sabato 25 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/139: all’ombra dell’ibisco rosso non dormono le fanciulle in fiore


Tre come le sorelle che vivono nella casa sulla spiaggia, tre come le lune che risplendono nel nostro cielo, tre come i delfini che saltano nel nostro mare, tre come i tentativi di aprire il mio cuore all’alba e al vento.

Inizia così un racconto che sto scrivendo, leggo questo incipit alla poetessa, alla regina e alla sacerdotessa. Non mi pare di averle molto colpite, Margot sbadiglia, le altre abbassano lo sguardo.

Chiedo loro perché siano così indifferenti e tiepide.

- Ma che dici! Mi riprende subito la poetessa, è che la storia la conosciamo molto bene anche noi.

- Di che storia state parlando? È una mia invenzione…

- La storia delle figlie del colonello non è una tua invenzione. È una storia che esiste nell’ampio arcipelago delle storie che sono già state scritte, prosegue la sacerdotessa.

Bisogna che io mi fermi un istante a pensare, qui siamo quattro donne e tutte e quattro scriviamo. Caterina la narratrice, che sono io, la regina Margot, la sacerdotessa Héloïse e Anna la poetessa, che interferisce di continuo con la mia scrittura e io con la sua tanto, che a volte, credo che siamo la stessa persona.


Qualche volta mi fermo sotto una parola
Precario riparo per la mia voce che trema
Che lotta contro la sabbia
Ma dove è la mia dimora.


Le figlie del colonnello erano tre, nate nel giro di tre anni e rimaste orfane alla nascita di Emilie. Colette e Simone pretendevano di avere un seppur vago ricordo della madre, mentre Emilie si consumava nel senso di colpa alimentato dai singhiozzi del padre che in lei rivedeva l’amatissima moglie Catherine. Dato che il colonnello Chabon era spesso via per le esercitazioni, le bambine crescevano nella casa di campagna in compagnia di un’istitutrice ciascuna e delle visite del parroco e di sua sorella Marie-Angèle che portavano loro il conforto della religione.
In casa imparavano il francese, il latino, l’inglese, il russo e il tedesco perché la madre aveva fatto giurare al marito che le figlie avrebbero dovuto imparare almeno tre lingue ciascuna. Suonavano il pianoforte, ricamavano, cucivano da sé gli abiti e imparavano anche a cucinare perché in quella grande casa di campagna si erano persi i confini tra la servitù e la vita borghese. Il colonnello faceva le sue apparizioni con regolarità e a ogni visita veniva scattata una fotografia che lo ritraeva con le figlie, così che un’intera parete del suo studio si andava riempiendo delle loro immagini. Un’intera fila, quasi vicino al soffitto, ritraeva anche la madre che era bellissima come Emilie e sembrava felice vicino al colonnello che era tanto più grande di lei. Le bambine amavano guardare le fotografie e commentare gli abiti della madre e i gioielli che il padre aveva detto che un giorno sarebbero stati divisi tra loro tre. Quel che l’uomo non scoprì mai è che le bambine scoprirono molto presto il nascondiglio della chiave della camera della loro madre e che iniziarono a visitarla di nascosto, senza che nessuno lo scoprisse mai. Sì perché la camera e il boudoir della madre confinavano con il guardaroba nella  camera delle bambine e solo un paravento celava la porta di comunicazione. Fu facile trovare la prima chiave sotto la lampada nello studio del padre e poi, una volta nel boudoir, aprire da quel lato la porta e potersi muovere con agio da un ambiente all’altro e curiosare tra gli oggetti della madre defunta. Trovarono e provarono gli abiti delle fotografie, i gioielli, gli ampi cappelli che erano ormai passati di moda, le pellicce, i guanti di capretto e i ventagli di piume. Lunghissimi file di perle dalle sfumatura che andavano dal bianco più puro al rosa, all’avorio e al grigio erano la passione di Emilie, Colette e Simone ardevano più per le acque marine, gli smeraldi e i diamanti così, pensavano, non sarebbe stato difficile dividere i gioielli una volta diventate grandi. Il trumeau di Catherine, la madre, custodiva non solo i cofanetti con i gioielli ma anche i diari che ancora le bambine non riuscivano a leggere perché erano scritti in russo.
Si dava, infatti, che Catherine fosse russa da parte di madre che, a sua volta, era figlia di una nobildonna tedesca che era dama alla corte dello zar. Quando la padronanza della lingua consentì loro di leggere i diari materni, una vita sfavillante alla corte dello zar, la vita della nonna e della madre bambina, si dispiegava sotto i loro occhi. Ce n’era abbastanza perché le storie si moltiplicassero grazie alla loro fantasia e ufficiali di cavalleria facessero vorticare in un valzer senza fine le loro antenate.
La vita scorreva così, ricca e senza particolari intoppi sino a quando il colonello, ormai in là con gli anni, cadde da cavallo e si fratturò le ossa del collo. L’agonia fu breve, i funerali solenni e rapidi, la lettura del testamento non interruppe la semplicità della loro vita. Colette era già maggiorenne ed era stata nominata tutrice delle sorelle sino al compimento della maggiore età. Momento nel quale, si dissero, avrebbero lasciato la dimora paterna per andare a vivere a Parigi. Ma quando Simone compì i fatidici ventuno anni, nessuna delle tre accennò all’antico patto e rimasero tranquille a vivere con le tre istitutrici che invecchiavano con grazia e la gioia di quella vita confortevole e protetta dalle brutture del mondo. Sino a quando, una sera, un messaggero a cavallo aveva bussato alla loro porta. Non fu il messaggero a turbare la quiete, né tanto meno il messaggio, era la firma in fondo al messaggio che diceva:

“Caro marito, torno a scrivervi presso la casa di campagna perché l’ultima missiva recapitata presso il vostro reggimento è stata respinta. Ho pensato che forse avete raggiunto l’età della pensione e che vi siete ritirato nella casa che tanto amate insieme alle nostre bambine. Vi chiedo ancora una volta di ascoltare le mie ragioni e di darmi la possibilità di riabbracciare le mie figlie. La Vostra devota, anche se voi non mi credete, moglie e amica fedele Catherine”.


Alla fine di questo racconto che stavo imbastendo intervenne ancora Anna la poetessa.


Partire partire
Non sono una che resta
La casa il giardino così amati
Non sono mai dietro ma sempre davanti
Nella splendida nebbia
Sconosciuta.


E questa poesia? Chiede Margot la regina.

È la poesia di Catherine, una di quelle persone che non sanno restare e amano l’alba ammantata di nebbia e non quella sconvolta dal sole. L’ora azzurra del giorno nascente ha un gusto diverso ogni stagione. L’azzurro è della primavera e dell’inverno, il grigio dell’autunno e il rosa dell’estate.

Così sono rimasta imbrigliata nella mia stessa rete e devo continuare a inseguire questa storia e a scriverla per voi che mi leggete e per me stessa, perseguitata da tutte le parole, dette, non dette o solo immaginate.



Le due poesie di questa Cronaca 139 sono di Anne Perrier e le ho tradotte io.
Il titolo deriva dal titolo di un vecchio racconto “Le figlie dell’ibisco rosso” iniziato tanti anni fa e rimasto in sospeso.


Je m'arrête parfois sous un mot
Précaire abri à ma voix qui tremble
Et qui lutte contre le sable
Mais où est ma demeure



Partir partir
Je ne suis pas de ceux qui restent
La maison le jardin tant aimés
Ne sont jamais derrière mais devant
Dans la splendide brume
Inconnue

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