Ci hanno insegnato
quando eravamo bambini che sessanta secondi formano un minuto, che sessanta
minuti formano un’ora, che ventiquattro ore formano un giorno.
Che agli equinozi di
primavera e autunno, la notte e il giorno sono uguali.
Che al solstizio d’inverno
appartiene la notte più lunga.
Che al solstizio d’estate
appartiene il giorno più lungo.
La logica del tempo l’abbiamo
imparata e nel tempo ne abbiamo fatto l’esperienza.
Sappiamo quanto siano
belle le mattine d’estate: alzarsi presto, andare al mare quando la spiaggia è
vuota, fare il bagno in un’acqua lucente appena smossa dalle onde, guardare le
case della baia che si illuminano al passaggio del sole, amare quei colori
giallo, arancione e rosso che si alternano al blu, verde e azzurro. Quando finisce
la mattina? Sono la luce allo zenit, il richiamo del cibo, la spiaggia
affollata a dirci che un’altra mattina si è conclusa. E poi?
Conoscere l’estate è
ballare al centro della vita, abbandonarsi alla gioia, respirare l’aria salmastra,
cogliere il fico maturo caldo di sole e mangiarlo dopo averlo aperto con le
mani, restare in spiaggia sino all’ultimo sprazzo di sole, mangiare tonno e
pomodoro, bere aranciata dalla bottiglietta di vetro, mangiare una focaccia con
i pomodori, giocare a carte mettendosi al riparo dal vento, giocare a bocce e
vincere sempre.
Poi la luce da chiara
diventa dorata, il silenzio dei bambini addormentati sotto l’ombrellone ci fa
svegliare di colpo, il mare è increspato, è verde scuro e non più trasparente
come al mattino. Si corre in acqua per togliersi il sonno dagli occhi, un
tuffo, un respiro profondo per allargare i polmoni e le sirene iniziano a
cantare proprio mentre le pensavamo nascoste nell’eternità. Non le vediamo ma
il canto è chiaro e le parole sconosciute, per chi non conosce il greco antico,
si inanellano a fare una ghirlanda che Afrodite indosserà uscendo dall’acqua.
Il terzo tempo di
questa giornata estiva inizia con il sole dormiente che ci lascia a malincuore,
benché sappia che il ritorno da noi è certo nel mattino dopo e che nell’altro
emisfero qualcuno lo sta implorando di apparire. Quando il congedo è ultimato,
tutto intorno, il paesaggio, l’acqua, gli oggetti, le persone, sembrano d’argento
liquido, in una sfumatura di colore che appartiene solo all’estate e a quest’ora
della sera.
Quando la sera indossa
il mantello stellato delle grandi occasioni, ecco che è subito notte, notte
senza fiato passata a parlare fitto fitto con l’amato sulla sabbia umida, a
fare il bagno nella scia argentea della luna che per buona parte del mese se ne
sta nascosta e ci permette di guardare le stelle, la lenta rotazione della galassia,
l’intuizione della nuvola che non aspetta il mattino per solcare il mondo
rovesciato che sta sopra di noi.
Così scopriamo che in
tutte le notti esiste un’estate, come se ogni notte, solo un lembo di tempo, avesse
ereditato tutte le notti e le stagioni precedenti e ci avesse sussurrato nel
buio che niente è rimasto indietro, che tutta la stagione si è contratta nelle
poche ore che il buio ha strappato alla luce. Così scegliamo di seguire la mia
amica Annalisa Manstretta che è poetessa profonda e raffinata.
Primi passi al buio
(Crana, luglio 2007)
C’era stata la faticosa scoperta
di bestie feroci dentro la luce.
Della crudeltà segreta di un raggio di sole
conoscevo tutti i sintomi, ormai,
e riuscivo a difendermi, mi ero fatta prudente,
dunque mi si era avvicinata la notte.
Come vecchia che vive sui monti,
dissodatrice di terre sassose, esperta dell’orto,
maestra nel far da mangiare con poco,
lavorava, non faceva parola, non voleva nulla.
Finita la sua giornata lasciava lì tutto,
abbandonava l’esito al sole.
La mattina aprivo le finestre
su pertiche di terreno soffice, ricco di nutrienti.
Più ancora vale la notte perché cancella le cose,
e ciò che di te rimane senza più luce,
come radici che crescono dentro il terreno,
come l’ispessirsi della corteccia negli alberi,
si nutre di notte, ingrassa,
ti rende più forte: metallo che vale
non teme ribassi perché non dipende da te.
Lo sai che la mente che viaggia da sola è l’arpia più crudele,
non vede né ombra né sole,
un gallo cieco che canta a tutte le ore del giorno.
E senza difese, con sempre più gioia,
abbracciavo la notte. Crescevo.
Mille qualità nasconde la notte
e una di queste è il silenzio.
È semplice e onesto: ovunque cominci
va sempre in un senso, l’altezza.
Ma il buio gira attorno, si inclina,
si allarga, pesa e nasconde.
E non dimori più nella certezza del tuo profilo,
davanti a te l’arpia del buio
ti mangia lo spazio tranquillo del sonno
che unisce il corpo alla mente, la placa.
Girevole il buio è ruotato
sei finita in un’altra delle sue stanze,
senza vecchie. E vengono sempre più avanti.
Quella notte non era già verso l’alba,
non presero il via i canti degli uccelli,
piuttosto, con fredda lentezza, scavavano dentro di te.
Scavavano adagio, con ordine,
e non si turbava il silenzio,
in fondo, non senti nemmeno dolore
e fresche e profumate rimangono le lenzuola,
la nuca si appoggia nel sonno.
Il corpo rimane tranquillo: risponde a un’atavica vita
che tu non puoi in alcun modo soccorrere.
Da solo ci riesce, resiste,
e spunta gli artigli anche al buio.
Ma tu resti inerme, svuotata da unghie, da becchi,
e dentro le tenebre aspetti.
In tutte le notti esiste un’estate,
esiste un inverno, vi sfrecciano raggi incidenti,
si allunga la meridiana del corpo
che sente il girarsi del buio
e scivola non si sa dove,
non è salvata dal muro.
E quando la notte incide la terra
con raggi che piovono dritti dall'alto,
c’è un moto aggressivo del buio,
un sovrappiù di energia si scarica sui teneri corpi nel sonno.
Così succede alle cose
che quando arrivano al culmine si fanno crudeli.
Il corpo fa come la terra: assorbe e riposa
e nel suo riposo lavora, ripara lo scempio dei becchi.
E dentro le tenebre aspetti.
Una notte fatta di notti e di estati. Un’estate fatta di estati, giorni e
notti.
La ripetizione consolida il legame, come per azione, gesto e pensiero umano.
Una nuova estate non è mai solo se stessa ma la somma di tutte le estati
che l’hanno preceduta, l’annuncio delle estati che verranno.
Anche questo secondo giorno di luglio si ripiega e sceglie l’angolo di
memoria dove andare a riporsi. Tornerà non sappiamo quando, sarà un guizzo di
luce, sarà un profumo improvviso di salsedine e anguria, sarà il tuo profumo
che mi sfugge e torna.
A memoria, par coeur, come si dice in francese.
La memoria sta nel cuore, non nel cervello, non nella mente.
Per questo quando ci ricordiamo l’uno dell’altro siamo tinti di rosso, il
colore del sangue e del vino, del tramonto e della rosa.
La poesia di questa Cronaca 116 è di Annalisa Manstretta, tratta da Il sole visto di lato, Atì editore 2012.
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