Se potessi scegliere come
volare, aprirei le mie ali di
rondine e ogni anno tornerei
là dove sono nata e ogni anno
partirei verso il mare che
diventa oceano per scoprire
quanto forti sono queste mie
ali e quanto immenso quel
desiderio di acqua rissosa
come è il mare nei giorni
di vento, infinito, ingannevole
come l’oceano è, quando mi
fermo a riposare.

Ma qui le ali devo tenerle
piegate per non spaventare
chi cammina soltanto e mai
guarda in alto, dove le foglie
anelano la pioggia e l’albero
è il segreto che custodisce nidi,
e il mio cuore sta appeso
alla grondaia da dove guardo
i libri e la libreria, altri alberi che
ora sono caduti e non ascoltano
più le storie portate dal vento.

domenica 29 marzo 2020

Cronache dalla'anno senza Carnevale/21: lo sguardo del ritorno, cosa troverà Ulisse


Stiamo raccontando in moltissimi tutti insieme la guerra, questa guerra non dichiarata che ci vede rinchiusi nella trincea delle nostre case, con una percezione del pericolo amplificata dalla concentrazione di ammalati e deceduti. Il bollettino delle 18 è diventato un triste appuntamento e tutti sogniamo il momento in cui i numeri saranno vicini allo zero. E poi?

I soliti Dioscuri della politica, probabilmente disperati per la mancanza di visibilità che li schiaccia, spingono sui fronti opposti, uno che vorrebbe chiudere tutto a tempo indefinito e uno che vorrebbe riaprire dopo Pasqua. È impossibile per loro aspettare il parere autorevole degli scienziati, dei virologi, epidemiologi, statistici. È vero che è compito della politica agire per il bene comune, ma in questa situazione è il fattore tempo a essere determinante. Un tempo denso come miele, che ci imprigiona non solo i corpi ma anche la mente.

Però è importante iniziare a pensare al dopo. Per non trovarci di fronte alla domanda fatidica “e adesso?”. In migliaia stiamo scrivendo diari, testimonianze, cronache e lettere. Uno sforzo letterario collettivo che non ha precedenti nella storia dell’umanità.

Non è solo il tempo presente a diventare materia di narrazione, il passato che non ritornerà deve essere in qualche modo preservato e trasmesso alle generazioni future.
In uno dei film che più amo Lo sguardo di Ulisse, il direttore della cinemateca di Sarajevo ha fatto di tutto per preservarne l’archivio. Questo monologo è l’ultima prova attoriale di Gian Maria Volonté: “Poi, poi è scoppiata la guerra e mi sono dedicato alla protezione della cinemateca, che ne resti la memoria, era tutta la mia vita. E adesso che senso potrebbe avere qualsiasi cosa, che senso può avere in mezzo a questo massacro?”. Il protagonista del film, il regista greco chiamato con la sola iniziale A., intraprende un viaggio nei Balcani alla ricerca di tre bobine cinematografiche dei fratelli Manakis, i pionieri del cinema che lo diffusero in quella regione agli inizi del Novecento. È proprio dal vecchio direttore che A. trova le tre preziose bobine e le salva. Dopo aver girato quella scena Volonté ebbe un attacco cardiaco e morì; il suo personaggio venne interpretato da Erland Josephson. Così Angelopoulos racconta dell’ultima volta che vide Volonté vivo: “L’ultima sera stavamo tornando a Florina passando da Skopie, Gianmaria era seduto da solo in fondo all’autobus, nell’ultima fila di sedili. Beveva e cantava, io penso che abbia cantato tutte le canzoni che conosceva, da “avanti popolo alla riscossa” a “bandiera rossa”, ho sentito tutte le canzoni che conoscevo della sinistra italiana… ma credo che ci fosse qualcosa che non era vera gioia, sembrava come un addio”. E addio fu, senza un saluto, come sta accadendo alle migliaia di nostri contemporanei in ogni angolo del mondo, come succedeva anche senza questa pandemia, senza che ci fossero molti scossoni nelle nostre vite comuni. Sono i grandi numeri a terrorizzarci, la loro eccezionalità e ripetitività. Lo sguardo di Ulisse racconta anche la dissoluzione dell’Europa dell’est, emblematica la scena del barcone che trasporta una statua coricata e spezzata di Lenin. Gli anni e i sogni spezzati di molteplici generazioni, perché la Storia si presenta con i conti in mano ed è cieca. Forse è proprio lo sguardo di Ulisse, del guerriero indomito, di colui che ritorna, è lo sguardo che dobbiamo risvegliare in noi, consapevoli che non torneremo alla stessa casa, che la sposa e il figlio sono cambiati così come il volto dell’eroe omerico. Solo il letto nuziale, intagliato in un ulivo è identico a quello che mani ben più giovani e forti avevano costruito.

Lo sguardo del ritorno, lo sguardo del dopo, dobbiamo iniziare a immaginarlo questo dopo e a essere pronti a fare bene quello che già sappiamo fare, con il cuore colmo di indulgenza e speranza, consapevoli di non essere padroni di niente ma solo custodi di tutto questo mondo che non ci appartiene. Neanche questo immenso silenzio è nostro, la città lo inghiottirà di nuovo. La vita riprenderà, come dipenderà anche da noi.

Angelopoulos finì di girare Lo sguardo di Ulisse senza Volonté. La musica struggente di Eleni Karaindrou culla tutte le scene salienti del film. Anche quando il regista arriva a Sarajevo immersa nella nebbia e incrocia dei giovani che recitano Romeo e Giulietta. Perché l’amore è la prima risposta e va mano nella mano con l’amicizia, con la compassione, la pietà e l’empatia.

Francesco, un mio amico di gioventù, strappato alla vita troppo presto, l’amico che mi ha ispirato il protagonista del mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese, aveva incontrato in non so più quale isola delle Cicladi Eleni e lui, che in Grecia, ogni estate viaggiava con il suo sax tenore, aveva suonato con la musicista che era uno dei suoi miti viventi.

La forza del dopo sta nel raccontare ancora e ripetere le storie di chi è stato. Quando voglio ricordare Francesco lo faccio ascoltando Ian Garbarek e The Hilliard Ensemble nel primo brano di Officium. Ai tempi lo ascoltammo insieme decine di volte. Ma una volta in particolare, seduti a casa sua, le mani intrecciate, lo avevamo ascoltato ad occhi chiusi, senza bisogno di parlare.

Angelopoulos girò altri film dopo Lo sguardo di Ulisse e morì dopo essere stato investito da una moto mentre girava un film rimasto incompiuto L’altro mare, con un altro magnifico attore italiano, Toni Servillo. Nel 2018, durante gli incendi tragici, anche la cittadina di Mati venne colpita e la casa di famiglia del regista fu interamente distrutta dalle fiamme. Dello studio dove erano conservati libri, manoscritti, sceneggiature, scambi epistolari, non è rimasto nulla. Non ci sono parallelismi o insegnamenti morali da trarre, solo una concatenazione di eventi.

Il passato è una continua rielaborazione della memoria e delle evocazioni. 
Il futuro non è scritto, è l’unica strada che resta quando abbiamo deciso di non prendere le altre.

Oggi il futuro ha il colore delle foglie nuove sui rami, della neve che scende inaspettata, del congedo dall’inverno e da questo tempo malato.

sabato 28 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/20: poetica dei bambini nei cortili


Avveniva tutto lì, nel cortile. Era uno spazio immenso fatto di prati, boschetti selvaggi, una lunghissima strada che attraversava il quartiere da est verso ovest ed era zona verde, nessuna auto. Le torri di dieci piani e i palazzoni lunghi, che parevano torri sdraiate sul fianco e addormentate, non avevano cortili in senso stretto, ma balconi e balconcini, logge. I genitori ci chiedevano di restare in vista, ma nessuno obbediva, con tutto quello spazio da occupare e colonizzare, era impossibile stare fermi. I giochi negli angoli posteriori del palazzo erano le belle figlie di Madama Dorè, le favole interpretate, soprattutto Biancaneve e la Bella Addormentata nel bosco, i fidanzatini che progettavano il giorno in cui si sarebbero sposati. Sei anni non sono troppo pochi per promettersi il futuro. Un, due, tre, stella era un gioco da muro dove uno stava a braccia conserte e gli altri dovevano arrivare senza farsi vedere in movimento. Anche quando giocavamo a nascondino era bellissimo il brivido della conta, fino a 10 per ogni bambino, così tutti avevano tempi lunghissimi per andare a nascondersi. Oltre al piacere della caccia, c’era quello della corsa per toppare chi avevamo scoperto e, meglio ancora, essere colei o colui che arrivava correndo a perdifiato e gridando “Liberi tutti!” così che si dovesse ricominciare da capo.

Sui marciapiedi davanti casa giocavamo ad Arimo saltellando su e giù dai gradini, le nostre voci infantili erano la colonna sonora delle mamme che stavano a casa insieme alla radio, in particolare i programmi 3131condotto da Gianni Boncompagni e la Hit Parade di Lelio Luttazzi.

Saltavamo alla corda con due bambine che la facevano girare e le altre che a turno entravano. O anche da sole, dritto, incrociato, all’indietro.

Si giocava moltissimo a palla e a pallone. Per qualche tempo sono stata il portiere della squadretta del nostro condominio, unica bambina interessata al calcio e innamorata della Grande Inter di Mazzola, Jair, Suarez, Facchetti e Corso. Lui e Mazzola li avrei poi incontrati diverse volte in zona De Angeli perché frequentavano lo stesso bar di Via Ravizza con Gianni Rivera e, se non ricordo male, proprio Corso era il proprietario di una boutique nel quartiere.

Giocavamo a palla avvelenata, palla prigioniera e palla fuoco la mia preferita in assoluto. Anche in questi giochi si poteva provare l’estasi della velocità, l’abilità nello scansare i lanci degli avversari. Mi piaceva di meno giocare a pallavolo, tanto che, alle superiori, avevo imparato ad arbitrare pur di non essere costretta a giocare.

Le corse erano la nostra specialità, scattisti e mezzo fondisti in erba ci sfidavamo quasi ogni giorno nella lunga strada. E correvamo quando si trattava di andare a comprare il pane o il latte. Di corsa ci si poteva scatenare anche con gli schettini ai piedi, quelli con le ruote pesanti e rumorosissime. Poi, un po’ più abili, passavamo di diritto ai pattini e addirittura Anna Martinoli, una delle mie compagne di classe delle elementari, faceva pattinaggio su ghiaccio e andava ad allenarsi diversi pomeriggi alla settimana.

Femmine e maschi frequentavano mondi dei giochi completamente separati. Neanche giochi, come Il mondo, dove tracciavamo con un mattone rosso le caselle numerate e saltellavamo da una all'altra lanciando il nostro sasso, a volte il mattone stesso che avevamo usato, ci vedevano giocare insieme. A parte il mio fidanzato Marco figlio della portinaia, la signora Mariuccia, gli unici altri maschi con cui giocavo erano Angelo e Daniele. Prima andavamo a raccogliere bacche, foglie, fili d’erba, sassolini, e poi con vecchie scatole da scarpe allestivamo le bancarelle del mercato.

Ogni gioco aveva il suo luogo d’elezione e i gruppi stabili di giocatori. Dalla finestra di una delle torri si sentiva spessissimo una donna gridare per chiamare i suoi figli con voce tonante “Raaaul, Mirkooo, dove siete? Venite a casa!”. A volte giocavano con noi anche Maurizio Rosolen e Marco Carcassola che erano, mi pare, molto studiosi e li si vedeva poco in giro. Io, Elena con mio fratello Alessandro, Cristina con i fratelli Massimo e Luigi, Sabrine unica figlia del dottor Maccarini, Giuliana e suo fratello Gianandrea, Emanuela figlia unica, Federica detta Chicca e sua sorella Monica. Grazia, Angelo, Aldo, Giorgio che erano tutti grandi e lavoravano e Dalida detta Dada. Un’altra Grazia e un altro Stefano, Paolo detto Pappo che era amico di mio fratello e con lui passava i pomeriggi a nascondersi tra cespugli e balconi mentre io mi disperavo a cercarli. Anna, Giorgio, detto Pastina, e Cristina altra coetanea di mio fratello. Silvia e Massimo figli della Rina la signora più simpatica del palazzo. Donato, altro amico di mio fratello, e sua sorella Silvia. Giovanna e Gisella; Cinzia del quinto piano e Roberto del nono, entrambi figli unici, come Mauro che non dava confidenza a nessuno. Paolo, Elvira e Ivan, anche lui amico di Alessandro. Angelo, Rita, Roberto ed Enzo un fratello morto giovanissimo. Patrizia e Simona del quinto piano, Mina e Maddalena al secondo piano e il loro cugino Lino e suo fratello Ciro al terzo. E poi Maria e le sue due sorelle al quarto e la famiglia più silenziosa di tutte. I Saluto che i quattro figli andavano già tutti a lavorare, e Marco del sesto piano con suo fratello, anche lui grande amico di Alessandro e mio grande ammiratore. Nati dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta eravamo un piccolo universo che si risolveva tutto in quelle poche strade per i bambini e il luogo dove tornare dopo la scuola e il lavoro per gli adolescenti e i genitori.

Questi giorni di clausura fanno affiorare in me volti e storie che non sapevo di ricordare. Soprattutto la bellezza del nostro cortile che d’estate diventava un campo giochi che si stendeva sino ai campi di mais di Muggiano, dove vedevamo passare due volte all'anno le pecore in transumanza, dove andavamo di nascosto a fare il bagno al fossetto e a rubacchiare le pannocchie che facevamo arrostire su piccoli fuochi improvvisati. Non furono anni facili, scoppiò il Sessantotto, le lotte operaie, il movimento femminista, gli attentati, lo choc petrolifero, le domeniche a piedi, le scorte di zucchero, caffè, olio e pasta. Le brigate rosse, l’eversione nera, i rapimenti di uomini facoltosi, l’assassinio di servitori dello Stato, di giornalisti, di persone innocenti. Gli anni di piombo, la città che si addormentava presto la sera. I pochi locali aperti fino alle 22, poi il nulla.

Ma voglio ricordare soprattutto quelle gloriose giornate e sere estive, dove sciamavamo in gruppo a giocare, a correre, a imparare la vita gli uni dagli altri. Gli adulti poco avevano a che fare con noi. Gestivano obblighi e divieti, ma noi avevamo le nostre amiche e i nostri amici, il nostro immenso cortile.

Un’estate in particolare fu la più bella di tutte, quella del 1975. Uno dei ragazzi più grandi, Mauro, aveva cominciato ad andare in giro con la chitarra sempre in mano. Era bellissimo, con gli occhi scuri e i capelli biondi e lunghi fino alle spalle. Incantava tutti e soprattutto le ragazzine. Ci ricamai sopra una storia d’amore totalmente inventata e platonica e lui e suo fratello Marzio erano i protagonisti delle storie romantiche che inventavo con la mia amica Antonia.
Ricordo una partita selvaggia a palla fuoco, Antonia che viene a fare un giro dalle mie parti, lui che arriva suonando, con un tramonto rosso fuoco dietro le spalle.

Non racconterò questa sera cosa ne è stato di noi. Scrivo perché penso ai cortili di questa città di pochi bambini, che come tutti i bambini del mondo ora sono chiusi tra le mura di casa in mezzo ad adulti impreparati a vivere quel che sta accadendo.
Vorrei che il mio immenso cortile d’infanzia, un pezzo di mondo che non esiste più, si aprisse per tutti i bambini di questo tempo d’attesa, e li facesse correre a perdifiato, senza adulti intorno.

Vorrei che anche loro avessero un cortile felice da ricordare, un tempo felice da ricordare, quando il mondo e il suo nome battevano all'unisono.

Ma tutto quello che possiamo fare ora è costruire cortili all'interno delle case e lasciare che i bambini giochino con fogli e matite, fogli, matite e l’immaginazione.

venerdì 27 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/19: questo splendore o il ricordo della sua assenza


Vado a memoria, la memoria è il tempo che ha fatto il nido nella nostra mente. È il mondo che è diventato noi e che costruisce il senso di tutto il nostro affannarsi. Siamo come rondini che ritornano ogni anno nel luogo dove sono nate e che aggiustano i resti del nido precedente che il vento e la pioggia hanno sbriciolato. Terra, un rametto, saliva e poi un volo e il nido che cresce intorno. Un’immagine isolata che riappare negli occhi mentre facciamo altro, una vecchia polaroid che mi restituisce mio padre nello splendore dei suoi sessanta anni, allegro e simpatico proprio come è stato. Questo il primo ramo del mio nuovo nido, raccolgo una foglia dell’anno passato che ho conservato in un libro, apro il Meridiano di Bertolucci e papaveri della primavera in cui lui morì si ergono come un tetto rosso e fragile sulla mia costruzione. Una vecchia fotografia in bianco e nero, il giorno del mio primo compleanno, sono in piedi nel lettino, rido e guardo verso mia madre che non è inquadrata. A vent’anni sorrido sorniona con indosso un abito messicano color avorio e cerco di condurre a me chi mi stava fotografando. Nella foto accanto siamo in Norvegia e la fotografia mi tiene imprigionata mentre spazzolavo i miei lunghi capelli. Indossavo un vestito indiano rosso porpora con ricami dorati. Erano anni così quelli, dove tutto ciò che era etnico mi catturava. Poi c’è una foto scattata da mio padre, venti anni dopo e lì sto leggendo con un quaderno aperto accanto; dopo essere fuggita verso i fiordi norvegesi a vent’anni, a quaranta sono tornata a fare le vacanze con i miei genitori sulla costa marchigiana. Lì ho capito che per poter ritornare bisogna allontanarsi. Tutto quel che resta di quelle estati lontane sono queste fotografie, i fiori essiccati e la memoria che accoglie e protegge quei frammenti di luce.

Dal mio nido di rondine infreddolita osservo quel che resta del giorno e mi chiedo dove siano finiti tutti, quanta paura stia appesantendo i cuori, quanta memoria che andrà sprecata, perché sopportare il dolore è difficile, portarne il peso quasi impossibile. Cosa sono gli anni scriveva Marianne Moore e Antonella Anedda ha usato questo frammento di verso per uno dei suoi libri più belli. Mi chiedo se so rispondere a questa domanda oziosa, posso costruirci sopra una nuova poesia, continuare a divagare come sto facendo. Stare in silenzio è l’ultima opzione, ma non posso, perché il silenzio ha bisogno di un nido di parole dove potersi riposare.

Ripongo le vecchie fotografie, gironzolo ancora un po’ per casa, che è come camminare per Parigi di sera con la musica giusta e gli occhi socchiusi. O anche a New York a guardare Manhattan in una cineteca a Manhattan sul retro del Plaza Hotel. I film di Allen mi hanno spesso fatto compagnia e adoro tutti i finali. 
Nelle ultime scene di Manhattan il protagonista snocciola la sua lista delle cose per cui vale la pena vivere “io direi... il vecchio Groucho Marx per dirne una e... Joe DiMaggio e... secondo movimento della sinfonia Jupiter e... Louis Armstrong, l'incisione di Potato Head Blues e... i film svedesi naturalmente... L'educazione sentimentale di Flaubert... Marlon Brando, Frank Sinatra... quelle incredibili... mele e pere dipinte da Cézanne... i granchi da Sam Wo... il viso di Tracy...”. 

Inizio a scrivere la mia lista delle cose per cui vale la pena vivere e in cima metto quelle vecchie fotografie. Terra, un rametto, una foglia, il nido intorno cresce.

Mi siedo a un tavolo che non ho mai toccato, dove una donna matura sta scrivendo il libro della sua vita. Ha affittato un appartamento per poter lavorare in pace, un giorno scopre che quello accanto ospita uno studio di psicoanalista e una giovane donna racconta la sua vita in crisi e obbliga l’altra donna a fare i conti con se stessa, con le relazioni importanti, con il passato costellato di abbandoni, rotture e rinunce su cui si interroga sino a chiedersi se “il passato è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto”. Le resto accanto, la capisco, ora so che entrambe le cose sono vere, che non devo scegliere, che posso tenere nel nido che sto costruendo immagini di un mare perduto, il fumo di una sigaretta che sale verso le stelle, una nuova poesia letta al telefono, tutte le strade che ho percorso, tutti i ritorni che mi sono concessa, anche io sono placata nella dolcezza dei ricordi e so che su questi ricordi, sugli amori e gli affetti, sui desideri e sulle passioni, poggiano le fondamenta di chi sono ora, di chi diventerò, della forza con cui la vita ci ha chiamato a fronteggiare qualcosa di cui avevamo solo racconti, storie e vecchie fotografie.

Questa forza fragile che accompagna ogni gesto serale, questo desiderio di vita che resta in noi sino alle più tarda età. L’ho visto nelle mani dei miei genitori che piantavano arbusti e semi. Gli alberi e i cespugli sono sopravvissuti alla loro vita e ancora mi dicono di quell'amore che hanno provato. Un giorno sull'autobus ho visto un vecchio chiudere gli occhi quando il sole è apparso all'improvviso da uno squarcio nelle nuvole. Con gli occhi sempre chiusi lui ha sorriso e l’anima-gatto che teneva chiusa nel petto si è acciambellata sulle sue ginocchia.

Nel saggio L’enigma, tratto dalla raccolta L’estate, Albert Camus scriveva “Fiotti di sole caduti dal sommo del cielo rimbalzano brutalmente sulla campagna intorno a noi. Tutto tace davanti a questo tumulto e il Lubéron, laggiù, è soltanto un enorme blocco di silenzio che io ascolto senza tregua. Tendo l'orecchio, di lontano corrono verso di me, mi chiamano invisibili amici, la mia gioia aumenta, la stessa di molti anni fa. Un felice enigma mi aiuta di nuovo a capire tutto. Dove sta l'assurdità del mondo? È questo splendore o il ricordo della sua assenza?”.

Sono vere entrambe le cose, lo splendore e il ricordo della sua assenza.

Tutto resto scritto nel libro del mondo, tutto resta scritto nel libro della vostra immaginazione.

E vagheremo da un mondo all'altro, da un sogno a un ricordo, da un desiderio a un affanno.

È questa la nostra immortalità. È questa la nostra eternità.

giovedì 26 marzo 2020

Cronache dall'Anno senza Carnevale/18: un esame di maturità per il Novecento che scompare

Questa mattina avevo in mente di proseguire sulla falsariga delle due cronache precedenti ma, di tanto in tanto, lo spirito socio-antropologico che anima una parte importante di me, si impone sulla materia della scrittura e così stasera devio in alcune considerazioni alle quali sto cercando di dare un ordine.

Queste sono le notizie di questi ultimi giorni: l’emergenza non è finita e non abbiamo raggiunto il picco del contagio, non ancora. L’OMS dice che in Italia sarà la settimana prossima, a Londra temono il collasso delle strutture sanitarie, il sindaco di New York teme che metà della popolazione si infetterà, la Cina ha chiuso tutte le frontiere, la Russia chiude tutto per almeno una settimana, in Africa è caccia agli untori bianchi, a Madrid usano un campo di pattinaggio sul ghiaccio perché non c’è più posto negli obitori.

Il governatore della Lombardia è pessimista, quello del Veneto molto attivo, quello dell’Emilia Romagna lavora in silenzio, uno studio dell’Università di Harvard parla degli effetti del distanziamento sociale nella psiche degli italiani.

Alcuni adolescenti raccontano le loro vite, tutte molto simili tra loro, dove la didattica a distanza è il principio ordinatore di ogni giornata, insieme ai compiti, ai videogiochi, alle chat con gli amici e a quel poco di attività sportiva cui riescono a dedicarsi. I bambini sono scomparsi dal discorso pubblico e sono il tarlo dei genitori che non sono abituati di certo a interagire 24 ore al giorno in una situazione d’emergenza dove non è come in vacanza, dove mare, spiaggia, piscine e campi gioco li tengono impegnati buona parte della giornata. La giornalista e scrittrice Concita De Gregorio, scrive un dolente articolo sulla situazione degli anziani, soprattutto nelle case di riposo, che sono “il migliore prezzo della nostra assenza”, la causa, non lo dice ma si evince, di queste centinaia e centinaia di morti dolorose e solitarie. Nadia Fusini, studiosa di Virginia Woolf e scrittrice, rivendica la propria obbedienza all’autorità in virtù di un’etica condivisa, ma se la prende con chi esalta i benefici dell’isolamento e la scoperta della lettura e rivendica, di nuovo, il suo essere già una lettrice. Alessandro Baricco, scrittore e giornalista, invita gli intellettuali a passare all’audacia ed elenca, in 11 punti, la sua analisi del prima, durante e dopo di questa emergenza sanitaria.

Il tempo di prima sta assumendo già una dimensione mitica, il durante lo conosciamo perché nel mondo occidentale, qualunque adulto che abbia un lavoro, sta facendo i conti con la paura di perderlo, le tasse da pagare, la paura di non avere abbastanza denaro per arrivare alla fine del mese. Il dopo è un’immensa voragine arginata da date improbabili che si spostano ogni giorno più in là e non sarà certo il 3 aprile a decretare la fine di quanto sta accadendo. Probabilmente neanche maggio e giugno. Tant’è che il Ministro dell’Istruzione sta lavorando a scenari diversi per l’organizzazione degli esami di maturità. Con o senza commissari e presidente esterno? Con o senza le due o tre prove scritte?

Queste riflessioni su come si chiuderà l’anno scolastico le condivido con famiglia, con amiche e amici perché in molti hanno una ragazza o un ragazzo che si stanno preparando per il primo e unico rito di passaggio che è rimasto in questa società secolarizzata. Giusto oggi, la mia amica Rossana mi raccontava che suo padre Camillo non poté sostenere gli esami di maturità durante la Seconda Guerra Mondiale perché il suo liceo venne distrutto dai bombardamenti e lui si dispiacque per questo, ma anche perché era molto bravo in matematica e in fisica e avrebbe voluto sostenere gli esami.

Il senso dello studio e dell’impegno dei giovani sono stati continuamente mortificati in questi decenni a cavallo tra un secolo morente, il Ventesimo, e uno non ancora nato, il Ventunesimo.

Uno non vale uno, le competenze, acquisite con lo studio forsennato, sono una, e sottolineo una condizione, per acquisire autorevolezza. La scuola inginocchiata davanti ai dettati delle aziende ha svilito gli studi umanistici a favore nemmeno di quelli scientifici ma a beneficio della sola tecnologia, che ha reso il mondo globalizzato quello che conosciamo. Quello che è stato sino all’inizio dell’anno senza Carnevale.

Con la morte tragica di coloro che appartengono all’ultima generazione che ha vissuto in prima persona la Seconda Guerra Mondiale - mia madre scomparsa in gennaio prima dell’inizio della pandemia, sobbalzava quando sentivo parlare in tedesco e aveva paura dei cani-lupo perché li aveva visti circolare nel suo paesello in Puglia quando era bambina e non si fidava – muore il Novecento e non avrà prove di appello o seconde possibilità.

Noi baby-boomer, la generazione più fortunata della storia dovremo accettare il vuoto dietro di noi e il mondo che verrà e cui noi non apparterremo ma di cui dobbiamo assumerci la responsabilità.

La pandemia ha accelerato la diffusione dello smart working e della didattica digitale. Non credo che si potrà prescindere da queste esperienze che faranno scuola nell'organizzazione aziendale e in quella educativa e scolastica. La centralità dello Stato nazionale è un’altra delle sorprese che ci arrivano da questa situazione. È la sanità pubblica e gratuita che sta garantendo al più alto numero di persone di poter guarire dal contagio. 

La tecnologia sta offrendo alla luce il suo volto buono in questi campi ma, al contempo, quello orwelliano delle app che possono controllare gli spostamenti dei cittadini. Parimenti auspico che tutte queste belle app potranno aiutare efficacemente le istituzioni preposte a scovare le decine di migliaia di evasori ed elusori fiscali che vivono sulle spalle dei lavoratori dipendenti, dei pensionati e dei precari.

La deregolamentazione del mercato del lavoro con l’introduzione di contratti para-subordinati, a progetto e co.co.co non è un’invenzione della destra. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e, dovrebbe esserlo aggiungo io, anche sul pagamento delle tasse. Ma lo scardinamento dei contratti in nomi di efficienza, produttività e velocità ha solo favorito le aziende e gli imprenditori, non i giovani lavoratori e non le casse pubbliche che da un lato sostengono le agevolazioni fiscali e dall'altro i minori introiti dovuti a retribuzioni che sono, spesso, vergognose. Come avrebbero potuto le generazioni successive ai boomer amare il lavoro, credere nei sindacati, quando è la nostra generazione che ha contribuito a distruggere, in varie modalità, la centralità del lavoro?
Certo stiamo pagando un prezzo alto, non ci lasciano andare in pensione, perché le aspettative di vita e la vita media si erano allungati moltissimo soprattutto in Italia. Ma i nostri gloriosi anziani, che ora stiamo perdendo, sono cresciuti respirando aria diversa, mangiando cibi diversi, bevendo acqua diversa e le statistiche riguardano loro, non noi.

Noi, la generazione più fortunata di tutti i tempi, stiamo affrontando la nostra prova di maturità generazionale. I commissari sono tutti interni, perché sono in noi, nella nostra capacità di resistere e di ricominciare, di portarci Anchise sulle spalle e di lasciar scorrazzare Ascanio perché possa costruire insieme a Kore che sta sorgendo dagli Inferi, un mondo nuovo, un mondo diverso.

È notte ormai, è solo notte, ma io scrivo nel mio triangolo di luce e ti parlo perché dall'altro lato della città, tu possa raccogliere queste mie riflessioni senza pretese, scarne e forse imprecise ma che avevo l’urgenza di dire.

mercoledì 25 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/17: convocare la notte, scrivere il buio


Questa è l’ora incerta che tra il giorno e la notte sta, quella in cui la luce tremolante del giorno si abbandona alle mani salde dell’oscurità e poi scompare. Qualche anno fa avevo preso l’abitudine di ascoltare The Köln Concert di Keit Jarrett sul confine dell’imbrunire e lo faccio anche oggi e guardo il mondo, non quello sotto i miei occhi, non quello di oggi e non quello di allora, ma un mondo immaginato o vissuto in un tempo ancor più lontano. Richiamo nel teatro della memoria i monaci dell’Abbazia cistercense di Heiligenkreuz, consacrata nel 1133, in processione per recarsi nel coro a recitare i vespri, vedo il cielo nell’Abbazia di Jumièges, ancora più antica perché risale al 654, e sento risuonare anche lì canti che non ho mai udito. Dietro la casa di mia nonna paterna in Calabria, quando il sole scendeva e noi bambini dovevamo rientrare in casa per cena, staccavo una fogliolina di menta selvatica dai cespugli e andavo dietro il fienile per guardare i colori del tramonto e immaginare le vite degli altri che abitavano nelle case in collina di cui vedevo accendersi le luci.

Le luci che si accendono, ce ne sono altre. A un paio di chilometri dalla casa dei miei genitori dove sono cresciuta, intravedevo una fila di palazzi abbastanza alti da dare l’illusione di essere lo skyline di New York. Ogni finestra che si illuminava era un frammento di quel desiderio di essere altrove, di viaggiare, di scoprire l’America che ho coltivato per molti anni prima di poter far coincidere le mie immaginazioni con i grattacieli reali della città che non dorme mai, accompagnata dalla musica jazz che ascoltavo ossessivamente in quegli anni.

Dalla cima della Torre Nord, dalle finestre del ristorante Windows on the World e poi dalla terrazza ho visto il mondo dalla sua più alta vetta e lo stesso giorno ho visto le tanto agognate luci di Manhattan accendersi dalla cima dell’Empire State Building, proprio dove finisce il film con Meg Ryan e Tom Hanks Insonnia d’amore.

Ora che ho dato l’addio a questo giorno di una fredda primavera che ignora come stiamo noi, ora che ho convocato la notte, posso compiere il rito inverso e chiudere le persiane, chiudere tutto il mondo fuori da me. Apro e chiudo la mano destra per salutare l’albero che vive e respira ridosso alle mie finestre, vorrei che bastasse un gesto solitario a confondere il tessuto del buio con il tremolio della prima luce che ho acceso nello studio. Conosco a memoria le copertine dei libri che amo e che si offrono al mio sguardo laterale. Non ho bisogno di più luce per muovermi a piccoli passi come se non conoscessi tutti i sentieri che attraversano queste stanze e si tuffano in un altrove che neanche i muri possono fermare.

La notte è fatta di piccole ombre che si stringono le une alle altre e ci danno l’impressione di essere un unico corpo. Bisogna fermarsi e in silenzio aspettare che un chiarore misterioso si insinui e ci mostri la loro vera consistenza. Una si posa sulla mia mano ancora aperta. È come avere una farfalla che si è posata sul fiore della mia sera e si fida, sa che non cercherò di afferrarla. Una a una sfilano le piccole ombre e si mescolano con le finestre illuminate.

Dall'altro della stanza si apre all'improvviso uno scorcio della prima volta che ho visto le Dolomiti, del Sass Pordoi deserto e ancora ricoperto di neve, poi del Monte Bianco che non mi parlava, del rifugio nei Pirenei francesi chiuso da decenni e tutto le Cirque de Gavarnie che ci teneva nelle sue braccia di pietra e offriva gli alberi maestosi e il cielo chiaro come dimora per una sosta. L’imbrunire ci inseguiva sulla via del ritorno ma non ci prese, così ritornammo con in dono un desiderio di altri cammini e valli. La cima del Mottarone ci regalò i sette laghi sottostanti, luminosi come frammenti di vetro nel sole, soprattutto il lago d’Orta che fu meta di numerose soste e vacanze negli a venire che ora sono anni andati nel nido del tempo che fu, dove ci sono gusci di uova infrante e qualche piuma, nient’altro.

Chiudo gli occhi e chiedo ai ricordi di fermarsi, non so quanti ce ne siano ancora, né quanti ritorneranno a farmi visita. Ora che la notte mi avvolge, posso prendere il mio quaderno, la solita penna e scrivere il buio, non come fosse inchiostro, ma assecondando la sua vera natura simile alla carta in alcuni momenti, simile alla pietra in altri. Prima dei miei strumenti umani devo piegarmi a quelli dell’immaginazione e incidere le parole in frasi nel vento e nelle nuvole che si immergono nelle profondità dell’occhio di questo Dio addormentato.

Io non pretendo di conoscerne il volto, non posso immaginarne il pensiero, mi sono ignote le sue intenzioni. Ma so, che una sera di molti anni fa, quando ambivo al monastero e alle luci di New York allo stesso tempo, dopo avere guardato le solite finestre serali, mi ero accucciata nell'angolo, sotto il tavolo del soggiorno, da cui guardavo la televisione e mi ero sentita piccola, molto piccola. Avevo pensato a quella stanza come all'occhio di Dio e tempo, molto tempo dopo, avevo scritto questi pochi versi: “La stanza era l’occhio di Dio / e noi non eravamo che / polvere in quell'occhio”.

Ma ora so che la polvere è frammento di ciò che è stato e molecola di ciò che sarà.

Per questo non ho paura e torno ad aprire la finestra per salutare il mio albero e le nuvole invisibili, il cielo addormentato, voi che mi leggete e capite, voi che siete con me in quella stanza sotto il tavolo e in questa stanza, seduti in terra, silenziosi, se alzate una mano potete sfiorare la mia.

martedì 24 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/16: tessere il tempo, ascoltare la luce


Mi siedo al telaio di un giorno nuovo, la finestra è aperta, ascolto la luce che sale dietro il paravento degli alberi.

Tutto quello che ho è questo silenzio, tutto quello che sento è il volo invisibile delle rondini che ancora non sono tornate.

È il cielo, il cielo increspato che annuncia il loro volo. Il corpo tace in questa calma di voci, segue docile le mani che si affaccendano sui davanzali a disordinare i fiori non ancora sbocciati. Così non so se sto accarezzando i fantasmi di ciò che è stato o invocando la presenza di ciò che potrebbe essere.

Il sole mi segue stanza dopo stanza, come un fedele maggiordomo che illumina la casa per il suo signore che, forse, tornerà. Non mi giro a spegnare le scintille di vita che reclamano un diritto che era ineludibile. Fermati cuore, non saltare nel petto, non è primavera se non lontano da qui.

Nonostante le ombre leggere nelle strade vuote, l’inverno abita ancora nella città. Scrivono che i pesci siano tornati nella Laguna di Venezia, che scoiattoli e piccole lepri scorrazzino nei parchi preclusi a noi umani. Creatori delle parole che creano il mondo, siamo prigionieri e lo saremo, di un indicibile che ci ha rigettato a essere creature della natura nella natura, sottomessi alla stessa legge del fiore e della stella, del passero e dell’alta torre.

Ora siamo più come fiori recisi cui nessuno ha cambiato l’acqua, splenderemo per qualche giorno e poi saremo un groviglio di petali pallidi e accartocciati.

Virginia Woolf scriveva nel suo diario «Io provo un senso di fodere estive alle poltrone; di essere rimasta a casa mentre tutti sono in campagna. Mi sento desolata, polverosa e delusa». Questo senso di fodere estive di una casa disabitata è un sentimento che mi ha visitato in queste lunghe giornate.

Continuo la mia tessitura del giorno nuovo, cercando di infilare le ore come ordito nella trama mutevole dell’incertezza. Dunque, è questo il tuo nome giorno nuovo? Questo il tuo tessuto che stento a riconoscere, benché sia uscito dalle mie mani operose? Il giorno non risponde, disdegna le mie invocazioni, cerco conforto in voci amiche che posso raggiungere al telefono, cerco conforto nelle voci che posso solo ricordare e che risuonano in me più alte del rumore di un rubinetto aperto in chissà quale casa affacciata sul mio stesso cortile.

Così si intrecciano i desideri dei balconi ammutoliti con la stizza dei giardini abbandonati.

Tutti dimenticano presto il loro nome se mai nessuno lo pronuncia, se nessuno viene chiamato diventa d’acqua e nebbia tutta la città.

Possiamo scegliere di averne cura, di custodirne un frammento per sfamare i giorni che verranno, come si fa con il pane secco che diamo agli uccellini d’inverno, come le poche gocce che scendono a irrorare il piccolo cactus impettito sulla scrivania.

È fatto di piccoli gesti il giorno che nasce, è spaventato e lo dice con le nuvole che si sfilacciano anche senza aria furiosa.

Io tesso queste ore e mi ubriaco di vento, chiamo a voce altissima i nomi di voi che non ci siete più e solo un’eco risponde a queste grida.

È difficile stare fermi sulla soglia tra i due mondi, ancora le mani non hanno finito di tessere il tempo, ancora il tempo non è finito.

Lo chiamo e mi risponde, con una voce antica che parla una lingua profonda millenni. Io la capisco e so cosa fare, alzo le mani e afferro il telaio.

Il grido di una sirena mi fa sobbalzare, sono sveglia. È di nuovo mattino, uguale e diverso a quello di ieri. 

Mi siedo al telaio di un giorno nuovo, la finestra è aperta, ascolto la luce che sale dietro il paravento degli alberi.

Resto in silenzio, disfo la tela iniziata, di nuovo ascolto la luce e il lamento del cielo.

Apro le mani e solo nuvole ne balzano fuori, dal mio ginocchio cresce un germoglio, le rondini fanno il nido tra le mie dita.

Posso chiudere gli occhi e tornare a sognare.



lunedì 23 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/15: raggiungimi nel nome di una lingua sconosciuta


Dal mio angolo di mondo osservo e ascolto le due strade alberate che si intersecano, gli alberi ancora spogli ma con le gemme che stanno esplodendo, i cespugli fioriti, i pochi uccellini che canticchiano, i parcheggi vuoti come accade solo in agosto, la biblioteca di quartiere che sorge sulle rovine della fabbrica De Angeli – Frua distrutta nei bombardamenti del 1942-1943 e che ora dà il nome al quartiere che era un tempo il borgo della Maddalena. Nome che riviene dalla colonna votiva dedicata a Santa Maddalena e fatta erigere da San Carlo Borromeo nel 1576 dopo una terribile epidemia di peste nera. Come tanti di noi vivo in un luogo ricco di storia e di storie, a volte mi immagino il fiume Olona che è stato sotterrato, gli operai che entravano in fabbrica, il suono delle sirene, i bombardieri della RAF, gli scampati alla peste che vanno a rendere grazie alla Maddalena. La mia generazione, quella dei baby-boomer, e quelle successive sono vissute sino a questo duro e gelido 2020, al riparo della storia. Le generazioni più fortunate di ogni epoca, siamo nati e cresciuti in tempo di pace, abbiamo potuto studiare, viaggiare e, fino agli anni Novanta, trovare senza problemi un lavoro consono agli studi, alle ambizioni e ai desideri. Forse perché la lunga pace occidentale ha fatto da paravento alla Storia che intorno a noi continuava a colpire alla cieca, a decimare vittime, anche a poche decine di chilometri dal confine italiano. Chi ricorda Sarajevo e Srebenica durante la guerra dei Balcani degli anni Novanta del Novecento? Ora pare che la Storia abbia raggiunto anche noi, i nostri lamenti, il nostro sgomento, il nostro dolo si accodano a quelli delle generazioni che ci hanno preceduto. Ho ascoltato racconti della Seconda Guerra Mondiale fatti dalle mie nonne e dal nonno materno; dai genitori di alcuni amici che avevano combattuto, altri racconti di chi si era nascosto per sopravvivere e di chi aveva disertato dopo l’8 settembre ed era fuggito. 
Ogni qual volta leggo notizie sull’epidemia, i racconti fatti in presa diretta, la cronaca che si fa storia senza soluzione di continuità mi chiedo cosa resterà di questi giorni. Dal mio hortus conclusus vengo scaraventata contro il muro della realtà dal bollettino quotidiano della Protezione Civile e mi sembra che tutto il mondo esploda in un enorme e cupo fuoco d’artificio blu e bianco che non rallegra gli animi. Anche le parole se ne stanno quiete nei loro nidi, nelle loro ceste in giornate come questa, non hanno voglia di uscire e lo mostrano con la loro assenza.
Si muovono in me immagini di episodi cui non ho assistito. Sull’angolo della mia strada ci fu un combattimento violento tra partigiani e repubblichini in fuga. Erano tutti ragazzi e i due che avevano scelto il lato sbagliato della storia, il lato terribile e mortifero del fascismo, perirono perché non si accorsero del drappello di partigiani che arrivava da Piazza Sicilia. Sento il rombo dei bombardieri e il sibilo delle bombe incendiarie che colpiscono gli obiettivi industriali e qualche casa. Le storie che conosco del mio quartiere me le hanno raccontate soprattutto due vecchi amici che non ci sono più e che meritano un racconto tutto per loro e anche persone anziane che c’erano durante la Seconda Guerra Mondiale e che ora sono nella fascia d’età a rischio a causa della pandemia.
Tutto quello che posso fare, insieme a voi, a stare in casa, lavorare e aspettare, tessere il tempo e sperare.
Oggi chiudo con una poesia di Antonella Anedda dalla raccolta Notti di pace occidentale pubblicata da Donzelli nel 1999.


IX
a Zbigniew Herbert

È vero, l’allarme si alza dalle stelle
l’argento non ha luce sul barbaro grido di terrore.
L’imperatore ha spento il lume
ha chiuso il libro.
In basso la terra scuote l’orlo dei vasi e il ferro brucia
freddo sui fili. Lui dorme nel quadrato dei secoli
alti nel vento come aeree gabbie.
Non sente il bronzo del trono sulla nuca
né il rintocco dei chiodi sulle porte.

Dormirà per sempre.
Perciò sospendi tu la quiete
prova a rovesciare il dorso della mano
a raggiungermi nel nome di una lingua sconosciuta
perché parlo da un’isola
il cui latino ha tristezza di scimmia.
Un mare una pianura nuvole di tempesta contro i fiumi
uccelli nel cui becco gli steli annunciano alfabeti.

Forse solo così – Zbigniew
può viaggiare il cesto dei libri sulle acque
così credo giunga la voce
la stretta del viso nell'orrore
fino a un’orma fenicia, a un basso scudo
privo – come il tuo – di luce.



domenica 22 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/14: le parole che mi vengono a cercare

Prima di iniziare a scrivere lascio immagini, ricordi e suoni affastellarsi in mente. Non cerco una direzione, un senso o un obiettivo, mi lascio trascinare alla deriva verso un orizzonte che si allontana a ogni movimento. È come galleggiare in un mare quieto e sentire le onde che mi sostengono e la profondità dell’abisso che mi guarda dall'altro versante della realtà. Mi chiedo da sempre, da quando ho sentito in me l’urgenza dello scrivere, ero un’adolescente, a quando ho deciso che scrivere, diventare una scrittrice, una poetessa erano tutto ciò che mi interessava diventare, non fare, ma diventare. La presa di consapevolezza nacque dopo alcune letture fondamentali fatte nell'estate dei miei diciannove anni, dopo gli esami di maturità. I libri furono i Diari di Anais Nin, la biografia di Lou Andreas Salomé Mia sorella, mia sposa di H. F. Peters, Le parole per dirlo di Marie Cardinal, Il giuoco delle perle di vetro di H. Hesse e, soprattutto, Il diario di una scrittrice di Virginia Woolf nella prima edizione Oscar Saggi Mondadori del 1979 tradotta da Giuliana De Carlo. I libri della Cardinal e della Nin li scoprii grazie a Sandra, una ragazza pavese conosciuta al mare a Celle Ligure e che era amica della mia amica Antonia. Lou Salomé la trovai in libreria, mentre Hesse e Woolf furono un prestito mai onorato dal ritorno a casa del legittimo proprietario dei libri. È uno dei due soli episodi in cui non ho mai restituito un libro preso in prestito. Le anime morte di Gogol mi vennero prestate dalla mia madrina di battesimo Rosetta, che era una collega di mia madre nel laboratorio sartoriale dove entrambe lavoravano duramente per cucire biancheria di seta destinata alle signore borghesi. Il diario della Woolf aveva attirato la mia attenzione per la copertina bianca e il famoso ritratto in bianco e nero custodito alla London National Portrait Gallery. Il libro era su una mensola con la copertina in bella vista, quindi lo presi in mano per sfogliarlo. Un brivido, una scossa, emozioni fortissime si susseguivano a ogni rigo, non riuscivo a smettere di leggere. Così Giorgio, il mio ospite che mi aveva portato a casa di suo fratello Gherardo, un medico che era in viaggio in Asia, mi disse che potevo prenderlo in prestito. Giorgio era un mio compagno di università, ci eravamo conosciuti alle lezioni di Economia Politica del prof. Tullio Biagiotti alla facoltà di Scienze Politiche in via Conservatorio a Milano. Il mercoledì alle 18, quando il professore entrava in aula io e Giorgio uscivamo e iniziavamo a girovagare per il centro di Milano. A volte andavamo in Brera, al bar Jamaica che pullulava ancora di artisti di vario genere e Mamma Lina girava tra i tavoli, a volte andavamo fino alla sede della Statale in Largo Richini e ci fermavamo dallo Stregone, la miglior gelateria che io ricordi di quegli anni, a gustare una coppa dello stregone: gelato, frutta, panna montata. Di cosa parlavamo? Di noi, del nostro futuro, delle nostre relazioni amorose, delle ambizioni artistiche – Giorgio voleva diventare un fotografo alla Cartier-Bresson e una delle sue stampe che mi ha regalato, un camino in una casa di campagna nella bergamasca, è appeso nella mia cucina e mi piace ancora, dopo tutti questi anni trascorsi. Lui fu il mio amico del cuore per il primo anno di università, anche se quella cena l’aveva organizzata con ben altri desideri in mente. Mangiammo un cous-cous buono, bevemmo del vino rosso, ascoltammo musica jazz, e parlammo fino allo sfinimento. Quando ben dopo la mezzanotte tornai a casa avevo nella mia borsa i due preziosi volumi, la Woolf più di tutto. Un mio desiderio aveva trovato dimora nella vita della scrittrice più geniale di tutti i tempi. Ancora oggi, anche se rileggo pagine consumate dagli anni e sottolineate come un aratro fa nella terra, la sento risuonare in me con la stessa forza. Negli anni successivi, e lo faccio ancora oggi, ho continuato a interrogare non solo le opere ma anche le biografie, le autobiografie, gli epistolari e i diari di poeti e poetesse, scrittrice e scrittori alla ricerca di quel qualcosa di imprendibile e misterioso che quelli che scrivono hanno in sé. Non ho trovato risposte definitive, o meglio, ne ho molte e tutte plausibili e valide, ma ciò nonostante continuo nella mia ricerca. So che quando sto per iniziare a scrivere è come se lo sguardo si rivolgesse all'interno di me e sento le parole che mi vengono a cercare, che vengono da un altrove che non so definire, da un silenzio primordiale che mi attraversa e mi sostiene. Questa vita autonoma e selvaggia delle parole e della scrittura può dare l’impressione che le parole siano creature che si scrivono da sole e forse è proprio così. Ma quando scriviamo, le parole che ci hanno cercato e trovato, trascinano con sé il nostro essere profondo, le nostre relazioni, i ricordi, le passioni e le idiosincrasie. Così il significato collassa proprio in quella frase, quella frase che stiamo scrivendo, in un verso che risuona perfetto come se non lo avessimo scritto noi. Il mondo si allarga, assume nuovi significati, e noi siamo creatori e umili scriba allo stesso tempo. La gioia prevale su qualunque altra emozione e diventa sentimento dell’essere, un respiro profondo che espande anche l’anima. Ancora non so perché le parole mi vengono a cercare, so che leggere è stata la pre-condizione che mi ha portata a scrivere. So che lettura e scrittura sono come due solitudini intersecate, quelle di cui ha scritto Ghiannis Ritsos nella poesia L'altra città di cui non ricordo la raccolta e il traduttore, anche questo regalo di un amico, poeta e che ama la poesia, anche se non ne scrive più. Tengo questo dono di Mimmo appesa nella bacheca delle citazioni, su una parete della cucina. La città di Ritsos, la città dei poeti è diventata la città di tutti noi in questi giorni dove primavera e inverno ancora si contendono le nostre giornate luminose e abitate da un silenzio irreale, interrotto solo dalla sirena delle ambulanze, dal gracchiare delle cornacchie, dal suono di un portone aperto e chiuso in maniera furtiva, giusto per vedere com'è la strada di fuori.

Esistono molte solitudini intersecate - dice - sopra e sotto
ed altre in mezzo; diverse o simili, ineluttabili, imposte
o come scelte, come libere - intersecate sempre.
Ma nel profondo, in centro, esiste l'unica solitudine - dice;
una città sorda, quasi sferica, senza alcuna
insegna luminosa colorata, senza negozi, motociclette,
con una luce bianca, vuota, caliginosa, interrotta
da bagliori di segnali sconosciuti. In questa città
da anni dimorano i poeti. Camminano senza far rumore, con
le mani conserte,
ricordano vagamente fatti dimenticati, parole, paesaggi,
questi consolatori del mondo, i sempre sconsolati, braccati
dai cani, dagli uomini, dalle tarme, dai topi, dalle stelle,
inseguiti dalle loro stesse parole, dette o non dette.