lunedì 29 aprile 2013

Il romanzo è una grande isola circondata da atolli


...la narrativa non è più sola, come un tempo, a presidiare i cancelli del mondo per spiegarlo, per renderlo leggibile, in una visione d’insieme a tutti quelli che vogliono capirlo. E per almeno tre motivi. Il primo è che il mondo è infinitamente più grande e globale rispetto a quello che conosceva Proust, e addirittura a quello di Tolstoj. Il secondo motivo è che le forme di scrittura sono moltissime. Il romanzo non è più un continente da visitare. Ma è un una grande isola circondata da atolli: e gli atolli sono i social network, e tutte le scritture che conosciamo e che corrono per il mondo. Il terzo motivo è linguistico. Le lingue stanno uniformandosi perché si uniformano i pensieri. E dunque i libri sono sempre più simili tra loro, e spesso lontani per noi.

Roberto Cotroneo
(frammento di un post del 12 maggio 2012 sul suo blog Troppe cravatte sbagliate)

domenica 28 aprile 2013

Scrivere è far emergere la realtà del mondo reale

In 1Q84, come nella maggior parte dei suoi romanzi, il meccanismo viene annunciato fin dall'inizio: esiste un mondo noto ed esiste un mondo sconosciuto fatto di lune aliene, uomini ridotti a crisalidi, creature invisibili che tessono le fila di complotti cosmici. Nell'interazione tra questi due mondi si muovono la storia e i personaggi. In questa fuga infinita ha mai l'impressione di spingersi oltre i confini? Dove finisce la metafora?
Il significato di un romanzo - del fatto di scrivere un romanzo - consiste nel far emergere in maniera più completa possibile, in tutti i suoi aspetti, la realtà del mondo reale, portando in esso la prospettiva di un mondo irreale. E tanto più lungo è il romanzo, quanto più ampia, più profonda e più complessa diventa quest'operazione. Per scrivere questo romanzo ho impiegato quasi tre anni. Ho consumato per quest'opera tre anni della mia vita (malgrado la parte che mi resta da vivere non sia poi tanto grande).

Ne valeva la pena?
Evidentemente per me sì. Per me è la cosa che più conta al mondo.

Ritiene 1Q84 il suo libro più importante?
Nei confronti di un'opera appena terminata non mi soffermo a pensare intensamente. Perché ho già esaurito tutta la mia energia nell'azione di scrivere.

frammenti dell'intervista a Haruki Murakami di Dario Olivero
sul Venerdì di Repubblica del 12 ottobre 2012


sabato 27 aprile 2013

La poesia è lingua della rinuncia e lingua della speranza

Dietro alla lingua di Paul Celan sta l'eco, mai spenta, di un'altra lingua.
Simile a noi, percorrendo, prima di oltrepassarla a una certa ora del giorno, la frontiera tra luce e ombra, la parola di Paul Celan, ai confini di due lingue della stessa taglia - quella della rinuncia e quella della speranza - si muove e si afferma.
Lingua di povertà e lingua di ricchezza.
Da un lato chiarezza; dall'altro oscurità. Ma come distinguerle quando sono così mescolate?

Edmond Jabès su Paul Celan 
nel saggio La memoria delle parole

venerdì 26 aprile 2013

La poesia è l'altro che mi guarda dalle pietre


La poesia è ciò che mi ha dato, come un sesto senso, la sensazione della presenza dell'altro nel mondo circostante. L'altro mi guarda dalle pietre, dalle piante, dagli animali, dalle nuvole, un altro che solo nei momenti di grande stanchezza si chiama nessuno.

Ana Blandiana

giovedì 25 aprile 2013

Il silenzio è musica e poesia

James Joyce aveva l'abitudine di appoggiare l'orecchio al pavimento per ascoltare le voci dei contadini che abitavano al piano di sotto: conversano – diceva – in un idioma così inconsapevolmente ricco di storia e di fascino da costringermi all'ascolto. 
Ma allora si andava a sentire l'Amleto, oggi lo si va a vedere. Tutto – spettacoli, tv, cinema – sembra congiurare contro l'orecchio, che vive nel rumore, frastornato dalla mancanza di silenzio e dunque di musica e poesia.

Andrea Molesini
(da un articolo sul Sole 24Ore dell'11 settembre 2011)

mercoledì 24 aprile 2013

Camminare nel palazzo dei venti

Amore mio, ti sto aspettando. Quanto è lungo un giorno al buio, o una settimana. Il fuoco è spento ormai e io sento un freddo orribile. Forse dovrei trascinarmi fuori ma poi ci sarebbe il sole. Ho paura che sto sprecando la luce per i dipinti e per scrivere queste parole. Moriamo. Moriamo. Moriamo ricchi di amanti e di tribù, di gusti che abbiamo inghiottito, di corpi che abbiamo penetrato risalendoli come fiumi, di paure in cui ci siamo nascosti come in questa caverna stregata. Voglio che tutto ciò resti inciso sul mio corpo. Siamo noi i veri paesi, non le frontiere tracciate sulle mappe con i nomi di uomini potenti. Lo so che tornerai e mi porterai fuori di qui nel palazzo dei venti. Non ho mai voluto altro che camminare in un luogo simile con te, con gli amici. Una terra senza mappe. La lampada si è spenta e sto scrivendo nell'oscurità.

Lettera d'amore nel film Il paziente inglese

martedì 23 aprile 2013

La pioggia di Roma

A Roma piove diversamente. Non è più questione di fronti di passaggio, che si scaricano svanendo all'alba senza la sicurezza di un ritorno. A Roma, è come se la pioggia avesse i suoi umori. A volte si sente un rombo di tuono lontano, quasi impercettibile - un rombo che si ripercuote in circolo di colle in colle - e quando tutto sembra finito il cielo si squarcia come per un cataclisma e stordisce la città con un diluvio di proporzioni bibliche. I temporali che Roma sa adunare dietro le sue cupole non saprei dire se hanno eguali altrove. Altre volte c'è una pioggia gentile, appena un sibilo sui tetti. E poi i contrasti: nuvole nere, sinistre, con bordi splendenti, gonfie come vele contro le cavità celesti. Niente è già deciso, a Roma, quando i raggi del sole passano tra una nuvola e l'altra e inondano le strade. L'incendio del sole che acceca sulle strade bagnate va e viene, così come va e viene la pioggia, per intere giornate. No, a Roma non è questione di fronti di passaggio. La pioggia resta, si attarda, si abbandona, rinnovando la propria energia come se la città stessa generasse i propri rovesci. E tuttavia sa che la pioggia è l'elemento proprio del pensiero. Certo che ho un modo mio, intransitivo, di concepire cosa significa pensare - lasciare che il pensiero affondi nel pensiero della propria origine. C'è un tipo di pensiero che non pensa questo o quello, ma la fonte della relazione tra questo e quello. La pioggia per qualche motivo, mi rammenta questa fonte. Anzi, talvolta mi appare come la fonte stessa. Insomma, quando il pensiero diventa pensoso diventa una forma d'ascolto, e quando ascolta con l'attenzione necessaria, ciò che sente è il suono dell'acqua che cade, o qualcosa che suona come il suono dell'acqua che cade.
Roma è tra le città più pensose, se non altro per aver memorizzato la pioggia nelle sue cento fontane.

Robert Pogue Harrison
Roma, la pioggia...
A che cosa serve la letteratura?
traduzione di Stefano Velotti
Garzanti 1995

lunedì 22 aprile 2013

Romanzo e film: un capitolo è un piano sequenza


Lei ha scritto la sceneggiatura di Spiderman 2 e John Carter: ha influenzato il suo modo di scrivere romanzi?
"È un'esperienza che mi ha arricchito molto, e il capitolo risolto in una singola frase è il corrispettivo di un piano sequenza. Ho pensato all'inizio de
L'infernale Quinlan, nel quale Orson Welles presenta tutti i personaggi con un'inquadratura".

Lei ha dichiarato che una delle sue maggiori influenze è stato Edgar Rice Burroughs, il creatore di Tarzan.
"Da bambino mi ha fatto sognare, ma come scrittore mi sento in debito soprattutto con Raymond Chandler, John Cheever, Barry Hannah ed Eudora Welty".

È vero che scrive sempre di notte?
"Sì, tranne quando ho una scadenza urgente, scrivo tra le 22 e le tre del mattino".

Ritiene che la nostalgia sia una debolezza?

"Lo è se porta a dire che si stava comunque meglio prima. Altrimenti ha con sé qualcosa di miracoloso: ti mette in contatto direttamente con il passato che hai vissuto, indicandoti che qualcosa è sopravvissuto e ti dà la forza".

frammenti dell'intervista di Antonio Monda a Michael Chabon
(Repubblica 13 dicembre 2012)


domenica 21 aprile 2013

... a piedi nudi la pioggia non potrà danzare

Ho visto il nuovo film di François Ozon Nella casa. Mi aspetto sempre grandi cose da lui e il film è un bel film, i protagonisti all'altezza dei personaggi, la storia avvincente. In estrema sintesi è la storia di Germain, un professore di lettere in un liceo, e scrittore fallito per mancanza di talento, che ha pubblicato un unico romanzo "Il bambino della tempesta", e il suo giovane e inquietante allievo Claude che invece di talento straborda. Claude intriga il maturo professore con un tema che racconta la sua ossessione per la casa e la famiglia del compagno di classe Rapha. Germain non resiste al racconto e sempre più avido di storie spinge e sostiene l'allievo in tutti i modi, legali e illegali, che gli vengono in mente. Le storie non sono solo lette da Claude alla moglie Jeanne, gallerista che combatte con l'insensatezza dell'arte contemporanea, ma diventano scene che lo spettatore vive dalla prospettiva dell'intruso Claude. Germain vive dell'amore per la letteratura e il talento di Claude sembra diventare il riscatto del suo fallimento. Per tutto il film Ozon non fa altro che mostrarci il voyeurismo degli artisti, almeno di un certo tipo di artista, che saccheggiano la realtà e le vite degli altri (ricordate anche questo film meraviglioso e perfetto?) come vampiri insaziabili e ne fanno narrazioni e letteratura. Se Czeslaw Milosz scriveva "Quando in una famiglia nasce uno scrittore, per quella famiglia è la fine", Ozon dice che se è lo scrittore a voler spezzare i legami di una famiglia ne uscirà spezzato. Claude conoscerà senza neanche avere pubblicato una parola il sapore del fallimento e Germain la perdita di ogni cosa. Dunque gli scrittori potranno anche essere ladri di vite altrui, ma alla fine loro si limitano a guardare e a scrivere mentre gli altri vivono. Quel che non mi quadrava, già mentre ero nel cinema, è che manca nell'ipotesi di Ozon un elemento fondamentale della creazione letteraria, cioè l'immaginazione. Non basta guardare, ma è necessario guardare, non basta scrivere, bisogna avere letto molto per scrivere e niente di tutto questo basta per scrivere, se l'immaginazione non avvolge ogni scena vista, ogni pagina letta, ogni conversazione ascoltata e le trasforma in visione singolare. Che è appunto quello che fa di un'artista un'artista: la singolarità del suo sguardo. E forse alla fine quel che mi è mancato nel film, è sentire la felicità della scrittura, perché chi scrive lo fa anche per essere felice come possono essere felici quelli che scrivono.

P.S. il titolo del post è un frammento della poesia che il giovane Claude aspirante seduttore ha scritto per la donna che vuole conquistare.

E.P.

Il racconto è bellezza nella brevità

Lei ha scelto di scrivere racconti, genere non amato dagli editori. Perché? «Mi sono formato su autori come Hemingway, Isaac Babel e Sherwood Anderson, che hanno dato il meglio nei racconti. Io credo molto nella brevità come bellezza, e mi affascina l' idea di raccontare in poche pagine qualcosa di compiuto. Se uno pensa a una vita, immagina certamente un romanzo, e per quanto mi riguarda questo è un ulteriore stimolo a sperimentare. Tuttavia, nella mia scelta narrativa, c' è un dato puramente pragmatico: quando ho iniziato a scrivere non avevo un dollaro e dovevo barcamenarmi tra mille occupazioni diverse. Non avevo il tempo di concepire e scrivere qualcosa di lungo». 

Lei è anche un docente: crede che si possa insegnarea scrivere? 
«Il talento non si può insegnare, e credo che nessun docente pensi di poter realmente insegnare a scrivere. Nel mio caso insegno corsi per sei scrittori selezionati da oltre seicento domande: si tratta quindi di autori già di ottimo livello, ai quali offro la mia esperienza come mentore».

frammenti dell'intervista di Antonio MondaGeorge Saunders
(Repubblica 18 gennaio 2013)

sabato 20 aprile 2013

Scrivere significa soprattutto riscrivere

È vero che scrive a mano? Qual è il suo processo di scrittura? 
«Prendo molti appunti a penna, poi scrivo, sempre a penna, i primi abbozzi delle scene. A quel punto trasferisco tutto sul computer per una stesura iniziale ed una prima revisione. Gran parte del mio processo creativo è basato sulla revisione». 

Ed è vero che per cercare l' ispirazione corre? 
«Sì, è vero, ma a volte mi limito a camminare. Credo che sia più comune di quanto si pensi. È un momento di meditazione». 

Recentemente molti scrittori, come Don DeLillo e George Saunders, hanno pubblicato racconti, nonostante la freddezza degli editori verso questa forma letteraria. 
«Ritengo che il motivo per cui i racconti finiscano sempre per essere pubblicati è la loro qualità: pensi all'eccellenza che hanno raggiunto in questa forma espressiva scrittori come Raymond Carver, Tobias Wolff, Anne Beattie, Donald Bartheleme, e Alice Munro. Per quanto mi riguarda amo nei racconti la potenzialità di compressione drammatica: l'equilibrio da raggiungere tra quello che si inserisce e si leva, l'opportunità di presentare personaggi per il minor tempo possibile, ma in maniera vivida». 

Lei è anche una docente: qual è la cosa più importante che si può insegnare ad uno scrittore?
 «Leggere molto e di tutto, godere della lettura e non scoraggiarsi mai». 

Cosa ha imparato dai suoi studenti? 
«L'energia, la capacità di lavoro e l' umorismo. Attualmente sto tenendo un corso sui racconti americani, e apprezzo molto i commenti sulle storie che studiamo insieme». 

In Morte a Venezia Thomas Mann ha scritto che «l' arte è vita ad un livello superiore». 
«Io non credo che l' arte possa essere superiore alla vita. La vedo come un rafforzamento, una stilizzazione, e, spesso, una critica alla vita stessa».

frammenti dell'intervista di Antonia MondaJoyce Carol Oates 
(Repubblica 1 marzo 2013)

venerdì 19 aprile 2013

La parola è la chiave fatata che apre ogni porta


Io sono sicuro che la differenza
fra il mio figliolo e il vostro
non è nella quantità né nella qualità
del tesoro chiuso dentro la mente
e il cuore, ma in qualcosa che è
sulla soglia fra il dentro e il fuori,
anzi è la soglia stessa: la Parola.
Ciò che manca ai miei è solo questo:
il dominio sulla parola.
Sulla parola altrui per afferrarne
l’intima essenza e i confini precisi,
sulla propria perché esprima
le infinite ricchezze che la mente
racchiude. Sono otto anni
che faccio scuola ai contadini
e agli operai e ho lasciato ormai
quasi tutte le altre materie.
Non faccio più che lingua e lingue.
Mi richiamo dieci, venti volte
per sera alle etimologie. Mi fermo
sulle parole, gliele faccio vivere
come persone che hanno una nascita,
uno sviluppo, un trasformarsi,
un deformarsi. La parola è
la chiave fatata che apre ogni porta.
Chiamo uomo
chi è padrone della sua lingua.

Da Lettere di don Lorenzo Milani,
priore di Barbiana (pagine 57-59)
(recuperato sulla rivista Due Parole diretta da Tullio De Mauro)

giovedì 18 aprile 2013

Il cammino e la rosa: la poesia

Se tu cammini a passo d'uomo, puoi apprezzare una rosa nei suoi minimi dettagli.

Pierluigi Cappello

mercoledì 17 aprile 2013

La casa della narrativa non ha una finestra sola, ma un milione


La casa della narrativa – non ha una finestra sola, ma un milione – un numero quasi incalcolabile di possibili finestre, ognuna delle quali è stata aperta o è ancora apribile, sulla sua vasta fronte, dalla necessità della visione e dalla pressione della volontà individuale.
Queste aperture, di forma e misure dissimili, danno tutte sulla scena umana, sì che ci si potrebbe aspettare, da esse, una identità di riproduzione maggiore di quella che troviamo. Esse sono finestre nel migliore dei casi o altrimenti meri fori in un muro morto, sconnessi, collocati in alto; non sono porte coi cardini che si aprano direttamente sulla vita. Ma hanno questa caratteristica, che ad ognuna di esse v’è una figura con un paio d’occhi o almeno con un binocolo, che costituisce uno strumento unico di osservazione, il quale assicura a chi ne fa uso un’impressione distinta da ogni altra. Lui e i suoi vicini osservano lo stesso spettacolo, ma uno vede di più là dove un altro vede di meno, uno vede nero là dove un altro vede bianco, uno vede grande là dove un altro vede piccolo.
E così via di seguito: fortunatamente non è dato dire dove, per un particolare paio d’occhi, la finestra non si possa aprire: “fortunatamente” in virtù, precisamente, di questa incalcolabilità di raggio. Il campo che si estende, la scena umana, è la “scelta del soggetto”; ma, sia da sola che insieme ad altre, essa non è nulla senza la presenza dell’osservatore – senza, in altre parole, la coscienza dell’artista.
Henry James, 
prefazione a Ritratto di signora
in Le Prefazioni, a cura di Agostino Lombardo, Neri Pozza, 1956.

martedì 16 aprile 2013

Nella stanza della coscienza

L’esperienza non è mai limitata e non è mai completa; è una sensibilità immensa, una sorta di enorme ragnatela di sottilissimi fili di seta, sospesa nella stanza della coscienza, che cattura nel suo tessuto ogni particella portata dall’aria.

Henry James ne L’arte della narrativa del 1884 citato da Edoardo Boncinelli 
ne La Lettura del Corriere della Sera

lunedì 15 aprile 2013

Mentre lui la scriveva la pagina si scriveva

Proust era infaticabile, dove lo trovava il tempo per scrivere tanto e darsi alla vita mondana è per me un mistero. Traduceva Ruskin, scriveva saggi critici, un romanzo, Jean Santeuil , e poi lettere, diari... Scriveva la Recherche e la correggeva nello stesso tempo. Dalle correzioni che Proust faceva alle bozze del suo romanzo - che soltanto a guardarle sulla pagina per gli infiniti richiami, riporti e ghirigori facevano impazzire i tipografi - si capisce che la pagina cresceva quasi per conto suo, come una pasta che sta lievitando. Mentre lui la scriveva la pagina si scriveva. E le sue correzioni nascevano da una mai soddisfatta osservazione del mondo, delle persone, della società, degli oggetti, che lui guardava con lo sguardo con cui guardava i campanili di Illiers, le sue epifanie...

Raffaele La Capria
(Proust, maestro senza allievi italiani, Corriere della Sera del 26/11/2012)

domenica 14 aprile 2013

L'arte dello scrivere

Scrivere è un lavoro stabile come qualunque altro. 
La routine attiva l’immaginazione. 
È per così dire un esprimersi verso l’interno anziché verso l’esterno.

(...)


La parte di scrittura che mi diverte di più è immancabilmente quella che non dovrei fare, tanto da dare a volte il piacere del proibito. 
Mi piace lavorare alla stessa cosa per molto tempo, tornandoci ripetutamente, aggiungendo, sottraendo e modificando, ascoltando i consigli di editor e amici, fino a quando non riesco più a guardarla, che è poi il momento in cui capisco di aver concluso. Scrivere è un lavoro che richiede molta manodopera. 
Ci vuole tanto tempo – e una grande resistenza alla noia, alla frustrazione e all’autoflagellazione – per arrivare a concludere qualcosa. Dopodiché si tenta di venderla a un mondo che non sa di volerla.
George Orwell parla, tra il perplesso e il divertito, di coloro che decidono semplicemente di scrivere senza sapere esattamente di cosa. 
Nessuno scrittore lo sa, né vorrebbe saperlo. Avverte probabilmente un impulso a esprimersi e comincia a scrivere per esplorarlo, scoprirlo. Per creare una personalità. È una modalità di gioco più dialettica che programmatica.
 Scrivere un saggio, per me, rappresenta l’opportunità di passeggiare e pensare, oltre che di immergermi nella mia biblioteca. 
È un’occasione per continuare a fare lo studente – che è la cosa più bella del mondo – tentando nel frattempo di scoprire se ho qualcosa da dire.
Hanif Kureishi 
(frammenti dell'articolo The art of writing pubblicato su Internazionale il 18 novembre 2011)

sabato 13 aprile 2013

Lo stile è la ricerca dell'uno attraverso il molteplice

Quando frugo fra gli scaffali di una libreria per acquistare un romanzo, leggo tre paragrafi scelti a caso, distanti fra loro. 
Ci deve essere qualcosa, in quelle tre frasi compiute ma non contigue, che mi dice, e con forza, che appartengono allo stesso libro. 
Quel qualcosa è lo stile, ciò che unifica. 
Lo stile è la ricerca dell'uno attraverso il molteplice.

Andrea Molesini
da un articolo sul Sole 24Ore dell'11 settembre 2011

venerdì 12 aprile 2013

Scrivere è esplorare il proprio mondo interiore, leggere anche


«A volte succede che la ricerca interiore di uno scrittore coincida con la ricerca interiore non di pochi lettori, ma di una moltitudine. Murakami è evidentemente in sintonia con un modo di interrogarsi, di studiare le proprie angosce e i propri desideri diffuso in ogni parte del mondo. Esprime una sensibilità che è allo stesso tempo personale e collettiva. Ciò che lo rende unico, e che forse può spiegare il suo grande successo sia presso i lettori forti che tra i consumatori di best-seller, è l'originalità con cui interpreta un mood collettivo:  questo lo rende uno scrittore esclusivo e popolare al tempo stesso».

«Il tipico lettore di libri di consumo si aspetta da un romanzo soprattutto evasione. Il lettore di Murakami prova l'ebbrezza di allontanarsi dal proprio mondo per evadere in una dimensione separata dalla propria quotidianità, ma mentre si addentra in questo spazio fantastico, si accorge di compiere contemporaneamente un'esplorazione del proprio mondo interiore. Lo si potrebbe descrivere come un rapporto tra microcosmo e macrocosmo».

Eppure, malgrado sia a tutti gli effetti una star, Murakami non si è fatto risucchiare dalla fiera delle vanità del successo... 
«Se ne è difeso continuando a vivere come aveva sempre fatto, in modo riservato e centellinando le apparizioni pubbliche. Ha solo aumentato i periodi di permanenza all'estero. Credo che ormai viva sempre meno in Giappone. Dai suoi libri si percepisce chiaramente che non gli interessa il mondo delle celebrities ma la vitae l'umanità delle persone ordinarie. Perché, nonostante le proiezioni autobiografiche evidenti in molte sue opere, Murakami non è uno scrittore narcisista. Non scrive per sete di gratificazione, come invece fanno molti scrittori o aspiranti scrittori sempre ostili nei suoi confronti, ma per necessità».

frammenti dell'articolo di oggi su Repubblica dove Franco Marcoaldi parla di Haruki Murakami con il nipponista Giorgio Amitrano che è anche il suo eccellente traduttore

giovedì 11 aprile 2013

Il blocco dello scrittore


Se hai abbastanza tempo per scrivere ma ti mancano semplicemente le idee, fai passare un po’ di tempo. Aspetta il momento in cui la storia uscirà da sola. Vedrai che prima o poi succederà. Il blocco è una parte inevitabile del processo creativo, per quanto possa essere indesiderato e sgradevole.
Milana Runjic

(Internazionale, numero 870, 29 ottobre 2010)

mercoledì 10 aprile 2013

L'arte di scrivere: essere curiosi e capaci di assumersi dei rischi

La scienza e l’arte di scrivere hanno parecchie cose in comune. Riguardano la curiosità, la capacità di assumersi dei rischi, e l’inclinazione ad affermare verità che nove persone su dieci smentiranno

Cormac McCarthy

(citato da Serena Danna sul Corriere della Sera nell'articolo La scrittrice che insegna come trasformare le formule in poesia dedicato a Meehan Crist, la primas writer-in-residence della Columbia University)

martedì 9 aprile 2013

I miracoli del verde

I miracoli del verde
a Philippe Jaccottet, un ritorno
Ai miracoli del verde solo
un poeta in esilio può dare
ancora credito e forse ragione.
Io ci riesco solo se giro le
spalle e distolgo lo sguardo
dall’umano. Allora gli alberi
parlano, all’improvviso li
sento parlare. Raccontano una
storia di strati orizzontali che la
gravità non ferma, ad ogni
anello nel cerchio corrisponde
una testa di bambino che cresce,
esce da scuola per cinque anni e
poi saluta e non torna più.
Gli alberi conoscono le storie
degli uccelli che nidificano tra
i rami alti e spiccano il volo, ma
non è al volo che si appassionano.
Ogni albero conosce la caduta,
foglia dopo foglia e nella
foglia riconosce il volo, quel che
gli alberi impazziscono per
sapere e di questo narrano leggende
arboree, sapendo com’è stare saldi
sulla terra, incapaci a vincere la
gravità se non un passo alla volta
come facciamo noi.
È questa nostalgia dell’impossibile
cammino a far sì che gli alberi
amino noi umani e li fa sorridere
se cadiamo in un attimo a faccia
in giù come quella foglia. Perché
nostra è la risalita e nostra questa
terra scura che ci sostiene.

Questa è la poesia che chiude la seconda sezione - Il giardino che non conosce il male - del mio terzo libro di poesie
 
Figure del silenzio - Atì editore 2010

E.P.

lunedì 8 aprile 2013

E per i dialoghi, rileggere Proust

Una saga stile Buddenbrook, ma non in seicento pagine!
Per la parte russa, questione di metodo, rileggere I fratelli Karamazov.
Per evitare il matter of facts, rileggere gli studi di letteratura inglese di André Chevrillon e i romanzi di Galsworthy.
Per ritratti ben riusciti, rileggere i Mémoires d'outre-tombe.
E per i dialoghi, rileggere Proust. 
Non si inventerà mai niente di meglio.

Irène Némirovsky
citazione tratta dalla biografia
La vita di Irène Némirovsky di Olivier Philipponat e Patrick Lienhardt
Adelphi 2009                                   

domenica 7 aprile 2013

La scrittura è un flusso che procede dall'esterno verso l'interno


Il paese delle vocali La foto di Orta sono due romanzi apparentemente molto diversi l’uno dall’altro, ma in cui si possono trovare molti elementi di raccordo soprattutto nel grande valore che ha l’uso della parola. Ne Il paese delle vocali il dialetto diventa un’esperienza centrale ed è attivo all’interno della narrazione, cioè è l’elemento essenziale dell’affabulazione, perché è l’unico elemento grazie al quale possono comunicare e nominare le cose coloro che vivono in condizioni veramente disagiate dato che le uniche parole che conoscono sono queste. D’altronde è anche un dialetto non mimetico ma spesso arricchito da intarsi che provengono dall’immaginario. Che valore ha per lei questo uso diffuso del dialetto? Per quanto riguarda La foto di Orta, a mio parere, costituisce un passaggio preziosissimo per comprendere l’universo affascinante della sua scrittura. Considerando che temi centrali sono il passato e la memoria, che ruolo hanno per lei l’immaginazione e l’invenzione?
Io sono cresciuta in un ambiente nel quale si parlava solo in dialetto, un dialetto contadino, molto arcaico, pieno di suoni cupi. Una delle prime cose che ho colto è che il dialetto è una lingua che non si chiude. Il dialetto per me è quella lingua che non ho mai potuto parlare liberamente da piccola perché i grandi sgridavano noi bambini se parlavamo in dialetto; per me è stato quindi una scoperta nel momento in cui mi sono posta il problema di quale lingua usare. Certo io sono italiana, ma avevo anche altre esperienze linguistiche, il castellano, ad esempio, che parlo quando sono in Argentina. E poi c’è un’altra lingua, la lingua materna, lingua ormai frequentata raramente, lingua legata alla memoria, lingua carnosa e vicina ad esperienze concrete. In Di corno o d’oro ho mescolato queste mie tre lingue e nei miei libri successivi ho sperimentato le altre me-scolanze possibili, cercando la parola giusta per la cosa che in quel momento mi premeva dire. Il dialetto per me ha senso solo per questo motivo, dato che è la lingua della mia appartenenza e a cui io sono legata affettivamente; è una delle tante lingue possibili a cui io chiedo quello che cerco quando parlo o scrivo. Per quanto riguarda l’immaginazione, non a caso è stato citato un brano che parla di una fotografia. Io credo che una delle doti dello scrittore sia la grande capacità di osservazione, che è ciò che ti permette di immedesimarti nell’altro, in un altro personaggio. Solo osservando attentamente ogni persona, cogliendo piccoli dettagli, sarei capace di farci su almeno sei o sette film, lasciandomi coinvolgere dall’esterno e dalla gente che mi circonda. A mio parere la scrittura è un flusso che procede non dall’interno verso l’esterno ma viceversa.

Laura Pariani 
frammento di un intervista collettiva agli studenti di un laboratorio di scrittura condotti dalla professoressa Domenica Perrone (vedi il sito Lo specchio di carta)

L'illusione di essere soli

Stare soli è un'illusione, si è abitati da infiniti luoghi e persone.

Silvina Ocampo nelle parole di Laura Pariani
oggi pomeriggio alla Libreria delle donne di Milano

La scrittura è un luogo privato

Quando scrive le capita di immaginare la reazione di chi la leggerà?

«La scrittura è un luogo privato, nel quale non permetto a nessuno di entrare. Non penso mai alla pubblicazione ed è per questo che ho così tanti manoscritti chiusi in un cassetto, quasi come la stanza segreta di Barbablù. La maggior parte della mia produzione letteraria non è stato pubblicata. Quando dico che la scrittura mi ha salvata non voglio usare una metafora vuota. Nel mio caso è tecnicamente vero. Penso che continuerei a scrivere anche se, per disgrazia, non avessi più un editore». 

Finora la sua vena creativa non si è esaurita. Non pensa mai di prendersi un anno di pausa tra un titolo e l' altro? 


«Non potrei farlo, rovinerei la mia salute. Da più di vent' anni ho lo stesso rito quotidiano. Sveglia alle quattro del mattino, tè nero a digiuno e almeno quattro ore di scrittura. Carta e penna, senza computer. Poi vado nel mio ufficio per rispondere alle lettere che mi arrivano. Senza questa routine sarei persa». 

Barbablù è il suo ventunesimo romanzo. È riuscita a individuare un filo conduttore in tutti i suoi libri? 

«Di solito inizio pensando a due persone e a come si possono scontrare. Mi interessa il tema del conflitto, la relazione problematica all'altro che soggiace al desiderio e, in definitiva, anche al senso dell' esistenza».


Amélie Nothomb intervistata da Anais Ginori 
su Repubblica di oggi 6 aprile 2013
in occasione dell'uscita del nuovo romanzo 
Barbablù
traduzione di Monica Capuani
Voland edizioni 2013

venerdì 5 aprile 2013

Il realismo è insufficiente è divenire poesia

Il sogno occupa gli spazi che dividono il poeta dalla bellezza: allaccia la natura con il sovrannaturale. Poeticamente, la verità non è il reale, la verità è il possibile. Il realismo, in quanto non rispetta che uno solo dei due termini entro cui vive l'atto poetico, è insufficiente a divenire poesia. 
Solo nel mare libero del possibile, dagli orizzonti decisi eppure eternamente variabili, dov'è sempre aleatoria e indeterminabile la guerra di conquista (Italiam fugientem, ma che non scappa più, quando il poeta conosce i poli, gli angoli, le direzioni, il preciso orientamento del suo sogno), l'immaginazione ha pieno diritto di esistenza. La fantasia, invece, occupa la terraferma, il dominio del reale, del certo e del solido.

Giovanni Macchia
Baudelaire e la poetica della malinconia
Edizioni Scientifiche italiane 1961

giovedì 4 aprile 2013

Scrivere è essere soli

Scrivere, è essere soli, non come un uomo è solo, ma come un uomo è morto.

Franz Kafka

mercoledì 3 aprile 2013

Imparare a scrivere con Shakespeare

Lei viene lodata per il suo stile, non solo perché racconta i Tudor con il tempo presente, ma perché scrive straordinariamente bene. Dove o come ha imparato?
«Da Shakespeare. Sembra un cliché, ma è così. Sono cresciuta in una casa senza libri, ma anche lì a un certo punto entrò non so come una vecchia edizione del Giulio Cesare di Shakespeare. Ricordo ancora quando lessi la scena in cui Marco Antonio, con il corpo di Cesare appena ucciso, spinge la folla contro Bruto e Cassio. Tutto quello che ho scritto viene da quella scena, il potere di un leader carismatico sulla folla, l'arte della retorica, il punto della svolta in cui tutto cambia».

Ma a parte il Bardo, chi l'ha ispirata?
«Ho letto di tutto, tanto, voracemente, storia, poesia, narrativa. Ma i miei contemporanei li ho letti tardi, solo quando ero già adulta».

Le piace Jane Austen, nel duecentesimo anniversario di Orgoglio e pregiudizio?
«Mi piacciono la sua sottigliezza e il suo umorismo. Ma più di tutto, in Orgoglio e pregiudizio, mi piace Lidia, la storia della sorella che scappa e ne combina di tutti i colori. Ha ragione lei, sono attirata più dai cattivi che dai buoni».

E Virginia Woolf?
«Amo i suoi diari, ma non i suoi romanzi. Mi interessa di più la sua vita che le sue storie. Leggendole divento impaziente, vorrei meno emozione, più azione. Ma forse non ero ancora pronta per la Woolf. Forse un giorno lo sarò».

Che cos'ha di diverso una scrittrice da uno scrittore?
«Per conto mio, niente. Certo quando scrivi trasporti sulla pagina una parte di te stesso. Ma la migliore scrittura avviene quando la tua personalità viene spazzata via. Ho letto di un famoso scrittore inglese che si fa mettere uno specchio davanti alla scrivania, mentre scrive. Ebbene io, al contrario, indosserei una maschera per scomparire, diventare un'altra. Ma non ne ho bisogno, perché indosso una maschera virtuale».

frammenti dell'intervista a Hilary Mantel di Enrico Franceschini su Repubblica del 3 aprile 2013in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo 
Anna Bolena, una questione di famiglia
traduzione di Giuseppina Oneto
Fazi editore 2013


martedì 2 aprile 2013

Le mie undici parole preferite

Le mie undici parole preferite (almeno credo):

1) Vento
2) Luce
3) Silenzio
4) Mare
5) Viaggio
6) Rosa
7) Libro
8) Tempo
9) Voce
10) Ombra
11) Scrivere

E.P.

lunedì 1 aprile 2013

Di spazio e di solitudine

Per provare un senso di libertà interiore bisogna disporre di spazio e di solitudine. A ciò si aggiunga l'essere padroni del proprio tempo, il silenzio totale, una vita dura e lo spettacolo della bellezza naturale. La risultante di queste conquiste conduce direttamente alla capanna.

Sylvain Tesson
Nelle foreste siberiane
traduzione di Roberta Ferrara
Sellerio 2012