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martedì 8 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/702. Come un lupo è il vento


 


 

Amo il vento, quello reale, quello cantato dai poeti, quello atteso quando si è in mare aperto. Ieri è stata una giornata di vento inatteso e inusuale qui a Milano, un vento cattivo che ha ferito persone, abbattuto alberi, cornicioni, danneggiato staccionate, muri e tetti. Per fortuna non dovevo uscire e non l’ho fatto, ma ho visto anche sui poveri alberi nella mia strada, l’effetto ventoso di questo evento anomalo. Una volta il vento a Milano era talmente raro da essere una festa, ne ho scritto talmente tante volte, sia nei romanzi che nelle poesie, soprattutto nelle poesie, dove il vento è spesso uno dei protagonisti dei miei versi e che ho anche usato nel titolo del mio quarto libro Scrivere il vento, per l’appunto. Quando c’è il vento qui nella città mai più silenziosa la prima poesia che mi viene sempre in mente è questa di Attilio Bertolucci tratta dalla raccolta Sirio del 1929:

 

Vento


Come un lupo è il vento
che cala dai monti al piano,
corica nei campi il grano
ovunque passa è sgomento.
Fischia nei mattini chiari
illuminando case e orizzonti,
sconvolge l’acqua nelle fonti
caccia gli uomini ai ripari.
Poi, stanco s’addormenta e uno stupore
prende le cose, come dopo l’amore.



Quando il vento smette di soffiare è proprio lo stupore che resta e il silenzio, un silenzio diverso dal silenzio precedente. Mi viene in mente una giornata ventosa e letteraria del settembre della terza media, quando avevo letto su una rivista femminile un racconto che si intitolava (forse) “Stasera scrivo una lettera a Mauro” e la protagonista femminile si chiamava Elena. Mi ero così emozionata, come se fosse un segno del destino, perché Mauro era il ragazzo per cui avevo una cotta, come qualche altra decine di ragazzine, perché lui piaceva a tutte, aveva i capelli biondi lunghi e suonava la chitarra. Tra le altre fan c’era una cattivissima compagna di classe, tale Antonella che con la sua sodale Laura (mi ricordo i cognomi di tutti, ma non sarebbe gentile scriverli), si appropriò del mio diario da me sbadatamente lasciato sotto il banco durante l’ora di ginnastica. Quando tornai in classe mi accorsi subito che il diario era stato spostato ma non mi aspettavo certo di trovare le pagine strappate. Credo di avere litigato con le due compagne di classe, quel racconto non riuscii mai più a recuperarlo e rileggerlo, ma quell’aura della giornata di settembre ventosa e amorosa è rimasto in me, intatta, come se davvero io avessi vissuto nel racconto. Non so che fine abbiano fatto gli altri protagonisti di questa breve storia, certo Antonella resterà la ladra di racconti e Laura l’aiutante stupida. E che dire di lui? Posso dire solo che era bello e che suonava bene la chitarra. Chiudo così questa giornata senza più vento, dove i ricordi tornano a posarsi come polvere e foglie secche nella città della memoria. 

Oggi è martedì 8 febbraio del terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 702 ancora corre nel vento.

lunedì 6 dicembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/638. Fuori la notte scende con passi di volpe

 


Storie dell’Avvento/3. Hans dei lupi e dei mirtilli


Non aveva ancora deciso se preferiva raccogliere i mirtilli, affondare le dite tra i rami e far cadere i frutti nel cestino o chinarsi a raccogliere le fragoline di bosco che si nascondevano dietro le foglie. Così si offriva sempre di andare per i boschi a raccogliere quei piccoli frutti e tanti riusciva a portarne a casa, tanti ne aveva mangiati durante la raccolta. Fu durante uno di quei giri che un’estate, Hans aveva trovato dei cavalletti di filo spinato arrugginito e dei cartelli in una lingua straniera con un alfabeto strano che non aveva mai visto. Quando tornò a casa chiese alla mamma di quei cavalletti e dei cartelli indecifrabili e la mamma gli aveva raccontato che un tempo quello era un confine con un grande paese che si chiamava Unione Sovietica, ma che non esisteva più da ben prima della sua nascita. Hans amava le vecchie storie, ma sembrava che nessuno conoscesse la storia di quello specifico confine, così dopo qualche giorno era tornato a curiosare senza dire niente a casa. Erano ormai passati diversi anni da quell’estate e tutto il paesaggio intorno era innevato, anche se l’inverno ancora non era arrivato. In tarda mattinata, quando era ancora a scuola, il bambino iniziava a programmare un altro pezzetto di esplorazione della grande casa di Sollia. Nonna gli aveva detto che c’era stata una grande riunione segreta di uomini importanti, ma che la casa era crollata sotto il peso di una tremenda nevicata durante una tempesta, quando il nuovo secolo era appena iniziato. Ma sbagliava anche nonna, il cielo bianco della stagione fredda custodiva bene quel segreto. La grande casa bianca non era crollata, era stata solo inghiottita dal bosco e quando gli ultimi proprietari avevano chiuso l’albergo, se ne erano andati in città lasciando tutte le loro cose lì. O forse non se ne erano andati, forse erano scappati, o erano morti. Il confine tra i due stati attraversava la casa a zig-zag, così in cucina stavi in Norvegia e in salotto in Unione Sovietica. Hans lo sapeva perché nello studio del signor Einar aveva trovato diverse mappe molto dettagliate e carteggi di uomini politici importanti in quel lontano passato. Non aveva mai svelato a nessuno di quei ritrovamenti, così la casa di Sollia era diventata il suo rifugio, dove d’estate si fermava anche a dormire, quando la famiglia pensava che lui fosse in giro per i boschi a caccia. Nell’armadio della signora Astrid, la moglie di Einar, erano custoditi abiti di tutti i decenni del secolo Ventesimo. Fossero esistiti ancora i musei quella casa sarebbe stata già un museo. Invece, era la sua casa segreta, la casa dove un giorno sarebbe andato ad abitare. O da dove sarebbe fuggito, un giorno. Nella dispensa aveva accumulato barattoli di marmellata di mirtilli e di fragole che aveva imparato a fare guardando la nonna e la mamma innumerevoli estati. Aveva conservato anche farina, sale e zucchero, strutto, carne secca e aringhe sotto sale. Poteva resistere tutta la stagione fredda con quel cibo e poi rinnovare le scorte. Aveva esplorato tutta la casa e nella grande biblioteca c’erano molti più libri di quanti ne avrebbe mai potuti leggere in tutta la vita. Aveva trovato anche un corso di russo e diverse grammatiche che si potevano studiare utilizzando delle cassette, come aveva visto fare nei vecchi film. Ora che era diventato abbastanza grande per la caccia, aveva comunicato in famiglia che sarebbe partito alla ricerca di volpi artiche e di lupi. Ne aveva già avvistati parecchi, ma non aveva cuore di ucciderli. Anzi, quando si avvicinavano alla casa buttava sempre dei pezzi di carne per sfamarli. Il branco, piccolo, aveva imparato a fidarsi e aspettava che il vecchio maschio alfa si avvicinasse fino al cancello che recintava il giardino e poi anche gli altri si avvicinavano. C’erano la sua compagna, altre tre femmine di età diverse e un solo maschio giovane, troppo giovane per allontanarsi dalla famiglia. Indietro restava sempre un altro lupo, così vecchio che maschio o femmina era impossibile dirlo. Quando la carne secca cominciò a scarseggiare, Hans decise di andare a caccia e non gli fu difficile abbattere un cervo. Dopo averlo scuoiato e smembrato, aveva portato via la carne e il grasso che riusciva trasportare sullo slittino e aveva lasciato la carcassa ai lupi che gradirono molto. La pelle del cervo avrebbe potuto conciarla per farne pantaloni e una giacca nuova per l’estate. Ma quel giorno non vedeva l’ora di tornare a casa per leggere Čërnyj monah, il racconto il monaco nero di Anton Čechov che aveva già letto tradotto e che aveva deciso di leggere in originale, ora che padroneggiava piuttosto bene la lingua russa. In lontananza sentiva i lupi ululare, la neve aveva ricominciato a scendere, attizzò il fuoco e si sedette alla scrivania. Aveva deciso che leggere non gli bastava, doveva anche copiare quelle frasi per impadronirsi della lingua e di quella storia. La pendola del salotto batté le due del pomeriggio, fuori la notte scendeva con passi di volpe.

 

Oggi è lunedì 6 dicembre del secondo anno senza Carnevale e le Storie dell’Avvento continuano a presentarsi alla mia porta, così anche questa Cronaca 638 si rotola nella neve come un cucciolo.

domenica 5 dicembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/637. Dove la grande frontiera cede sotto il peso dei tortellini

 


 

Storie dell’Avvento/2. La maestra Margherita e la biblioteca sugli Appennini

 

La stazione era così piccola e così poco importante che non costruirono il muro intorno se non quando tutta la frontiera era già stata definita e nei paesi più grandi la gente cercava di scappare, ma era troppo tardi. La casa cantoniera, di mattoni rossi, con il tetto di tegole rosse, le imposte e le porte verdi e bianche sembrava una di quelle casette delle favole fatte di canditi e pan di zenzero. Quando le due squadre di muratori, una che arrivava da est e l’altra da ovest furono a pochi metri dal giardino, si fermarono a pranzare e a decidere se far passare il muro davanti o dietro la casa. Quando la signora Margherita li aveva invitati a mangiare i tortellini in brodo col pezzo di parmigiano intero e il cappone, agli operai non era sembrato vero. E mica c’erano solo i tortellini, la padrona di casa aveva fatto anche lo stinco di maiale al forno con le patate e dei tortelli alla crema che si scioglievano in bocca. Aveva servito anche del Lambrusco non troppo vivace e lasciato che gli operai si prendessero tutto il tempo per mangiare e fare anche una pennichella. Mentre dormivano tutti, lei sussurrò nelle orecchie dei due capomastri la soluzione per finire di costruire il muro. Senza più consultarsi le due squadre terminarono il lavoro e così quella che arrivava da est finì il muro contro lo spigolo della facciata che guardava a sud e la squadra che veniva da ovest, aveva finito il muro contro lo spigolo della facciata nord. Così si entrava da una parte e si usciva dall’altra, cosa che tutto il paese e la regione seppero nel giro di pochi mesi, ma che nessuno si sognò di segnalare all’autorità suprema. Con il tipico spirito che aveva contraddistinto quell’antica nazione che si chiamava Italia, non c’era legge o norma o regolamento che non potesse essere battuto dal sano pragmatismo che aveva permesso al popolo di sopravvivere a qualunque forma di potere. Anche quando la pandemia dell’inizio del terzo decennio del secolo aveva fatto implodere l’ordine costituito, e non solo in Italia ma in tutto il mondo, i sopravvissuti avevano dovuto fare i conti con l’interruzione di qualunque rete di comunicazione per parecchio tempo. All’inizio fu il panico, perché dopo quella che sembrava una normalizzazione, il coronavirus era esploso con una forza che neanche l’influenza spagnola aveva avuto nel secolo precedente, quando aveva sterminato circa l’otto per cento della popolazione mondiale. Nel giro di pochi mesi la popolazione era dimezzata, le pire funebri offuscavano tutti i cieli del pianeta, la società cercava di riorganizzarsi intorno ai sopravvissuti. Sparirono tutti quei mestieri legati alla società iperconnessa, basta marketing e pubblicità, basta moda e intrattenimento. Le metropoli erano diventate monumentali deserti battuti dal vento e dai cani inselvatichiti che si muovevano in branco a cercare cibo. La vita era diventata possibile solo nei piccoli centri agricoli e manifatturieri e bisognava sperare che non arrivassero bande di giovinastri a cercare di rubare il cibo. Ma bande di giovinastri non ce n’erano, perché il virus aveva colpito soprattutto i giovani e i bambini e risparmiato gli anziani. Per fortuna dei sopravvissuti c’erano molti che ancora sapevano fare lavori manuali e c’erano infermiere e dottori, qualche militare e gente che sapeva cucire e cucinare, badare agli animali, mucche, pecore e maiali non mancavano, così come non mancavano gli orti e i campi di grano che potevano essere coltivati con grande fatica, ma qualcosa cominciava a funzionare quando la grande frontiera era stata disegnata per tenere lontani quelli che arrivavano da sud e che spesso, erano portatori del virus. Le scorte di cibo accatastate nei paesi ancora non erano finite, sarebbero bastate ancora per qualche anno, ammesso che dopo qualche anno ci fossero ancora sopravvissuti in giro. Quando Margherita aveva visto i muratori aveva deciso di dare fondo alla dispensa, convinta che ormai non sarebbe vissuta ancora a lungo. Invece, le cose andarono meglio, erano stati ripristinati i telegrafi e le radio per tenersi in contatto. Nei paesini venivano usati di nuovo i piccioni viaggiatori e il mondo occidentale si era ritrovato a vivere come se la rivoluzione industriale non fosse ancora iniziata. Margherita era una maestra in pensione e ci vollero un paio d’anni prima che ci fossero abbastanza bambini e ragazzi da far studiare a Modigliana. Lei era contenta che il paese si fosse ripopolato e che i comuni della Romagna fossero riusciti a federarsi con quelli dell’Emilia, ma ognuno era padrone della propria terra e della lingua. Anche la biblioteca aveva riaperto e c’erano abbastanza libri e vecchi film per poter raccontare com’era il mondo prima della nuova era.

 

Oggi è domenica 5 dicembre del secondo anno senza Carnevale e una nuova storia ha bussato alle porte della mia Cronaca 637 che un po’ si sente medioevale e un po’ futurista.

sabato 4 dicembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/636. Sciogliere i capelli insieme al nome

 

Storie dell’Avvento/1. Mi chiamo Anja

 

Erano solo le cinque del pomeriggio, ma tutta la città era avvolta nella nebbia. Agnieszka chiuse l’armadietto di metallo dove teneva gli abiti da lavoro cercando di tenere a bada il tremore delle mani. Doveva immaginare che il mattino successivo alle otto sarebbe ritornata in fabbrica e poi nell’ufficio delle contabili a battere al computer fatture e bolle di consegna per tutto il giorno. A sua madre aveva detto che sarebbe andata a dormire a casa di Ewa dopo il cinema. Loro due abitavano nella periferia opposta di Cracovia e non era la prima volta che l’amica l’avrebbe ospitata. Ma quella volta Ewa non sapeva nulla, dopo il lavoro Agnieszka aveva appuntamento con Janusz che aveva appena finito il turno anche lui. Si sarebbero visti nell’antica birreria di Podgorze dove già erano stati altre volte. Neanche Janusz sapeva nulla e lei voleva vederlo un’ultima volta, dopo avere continuato a non dire nulla della sua scelta. La sirena della fabbrica ululò per la terza volta nella nebbia e, come sempre, la ragazza immaginò di abitare già in riva al Baltico, in una città portuale in mezzo a tanti stranieri dove nessuno l’avrebbe notata. Il tremore alle mani le era passato e si rallegrò per il sangue freddo, anche se aveva spesso pensato che il suo sangue fosse tiepido più che freddo. Non c’era davvero nessuno che la potesse tenere legata alla città natale. Non sua madre, una donna silenziosa persa nei rimpianti della propria gioventù durante gli anni di Danzica e Solidarność. Suo padre doveva averlo conosciuto proprio in quel periodo, anche se non era mai riuscita a farsi raccontare niente. Riusciva a immaginarlo quel padre, le bastava guardarsi allo specchio e accorciare i capelli ricci, ombreggiare le guance e il mento con una fitta barba ed ecco che paparino emergeva dal passato che lei non conosceva. A sua madre non assomigliava neanche da bambina, quindi doveva essere tutta suo padre. Le poche amiche, a parte Ewa, erano soprattutto colleghe dell’ufficio, non le sarebbero mancate. E Janusz? Lui lo conosceva da poco, si piacevano, ma non era innamorata, e la vita che stava facendo non le piaceva più. Doveva partire, lo sapeva di dover partire e quella notte lo avrebbe fatto. Aveva portato il solito zainetto da lavoro con un paio di pantaloni e un maglioncino, un libro di Adam Zagajeveski, i dollari che andava accumulando da quando aveva iniziato a lavorare cambiandoli al mercato nero. Aveva deciso di andare a piedi al locale dove aveva appuntamento con Janusz, aveva capito di dover partire la settimana precedente, quando stava a leggere le solite notizie su internet e si era ritrovata a battere i pugni chiusi sul ripiano del tavolo. Si era anche fatta male, sua madre non aveva sentito niente, presa com’era a guardare uno dei programmi sui nuovi talenti della canzone che tanto le piacevano. Cosa aveva che non andava lei? Perché non era mai contenta? Perché non era mai stata contenta della sua vita? La maggior parte della gente non solo si accontentava, ma era contenta della vita che faceva. Anche se i giorni si ripetevano uguali uno dopo l’altro. “È la vita, figlia mia”, le diceva sua madre. Vita? Respirare, alzarsi, lavorare, tornare a casa, guardare la televisione? È vita questa? Ma che razza di vita?

Arrivò alla Ślepa Latarnia in ritardo e Janusz non c’era e non arrivò neanche nella mezz’ora successiva. Forse le aveva mandato un messaggio sul cellulare, ma lei lo aveva lasciato apposta a casa. Non voleva essere rintracciata e le tracce del cellulare erano le prime che avrebbero seguito, quando sua madre sarebbe andata a denunciare la sua scomparsa. Uscì dal locale e si fermò a guardare le luci riflesse nelle acque della Vistola. Pensò che neanche il fiume le sarebbe mancato, era ora di andare al luogo dell’appuntamento. Il passaporto, tedesco e falso, era nel portafoglio. Se anche l’avessero fermata avrebbe risposto in un tedesco impeccabile, a qualcosa sarebbe pur servito l’avere studiato le lingue per così tanti anni. I suoi documenti autentici li aveva fatti a pezzetti e gettati in acqua non appena uscita dal lavoro, la carta di credito era nel cassetto della scrivania. Sperava che pensassero a un rapimento finito male. Scosse i lunghi ricci castani e insieme anche il nome: Agnieszka aveva cessato di esistere e dalla sua mente era nata Anja. Non tutti avevano la fortuna di nascere due volte come lei aveva scelto di fare. Alle spalle della fabbrica di Oskar Schindler, la BMW le fece il segnale concordato con i fanali. Anja accelerò il passo, il lungo viaggio stava iniziando.

 

Questa Cronaca 636 di sabato 4 dicembre del secondo anno senza Carnevale inaugura una serie di racconti dell’Avvento che mi è venuta in mente in questi giorni, mentre lasciavo correre i pensieri a caccia di idee per le Cronache. Spero di avervi incuriositi.

venerdì 13 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/523. Il fuoco è una danza che inizieremo di notte

 


 

Storie del Mediterraneo/2

Eravamo ancora sdraiati intorno al fuoco, Philippe non parlava e Magali non gli chiese più niente. Le fiamme crepitavano e le scintille salivano verso il cielo stellato creando questo gioco di specchi, per cui sembrava che fossero le stelle a caderci negli occhi. Poi, Philippe iniziò a parlare.

-      Non ho molto da raccontare, nella vita ho sempre fatto le cose che mi venivano richieste dalla famiglia e dalla società. Ho studiato con ottimi risultati, sono laureato in economia, lavoro in una grande società di investimenti, ho avuto molte relazioni, ma solo due storie importanti. Qualche mese fa ho lasciato la mia ultima ragazza perché non avevo altro da dirle, non sapevo cosa dirle e anche lei con me si annoiava. Conosco Luis e Michel dai tempi dell’asilo. Siamo inseparabili come i tre moschettieri, abbiamo studiato sempre insieme sino all’università, quando loro due hanno preso strade diverse, Michel architettura e Luis medicina. Alla fine ognuno di noi ha seguito le orme paterne, come si diceva un tempo. A volte penso di essere nato vecchio, perché non ho mai avuto il desiderio di fare cose diverse da quelle che ho fatto. Non mi sono mai drogato, non bevo… sono un tipo troppo normale e banale e attiro solo donne normali e banali. Forse c’è qualcosa di più, forse posso aspettarmi qualcosa di più. Non sono mai stato un grande lettore, le storie mi interessano poco, però qualche romanzo, soprattutto i classici, li ho letti da ragazzo. Ma ho sempre sperato che la vita andasse oltre, che ci fosse un altrove dove sperimentare la felicità. E invece… adesso ogni tanto leggo qualche romanzo contemporaneo, e più ne leggo, più penso che il nostro mondo sia sempre meno interessante, sempre più banale e che sono stati fortunati quelli nati nei secoli precedenti. Certo, lo so che non avevano vite facili, ma credevano sempre in qualcosa, fosse Dio, il Re o la Scienza, o ancora l’Arte. Avevano principi solidi e obiettivi, i principi solidi li ho anch’io, ma perché me li hanno inculcati sin da bambino e mi chiedo sempre più spesso chi io sia davvero… un conformista, un uomo agiato che non ha mai dovuto rischiare nulla. Questa traversata del Mediterraneo in barca, con l’essenziale per vivere, senza una mèta precisa, ma solo con le mappe e il sestante per orientarci, è la cosa più avventurosa che mi sia mai capitata. Devo ringraziare i miei amici che in barca sanno andarci, fosse stato per me, sarei sdraiato sulla stessa spiaggia in Costa Azzurra anche quest’anno.

Era vero che ci conoscevamo da sempre, ma non avrei mai immaginato che Philippe vivesse con questo carico di noia esistenziale, con questa mancanza di senso e mi dispiaceva, perché né io né Luis lo avevamo capito o immaginato, perché noi facevamo un lavoro in cui ci riconoscevamo e avevamo ancora fede nella scienza se non in Dio.

Lasciammo che il fuoco si spegnesse, l’aria della notte era ancora tiepida e senza i bagliori delle fiamme intorno a noi, potevamo immergerci nella stellata che ci sovrastava e che, guardandola fissa, sembrava che stesse cadendo su di noi. Dagli alberi dietro il capanno di Magali i grilli iniziarono a sussurrare il loro canto e io pensavo a quanto ero fortunato ad amare le case e a poterne costruire e ristrutturare diverse ogni anno. Forse Philippe doveva cambiare lavoro, ma non avevo idea di cosa avrebbe potuto fare visti i suoi studi. Ero curioso di sapere cosa avrebbe raccontato Luis, ma nessuno parlava e ci addormentammo. Sognai di danzare in cerchio intorno a un fuoco enorme con i miei amici e Magali, eravamo vestiti di pelli e avevamo strisce rosse e nere sulle guance e sul petto e la parte superiore del viso era pitturata di bianco. Sembravamo dei selvaggi, forse erano solo le nostre anime che chiedevano di essere liberate.

Fu l’alba a svegliarmi, mentre tutti dormivano andai a bagnarmi alla fontana, non volevo allontanarmi, sentivo che fare tutto insieme fosse la cosa più importante in quel momento. Magali dormiva sul fianco destro, i lunghi capelli sparsi intorno come una coperta, aveva mani lunghe e bellissime che non avevo notato il giorno prima. Sapevo che avrei potuto innamorarmi di lei, ma forse sarebbe stata la cosa più scontata, non volevo che accadesse, almeno non volevo che accadesse subito.

Continua così questa nuova avventura nell’isola misteriosa con la Cronaca 523 di venerdì 13 agosto del secondo anno senza Carnevale. Con questo caldo scrivere è strappare ogni parola all’ombra del pomeriggio, ma non riesco a non farlo, devo scoprire anch’io chi sono queste persone e cosa succederà loro.

lunedì 14 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/463. Quattro storie, un unico mondo

 



È mattina presto, il mare già scintilla in lontananza ed è ben visibile dalla grande terrazza da cui si può abbracciare con lo sguardo tutto il golfo Paradiso. La villa era stata costruita oltre la massicciata della ferrovia e per arrivare alla spiaggia, sotto la Basilica di Santa Maria Assunta,  bisognava seguire una tortuosa discesa su mille piccole scale. Tanto era bella la terrazza, tanto la casa aveva molti limiti, il soggiorno con la cucina a vista non aveva finestre dato che era stato edificato a ridosso della parete di roccia; la seconda camera da letto era minuscola e non molto gradevole. Invece, era molto bella la camera da letto padronale che era arredata con vecchi mobili di inizio Novecento ed era soleggiata solo al mattino, mentre di pomeriggio si poteva godere di una frescura che conciliava il sonno. La donna infilò un costume da bagno senza spalline e un caftano, entrambi neri e decorati con ghirigori rossi e bianchi, cambiò i sandali con degli zoccoli da mare, prese la borsa con l’asciugamano, l’Ambra Solare all’olio di cocco e il libro Dell’Aurora della filosofa Maria Zambrano. Scese sino alla cancellata e venne investita dal profumo degli oleandri, si chiuse il cancello alle spalle, attraversò la strada e iniziò a scendere verso il mare. Il profumo di salsedine, di alghe e di pesce era sempre più intenso e i caruggi ombreggiati e l’improvvisa frescura, davano sollievo dal caldo che era esploso a metà giugno, un po’ in anticipo sulla stagione. In spiaggia c’era poca gente, riuscì a sistemarsi in un angolo tranquillo e andò subito a tuffarsi. Nuotò a lungo, si immerse sotto la superficie del mare, emerse e si lasciò ricoprire dalle onde. Era bello nuotare, era felice come un delfino, poi tornò a riva, raccolse qualche sasso per la sua collezione di sassi con la striscia bianca e si lasciò andare sul telo da mare. Le girava la testa, si spalmò di olio al cocco senza neanche farsi la doccia e aprì il libro della Zambrano e una nuova aurora nacque dal mare e la trascinò con sé.

Stava sorgendo di nuovo l’alba, sorgeva ogni giorno, in ogni stagione, puntuale ma ogni giorno diversa perché diversi erano i colori che l’accompagnavano. Dopo il colore argenteo dei primi minuti, era la coltre di nuvole a determinare il colore del cielo. La donna restò qualche minuto alla finestra, ma poi decise di scendere in giardino e di spingersi sino all’angolo delle rose. Era a pieni nudi e la rugiada fresca era piacevole. Il profumo delle rose era intenso e la macchia di colore dei petali sfumato, anche perché non aveva indossato di proposito gli occhiali e nel suo sguardo miope tutto si amalgamava e confondeva. Le Montagne della Nebbia, avvolte nella bruma mattutina, si stagliavano in lontananza a nord ovest, mentre a est era il rumore del mare ad attirare la sua attenzione. Si sedette sulla panca di pietra e chiuse gli occhi e si ritrovò a volare verso le montagne, mentre il mare scintillava sullo sfondo. Anche le rose lo capirono e intensificarono il loro profumo, un modo per dire che erano sempre con lei.

In paese c’era una grande negozio mai visto prima, dove la ragazza era entrata con sua madre. Mentre avevano iniziato a scegliere quale pane comprare e quali dolci, silenzioso dietro di loro, sbucò il padre che fece cenno alla figlia di non parlare perché voleva fare una sorpresa a sua moglie. Così le appoggiò il mento su una spalla, sorridendo, e la donna si voltò di colpo e anche lei sorrise e si scambiarono un bacio d’amore. Il viso di entrambi era liscio, lui non portava i baffi, dovevano essere vicini ai trent’anni e anche la figlia aveva trent’anni, ma questo non la preoccupava, anzi, le sembrava bello essere diventata grande come i suoi genitori.



In una mattina di giugno, il 14 giugno del secondo anno senza Carnevale, la donna stava ancora dormendo, quando sua cognata le telefonò e le propose di uscire a bere un caffè. Benché avesse dormito poche ore perché aveva scritto e letto sino a quando i primi uccellini iniziarono ad annunciare l’alba, accettò l’invito. In tempi rapidi e per lei inusuali si lavò, si vestì e raggiunse l’altra donna nel baretto sotto casa dove lei fece colazione con cappuccino e brioche, mentre la cognata bevve un ginseng in tazza grande. Poi andarono insieme nel nuovo negozio, l’unico negozio di ortofrutta che non si affacciava sulla strada, ma in un cortile interno di un palazzo vecchia Milano in una delle strade più belle e caratteristiche della città. Così anche la donna che era stata risvegliata dal telefono, comprò pomodori costoluti, cipolle rosse di Tropea, cetrioli, banane e ciliegie. Quell’atmosfera così diversa da qualunque altro negozio, la bellezza di frutta e verdura, che era anche squisita, come ebbe modo di appurare una volta tornata a casa e preparato il pranzo, le era piaciuta molto. Prima, però, terminò il lavoro che doveva fare nella mattina e fu contenta di avere qualcosa da raccontare per la Cronaca 463.

 

Quattro micro racconti: una vera cronaca, un ricordo, un’immaginazione e un sogno. Nessuna di queste storie è davvero solo mia, ma è come se lo fosse, ora che il buio è di nuovo padrone di questo angolo di mondo.

martedì 18 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/436. Passammo l’estate su una spiaggia solitaria…

 


 

Andammo alla spiaggia dei Conigli la prima volta che viaggiammo insieme. La stagione era appena all’inizio e ancora non c’erano turisti. La traversata da Agrigento era stata tranquilla, l’approdo veloce e senza scossoni. Non conoscevamo ancora Lampedusa all’epoca e le dittature tenevano ancor ben saldi gli abitanti schiacciati nel giogo del loro potere, così i profughi arrivati in barca ancora non erano una questione bruciante. Il piccolo hotel dove eravamo scesi dava sulla spiaggia della Guitgia, bastava attraversare la stradina asfaltata e la spiaggia deserta si offriva ai turisti con il porticciolo in vista. Era già magnifica lì quell’isoletta, ma sapevamo che c’erano altre spiagge e calette da andare a vedere e dove nuotare. Così decidemmo di visitarne una al giorno e dopo la tranquilla esperienza della Guitgia affittammo una piccola auto scoperta e arrivammo in prossimità dell’isola dei Conigli. Benché fosse ancora mattina presto il sole si faceva sentire e fu un sollievo arrivare in riva al mare e correre subito nell’acqua. All’epoca i nidi delle tartarughine caretta caretta non erano ancora recintate, ma si veniva comunque avvisati e bastava stare attenti quando si stendevano gli asciugamani. L’acqua era fresca e limpida come acqua di sorgente e noi entravamo e uscivamo e ci riposavamo dopo avere nuotato a lungo. Facemmo il giro dell’isola in barca nei giorni successivi, i pescatori cucinavano sempre degli ottimi sughi con il pescato, si finiva il pranzo con una fetta di anguria e si restava inebriati da un vinello bianco un po’ frizzante e dal sole e dal vento. La musica di quell’estate fu l’album di Franco Battiato La voce del padrone, e non c’è canzone che non mi riporti in un angolo di quell’isola.

Questo piccolo racconto senza protagonisti mi è venuto in mente quando ho saputo della morte di Battiato questa mattina, un artista che mi è sempre piaciuto e che ho visto in concerto una sola volta a Milano, nel gennaio 1982 con mio fratello Alessandro e nostro cugino Gianfranco.

Le spiagge solitarie e l’estate sono da sempre al centro delle mie passioni, con le spiagge di Lampedusa potrei iniziare una nuova lista come mi piace fare. Ma oggi sto in bilico tra la mattina splendente che ci aveva restituito la primavera e questo pomeriggio piovoso e ventoso più consono alla tristezza per questa morte. È proprio vero che questi anni di pandemia si stanno portando via il meglio del Novecento e anche la nostra gioventù.

 

 

Un colpo sull’incudine per liberare la poesia

 

Frammenti di tempo che sono

riusciti a splendere prima

dell’oscurità, questo noi

siamo, e per questo amiamo

le stelle che cadono e i vulcani

che le accolgono, là dove

trova casa anche la poesia

e aspetta che Efesto la liberi

con un colpo sull’incudine e

la affidi a Hermes e Apollo,

coloro che la portano nel mondo

dei mortali dove soffiano, ormai,

i nostri venti della sera.

 

Con le spiagge solitarie della mia vita, con le stelle, con la poesia, ricordo la voce e le parole di Franco Battiato e so di non essere sola nel ricordarlo. Oggi è martedì 18 maggio 2021, il secondo anno senza Carnevale.

venerdì 7 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/425. Le gemelle senza voce e le ninfee in fondo al giardino

 


 

Non ci era riuscita al primo tentativo e neanche al secondo. Tagliare gli abiti per la donna di pietra che dormiva in giardino non era semplice. Doveva immaginare come ogni pezza di seta sarebbe caduta dalle spalle ai piedi e ridurre dove ce ne sarebbe stata troppa e aggiungere per fare le pieghe che avrebbero coperto le gambe. Tessa aveva dipinto la statua sino a farla sembrare una creatura viva e addormentata. Cressida, la sarta, aveva anche scolpito il marmo, per lei erano le forme a scaturire dalle mani, per Tessa i colori ed erano i colori che disegnavano le forme sulla tela. Quando si guardavano potevano credere di essere di fronte a uno specchio, anche l’idea della terza gemella di pietra l’avevano pensata nello stesso momento. Erano poi andate insieme a cercare il marmo e Tessa aveva guardato in silenzio mentre Cressida entrava nelle venature e lasciava che quella sorella addormentata prendesse forma nella pietra che avevano scelto per lei. Si erano interrogate a lungo su quale soluzione fosse la migliore: scolpire anche la panca di pietra insieme alla dormiente o farne due pezzi separati. Cressida decise per i due pezzi separati, se un giorno avessero voluto portarla a casa e metterla a dormire in sala da pranzo, sarebbe stato molto più semplice. Per la seduta scelsero una delle panche in pietra del giardino, il contrasto con la statua sarebbe stato ancora più acceso e avrebbe reso somigliante al vero la terza ragazza che in quel giardino abitava.

 

 

Questa vita di incendi e tramonti

 

Sorella, sorella senza

voce e senza destino,

non ho abiti da poterti

prestare così li cucio,

uno ogni giorno e poi ti

vesto. Già un giovane

uomo torna a guardarti,

non ha capito che il tuo

sonno è l’origine stessa

della tua vita. Non lo

faremo entrare, non ancora,

ma è necessario che gli

abiti siano uguali tra noi

e te, che mai ci parlerai

e aprirai gli occhi e

respirerai. Sorella, sorella

che sogna ogni ora,

custodisci per noi questa

vita di incendi e tramonti,

questa vita che nella pietra

trova rifugio e nei nostri

colori la più nuda verità.

 

 

Così abbiamo imparato che le fanciulle sono tre e non due, che quella addormentata è la replica esatta delle gemelle e che forse un giorno si sveglierà e si unirà a loro nell’atelier, dove disegnano cartamodelli, tagliano le sete e i broccati e poi indossano abiti identici al suo, tagliato per quelle spalle reclinate, per quella schiena che chiama le rondini a posarsi e poi le invita a spiccare il volo. In fondo al giardino le libellule sfiorano le ninfee e i cigni sfilano aggraziati nel lago. La perfezione non è nello specchio, ma nel doppio che gemelle hanno accanto.

Anche l’immagine di questa Cronaca 425, di venerdì 7 maggio del secondo anno senza Carnevale, è un dipinto di Andrey Remnev. Cosa accadrà alle gemelle, mi parleranno ancora?

giovedì 6 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/424. Le rondini d’oro e l’incendio della sera

 


La ragazza dormiva a braccia conserte su un tavolo di pietra, la testa appoggiata sulla sommità e il viso rivolto verso il cancello. La vidi per la prima volta una mattina molto presto, c’erano ancora i canti dell’alba che risuonavano dai nidi e le rondini sfrecciavano intorno a lei, senza svegliarla. Mi chiesi come potesse dormire con quel festoso frastuono, mi fermai qualche istante ancora, ma lei non si svegliò. Il giorno successivo passai di nuovo davanti alla villa, era quasi mezzogiorno e la ragazza dormiva nella stessa posizione del giorno prima. Non c’erano più le rondini a sfrecciare nel cielo, ma il suo sonno sembrava protetto dalla medesima veglia della natura intorno che sembrava volerla proteggere. Poi fu che non ci pensassi più, salvo incrociare la sua via andando verso il caffè dove mi ero dato appuntamento con gli amici. Mi fermai al cancello e la ragazza dormiva sempre, sembrava che non si fosse mai mossa, il viso era rilassato e di un bell’incarnato, la vestaglia giapponese bianca a rosa, ricamata con grossi fiori viola e oro, nella luce morbida del pomeriggio luccicava ancora di più. Rimasi fermo per qualche istante, ma lei non si mosse neanche quel giorno, così ripresi la mia strada. Fu solo la settimana successiva che notai un cambiamento, la vestaglia, forse era davvero un kimono, era turchese e verde smeraldo. Sulla schiena si intravedevano delle canne di bambù ricamate finemente, di un verde più tenue ombreggiato di un color giada che faceva rilucere la figurina addormentata. Da quel giorno non potei fare a meno di passare per controllare che quel sonno fosse sempre profondo e protetto dal fitto giardino che circondava la villa. La vestaglia di seta, la prima volta che passai da lì al tramonto, era rosso fuoco, striata di arancione, l’insieme dava l’idea di un incendio appena scoppiato. La ragazza dormiva sempre, mi chiesi una volta di più cosa stesse sognando, battei la punta del bastone contro la cancellata, ma a sfrecciare via furono le rondini che volavano basse, mentre lei non si mosse. Fu nella quarta settimana che la mia impazienza ruppe indugi e scrupoli, girando intorno alla villa avevo intravisto la possibilità di arrampicarmi sul muro di cinta e poi da lì appendermi a un ippocastano dall’aria robusta e lasciarmi poi dondolare giù sul prato. Ero certo che non ci fossero cani da guardia, né giardinieri che avrebbero potuto fermare la mia intrusione. Quel pomeriggio la ragazza indossava una vestaglia di seta nera ricamata con delle rondini dorate. Il suo sonno imperscrutabile non cambiava mai e io ero deciso ad assistere al suo risveglio. Mi sedetti al riparo di un cespuglio poco distante dal tavolo di pietra e dalla fanciulla addormentata. E poi accadde che il grande portone di legno intarsiato della villa si aprisse e sulla soglia apparisse una fanciulla identica a quella che stava dormendo. Sugli avambracci tesi portava un chimono di broccato arancione e oro, copia identica a quello che lei stessa indossava. Fu un attimo e tutto un frullare di ali, perché le rondini d’oro posate sulla fanciulla addormentata presero il volo. Ma lei non si mosse, non poteva muoversi, era una fanciulla scolpita nel marmo e dipinta con una tale maestria da sembrare viva. Chi aveva compiuto quel miracolo compositivo aveva certo studiato le antiche sculture greche che, benché giunte a noi prive di colori, ne conservano tracce quasi invisibili. Lo sapevo per averne letto in un libro studiato ai tempi dell’università. Il miracolo della fanciulla addormentata era ancor più intenso per via della vestaglia di seta. Quella viva indossava una vestaglia dal taglio tradizionale, mentre quella per la sua sosia che sempre dormiva, era tagliata e cucita in maniera tale da caderle addosso con pieghe perfette. Il corpo era roseo e perfetto, i piccoli seni sbocciavano da un petto elegante come le spalle e il collo. Guardai la fanciulla, che era ormai accanto alla sua sosia e non ebbi più dubbio alcuno che lei ne fosse stata il modello. Con gesti rapidi e sicuri aveva denudato la statua e sostituito la vestaglia. Poi si era seduta accanto, sulla panchina e aveva assunto la stessa posizione. Le rondini dorate, che vidi di nuovo solo per qualche istante, si posarono sulle mani delle due ragazze. Anche l’altra, quella che respirava, si era addormentata e il mio occhio non riusciva più a staccarsi. Temetti di stare impazzendo perché capii di essermi innamorato, ma non della fanciulla di carne viva. Io bramavo quell’essere di pietra che chiamava a sé le rondini d’oro e l’incendio della sera. Sentii un cigolio e vidi che il grande cancello era aperto, qualcuno mi stava invitando a lasciare il giardino e le fanciulle addormentate. Imboccai così il sentiero con in cuore la promessa di tornare l’indomani. Volevo svelare quel mistero e baciare quelle labbra più fresche anche dell’ultima rosa.

 

Ho scritto questa Cronaca 424 suggestionata dall’immagine del quadro High Water del pittore russo Andrey Remnev che ho scoperto su Facebook grazie a Jean-Philippe de Tonnac. Scrivere a partire da un’immagine è un percorso che sto facendo con Valentina Durante e Giulio Mozzi, che ringrazio. Le immagini ci parlano e non sappiamo perché, noi rispondiamo con le parole, che delle immagini sono compagne. Oggi è giovedì 6 maggio del secondo anno senza Carnevale.

martedì 30 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/387. Ricordi di altre vite che non sono la mia

 



La bambina correva ai margini del campo, gli ulivi erano un oceano d’argento e i mandorli bianchi e rosa, soffici e immensi quanto le nuvole nel cielo. Ogni tanto saltava la bambina, e le sembrava di toccare il punto più alto nella volta celeste e saltando perdeva i fiocchi dalle trecce e il piccolo annaffiatoio di metallo smaltato, ruzzolava lungo la discesa verso il canale di irrigazione. Quando arrivò al pozzo lo riempì e tornò indietro fino al piccolo recinto dove aveva trapiantato i garofanini che tanto le piacevano. Finito di innaffiare andò a sedersi sotto un mandorlo e lasciò che l’aria profumata la inebriasse, che il ronzio delle api e dei bombi sovrastasse i pensieri e che il mondo intero andasse a rifugiarsi con lei sotto i rami fioriti. Aprì poi il fazzoletto che le aveva dato mamma e la focaccia con i pomodorini, sfornata quella mattina stessa, sprigionò l’aroma familiare e si fece divorare a bocconi piccoli e sistematici. Sapeva, la bambina, che dopo la bellezza dei fiori ci sarebbe stata la bontà dei frutti, sapeva che avrebbe aiutato a sgusciarli e che l’avrebbero pagata. Ma non c’era niente di più bello della fioritura dei mandorli e così pensando sapeva che avrebbe voluto restare là sotto per sempre, che forse, un giorno, avrebbe raccontato a sua figlia quel momento e allora sarebbero state in due a conoscere quel segreto della fioritura dei mandorli e della bellezza che muore per diventare nutrimento.

 

Il bambino uscì da casa della nonna con il cavalletto in spalla e la cassetta dei colori, enorme e spropositata rispetto alla sua magrezza, salda nella mano. A casa si era esercitato tantissimo, copiava e ricopiava i quadri dello zio Peppe e anche i disegni. Ma era arrivato, finalmente, il momento di una prova dal vero. Lo zio diceva che era divertente ma non necessario. Chi aveva occhio, e un bravo pittore lo aveva, non aveva davvero bisogno di guardare le cose e il mondo in natura, gli bastava guardare attraverso lo sguardo di un altro pittore. Per questo lui era così bravo a copiare Van Gogh e non solo. Ma il bambino, che era quasi un ragazzino ormai, aveva deciso di mettere alla prova le teorie dello zio, l’unico che lo capisse in casa, e andare nel campo di grano a dipingere, non da lontano, ma proprio da dentro. E così fece, e dipinse le spighe come Vincent non le aveva forse mai neanche viste. Ma, mano a mano, che lo sguardo si allontanava e le spighe rimpicciolivano, ecco che il miracolo si compì, quando dei corvi gracchianti spiccarono in volo e sovrastarono ogni altra voce. I grandi corvi erano vasti come le spighe, come il canto delle cicale, come quell’estate che iniziava ogni mattina e non finiva mai. Pensò al campo dipinto dallo zio e a quello dipinto dal pittore famoso ma morto da solo. Guardò il proprio quadro e vide qualcosa di diverso ancora, capì in quel momento la potenza dello sguardo e che il mondo sarebbe cambiato a ogni minima variazione della luce. Così si lasciò andare in mezzo alle spighe alte che lo circondavano e guardò il cielo sino a quando creature velate andarono a occupargli la pupilla e gli sussurrarono la verità del mondo oscuro che risplendeva sotto le spighe. Aveva voce quel mondo e lui rispose con un sussurro e un verso.

 

Un altro bambino smise di copiare le lettere dal sussidiario e sospirò, pensando che la scuola non sarebbe cominciata prima di tre mesi ancora. Mise nella bisaccia una mezza pitta, olive schiacciate condite con finocchio selvatico e peperoncino, formaggio di pecora. I cartoccetti erano nuovi, perché era il primo giorno che sarebbe andato a governare le pecore da solo, ai piedi delle colline e lontano dal fiume, per non rischiare che gli agnelli scivolassero nell’acqua. Sua madre era già fuori che stendeva il bucato insieme alla sua sorellina, gli altri due fratelli si dondolavano sull’altalena e la madre disse loro di andare a raccogliere i pomodori nell’orto, prima che il caldo fosse troppo alto. Gli disse di seguire i fratelli e di scegliersi un paio di pomodori maturi per la giornata. Poi andò al pozzo a riempire la borraccia e gliela porse perché la riponesse insieme al cibo. La bisaccia era più pesante di quanto non sembrasse, ma la madre non sapeva perché, il bambino aveva preso anche il libro di scuola e il lapis, perché voleva continuare gli esercizi di lettura. Si incamminò spingendo le pecorelle insieme al suo cane Nerone e alla giumenta Ofelia che era gravida e forse avrebbe potuto avere un cavallino tutto per sé, se la mamma avesse deciso di non venderlo. Quando arrivò al capanno lasciò che le pecore andassero a brucare dove l’erba era verde grazie all’acqua che sfuggiva alla fontana. Gli sarebbe piaciuto abitare laggiù, vicino all’acqua che scorreva, anziché dover faticare per raccoglierla dal pozzo. Forse un giorno, al posto del capanno, ci sarebbe stata una casa con un grande orto, i campi di grano sul retro, i fichi e le querce tutto intorno. I loro campi sarebbero arrivati sino alla grande quercia, forse anche più in là sino al fiume di cui riusciva a distinguere la voce in quel momento, perché il canto delle cicale era ancora sommesso.

 

Ci sono giorni in cui altre voci arrivano a visitarmi, immagini di paesaggi che non ho mai visto mi si affacciano alla mente, altri desideri e altri sogni, altri ricordi che non mi appartengono, si consegnano alla mia voce e alla mia penna e io li restituisco al mondo in questa Cronaca 387 di martedì 30 marzo 2021, il secondo anno senza Carnevale.

venerdì 26 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/110: la luce nell'aria e tutto intorno a me


Prima di iniziare la salita bisogna che la luce passi attraverso gli occhi, sbianchi lo sguardo e ci lasci immemori di chi ci ha preceduto.
Ai piedi del Monte Ventoso l’aria brillava come se una mano feroce avesse passato la mattina a lucidare il cielo. Il mondo riposava in quella luce che chiedeva coraggio, invocava la fatica della salita, il desiderio della cima, lo sguardo che infine poteva librarsi prossimo alle nuvole.
L’aria profumava di lavanda, di timo, di sale e di miele. Le api ronzavano incrociando il volo delle rondini, e il vento ci spingeva nel luogo dove lo sguardo diventa acuminato e la luce rivela i suoi segreti. Dopo uno dei tornanti, una stradina laterale, quasi nascosta dagli arbusti, finiva vicino a tre minuscole case dai colori della terra e delle rose.
Una porta era aperta e c’era infisso nello stipite un cartello che invitava a entrare. Nella zona d’ombra della stanza una donna giovane con lunghi capelli biondi e ricci, stava dipingendo un vaso fatto a mano. Indossava una tunica di lino color avorio dai complicati ricami in oro.
Il tempo si fermò con me a guardarla lavorare. Alle pareti erano appesi quadri che la ritraevano e i colori erano gli stessi celesti e ocra che stava usando per quella decorazione. Non dubitai che anche la mano fosse la stessa. Un cane lupo dormiva nella lama di luce sotto la finestra, il muso appoggiato al fresco pavimento di pietra.
La seconda stanza sembrava vuota, ma dal piano superiore un suono di pianoforte irruppe nell’aria, così intenso e improbabile perché era musica di un altro tempo remoto, ma sbagliato. Mi fermai ad ascoltare in silenzio, in un vaso trasparente rose bianche e gialle fiorivano e appassivano sotto i miei occhi.
Quando la musica tacque mi accorsi che la donna e il cane non erano più nella stanza. Uscii ma intorno alla casa non c’era nessuno e le imposte del piano superiore vennero sbarrate.
Ripresi la salita senza mai smettere di cercare quelle case a ogni giro, le vidi sino alla fine della strada, sempre più piccole, sempre più simili a un mucchietto di sassi gettati con noncuranza.
In cima mi accolse un vento impetuoso, mi inginocchiai per salutarlo e rimasi a guardare l’orizzonte oscillando a ogni folata.
Al ritorno svoltai verso le case perché volevo comprare un quadro. Ma c’erano solo un mucchio di mattoni e pietre e un muro che finiva con una finestra aperta su una stanza invisibile.

Non appena finii di leggere chiusi il quaderno e guardai gli abitanti della Casa delle Parole. Il poeta accennò un applauso, il misterioso architetto e il sapiente guerriero chiesero di poter ricopiare il racconto nei loro taccuini. La lupa venne ad accucciarsi ai miei piedi, la regina e la sacerdotessa parlavano a bassa voce.
- È un sogno quello che ci hai letto? – mi chiese il re.
- No, non è un sogno, è un ricordo. Una cosa accaduta in un altro tempo e in un altro spazio. Ma oggi, quando sono andata a camminare alle pendici della cima più bassa delle Montagne della Nebbia e l’aria intorno me era d’oro e turbinava, mi è ritornata in mente l’ascesa al Monte Ventoso che avevo scritto dopo averla vissuta. Non ho inventato nulla. Le cose erano proprio come le ho descritte. Quando ho preso la strada del ritorno, stamattina, ho rivisto le stesse case del racconto. Perché, sapete, è proprio vero che immaginazione e memoria costruiscono la nostra realtà. Andiamoci insieme domani, voglio vedere se qualcosa sarà cambiato, perché anche voi avete immaginato le case prima vissute e poi in rovina.

Con questo racconto chiudo una panoramica sui quattro elementi, forse scriverò anche del legno anche se di ciascun elemento ho già scritto molto e ritorno sempre sui miei passi e sulle mie parole.
Questa sera vi saluto con un brano da uno dei miei scrittori più amati di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

 

“Ma la cosa più bella è l'aria. Sì. E a poco a poco, ho imparato a vivere dentro di essa. L'aria e la luce, sì, anche quella, la luce che risplende su tutte le cose e le rende visibili ai miei occhi. C'è l'aria e c'è la luce, e questa è la più bella. Mi perdoni. L'aria e la luce. Sì. Quando è bel tempo, mi piace star seduto vicino alla finestra aperta. A volte guardo fuori e osservo le cose sottostanti. La strada e tutte le persone, i cani e le automobili, i mattoni del palazzo di fronte. E poi ci sono le volte in cui semplicemente chiudo gli occhi e rimango seduto, con la brezza che mi soffia sul viso, e la luce nell'aria, tutto intorno a me e appena oltre i miei occhi, e tutto il mondo è rosso, di un bellissimo rosso nei miei occhi, con il sole che splende su di me e sui miei occhi”.


La sera dolce e profumata si avvicina a piccoli passi, l’aria resterà con noi, la luce si avvolgerà nel suo mantello notturno, solo dentro di noi continuerà a risplendere come ricordo e come desiderio.


Il mio racconto è inedito in volume, l’ho riletto pensando a questa Cronaca 110 e ho deciso di inserirlo.

La citazione è di Paul Auster, dalla Trilogia di New York. Città di vetro. Einaudi 1996, traduzione di Massimo Bocchiola.

mercoledì 25 maggio 2016

Vorrei andare con te in un giorno di primavera dove vaga la poesia

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
Gli inviti superflui

martedì 13 gennaio 2015

Il decalogo del perfetto scrittore di racconti

Perché solo il decimo precetto?

Ecco Il decalogo del perfetto scrittore di racconti completo



 1) credi in un maestro – Poe, Maupassant, Kipling Cechov – come in Dio stesso. 
 2) Credi nell'arte del racconto come una vetta inaccessibile, Non illuderti di domarla. Quando sarai in grado di farlo, ci riuscirai senza saperlo tu stesso.

3) Resisti più che puoi all'imitazione, ma imita se l'influsso è troppo forte. Più che ogni altra cosa, lo sviluppo della personalità richiede una lunga pazienza.

4) Abbi una fede cieca non nella tua capacità di poter trionfare, ma nell'ardore con cui lo desideri. Ama la tua arte come la tua fidanzata, dandole tutto il tuo cuore.

5) Non cominciare a scrivere senza saper fin dalla prima parola dove stai andando. In un racconto ben riuscito, le prime tre righe sono quasi importanti quanto le ultime tre

6) Se vuoi esprimere con esattezza questa circostanza: "Dal fiume soffiava il vento freddo", non ci sono nella lingua umana, più parole di quelle annotate per esprimerla. Una volta padrone delle tue parole, non ti preoccupare di osservare se tra loro sono consonanti o dissonanti

7) Non aggettivare senza necessità. Inutili saranno quante code di colore tu possa aggiungere a un sostantivo debole. Se trovi quello preciso, esso da solo avrà un colore incomparabile. Ma bisogna trovarlo.

8) prendi i tuoi personaggi per mano e portali fermamente fino al finale, senza vedere altra cosa che il cammino gli hai tracciato. Non distrarti vedendo tu quello che loro non possono o non gli importa vedere. Non abusare del lettore. Un racconto è un romanzo depurato dai riempitivi. Considera ciò come una verità assoluta, nonostante non lo sia.

9) Non scrivere sotto l'imperio dell'emozione. Lasciala morire, ed evocala in seguito. Se sei capace di riviverla tale e quale è stata, sei arrivato nell'arte a metà del cammino.

10) Non pensare ai tuoi amici mentre scrivi, nè all'impressione che farà la tua storia. Racconta come se la tua storia non avesse alcun interesse se non per il piccolo ambiente dei tuoi personaggi, di cui saresti potuto essere uno di loro. Non si ottiene in altro modo la vita del racconto
Horacio Quiroga
traduzione di Carmelo Pinto
Decálogo del perfecto cuentista

1) Cree en un maestro -Poe, Maupassant, Kipling, Chejov- como en Dios mismo.

2) Cree que su arte es una cima inaccesible. No sueñes en domarla. Cuando puedas hacerlo, lo conseguirás sin saberlo tú mismo.

3) Resiste cuanto puedas a la imitación, pero imita si el influjo es demasiado fuerte. Más que ninguna otra cosa, el desarrollo de la personalidad es una larga paciencia

4) Ten fe ciega no en tu capacidad para el triunfo, sino en el ardor con que lo deseas. Ama a tu arte como a tu novia, dándole todo tu corazón.
5) No empieces a escribir sin saber desde la primera palabra adónde vas. En un cuento bien logrado, las tres primeras líneas tienen casi la importancia de las tres últimas.

6) Si quieres expresar con exactitud esta circunstancia: "Desde el río soplaba el viento frío", no hay en lengua humana más palabras que las apuntadas para expresarla. Una vez dueño de tus palabras, no te preocupes de observar si son entre sí consonantes o asonantes.

7) No adjetives sin necesidad. Inútiles serán cuantas colas de color adhieras a un sustantivo débil. Si hallas el que es preciso, él solo tendrá un color incomparable. Pero hay que hallarlo.

8) Toma a tus personajes de la mano y llévalos firmemente hasta el final, sin ver otra cosa que el camino que les trazaste. No te distraigas viendo tú lo que ellos no pueden o no les importa ver. No abuses del lector. Un cuento es una novela depurada de ripios. Ten esto por una verdad absoluta, aunque no lo sea.
9) No escribas bajo el imperio de la emoción. Déjala morir, y evócala luego. Si eres capaz entonces de revivirla tal cual fue, has llegado en arte a la mitad del camino

10) No pienses en tus amigos al escribir, ni en la impresión que hará tu historia. Cuenta como si tu relato no tuviera interés más que para el pequeño ambiente de tus personajes, de los que pudiste haber sido uno. No de otro modo se obtiene la vida del cuento.