venerdì 31 maggio 2013

Non ho manoscritti, né taccuini, né archivi

Non ho manoscritti, né taccuini, né archivi. Non ho nemmeno una calligrafia perché non scrivo mai. Sono l'unico, in Russia, che lavora a voce, mentre intorno una canea di farabutti scrive. E sarei uno scrittore, io? Andate al diavolo, imbecilli!*
In compenso ho un sacco di matite, di tanti colori e tutte rubate. Si tengono appuntite con una lametta Gillette.
La lametta Gillette, con il bordo lievemente obliquo e dentellato, mi è sempre parsa uno dei manufatti più nobili dell'industria siderurgica. Una buona lametta Gillette è tagliente come erba palustre, si flette in mano ma non si rompe; ha qualcosa del biglietto da visita di un marziano, o della letterina di un diavolo garbato, con quel foro nel mezzo. La lametta Gillette è prodotta da una società estinta, che ha per azionisti branchi di lupi americani e svedesi.

Osip Mandel'štam 
Quarta prosa in 

Il rumore del tempo
e altri scritti
a cura di Daniela Rizzi
Adelphi 2012


* Citazione dal Matrimonio di Gogol

giovedì 30 maggio 2013

Con il gelo e con le stelle

Se non ci fossi tu, rabbia della letteratura, con quale cibo potrei mangiare il sale della terra? Tu dai sapore a quel pane insipido che è il comprendere, tu allegra coscienza del torto, tu sale dei congiurati, tramandato con un perfido inchino un decennio dopo l'altro nella saliera sfaccettata, con tanto di salvietta!*

È per questo che mi dà tanto piacere smorzare l'ardore della letteratura con il gelo e con le stelle acuminate. Manda un crepitio come fosse neve? La gelida strada nekrasoviana le mette allegria?** Se è autentica letteratura sì.

Osip Mandel'štam 
Il rumore del tempo
e altri scritti
a cura di Daniela Rizzi
Adelphi 2012


* Qui si allude al rituale di ospitalità, diffuso nella tradizione russa, che consisteva nell'accogliere gli ospiti importanti offrendo pane (simbolo di ricchezza e prosperità) e sale (protezione contro le avversità). Li si porgeva appoggiandoli su un tovagliolo dispiegato.
** Riferimento alla poesia di Nekrasov «Edu li noc'ju po ulice tëmnoj...» («Se avanzo di notte per la via oscura...», 1847), testo emblematico del filone letterario di ispirazione patetica e umanitaria.

mercoledì 29 maggio 2013

Storia della solitudine

Si smorzano le voci degli uccelli.
la luna si mette in posa per la foto.
Luccicano le umide guance delle vie.
Il vento porta il profumo di campi verdi.
Lontano, in alto, un piccolo aeroplano
gioca come un delfino.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti
Poesie 1983-2005
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

martedì 28 maggio 2013

L'attimo

Un attimo di chiarezza dura così poco.
L'oscurità resta più a lungo. Vi sono
più oceani che terraferma. Più
ombra che forma.

Adam Zagajewski
Dalla vita degli oggetti
Poesie 1983-2005
a cura di Krystyna Jaworska
Adelphi 2012

lunedì 27 maggio 2013

Scrivere è camminare senza conoscere il prossimo passo

Nel 1953 scrissi un articolo per The Nation per difendere il mio lavoro come scrittore di fantascienza, anche se questa etichetta si applicava solo a circa un terzo della mia produzione annuale. 
Poche settimane dopo, sul finire di maggio, ricevetti una lettera dall'Italia. Sul retro della busta, c'erano scritte, a zampa di gallina, queste parole:

B. Berenson
I Tatti, Settignano
Firenze, Italia 
Mi rivolsi a mia moglie e le dissi: "Mio Dio, non verrà mica dal Berenson, il grande storico dell'arte?"
"Aprila" mi disse mia moglie.
Lo feci, e lessi
Caro Mr. Bradbury ,negli 89 anni della mia vita, questa è la prima lettera che scrivo come ammiratore. È per dirle che ho appena letto il suo articolo su The Nation, "Day After Tomorrow". È la prima volta che incontro l'affermazione, da parte di un artista di non importa che settore, che per lavorare in modo creativo bisogna metterci la carne, e divertirsi come in un gioco, o in un'avventura affascinante. Che differenza con i lavoratori dell'industria pesante che sono diventati gli scrittori professionisti! Se passa da Firenze, venga a cercarmi. Sinceramente suo, B. BERENSON
Così a trentatre anni, il mio modo di vedere, scrivere e vivere fu approvato da un uomo che divenne per me un secondo padre.
Avevo bisogno di questa approvazione. Abbiamo tutti bisogno di qualcuno più grande, più saggio, più vecchio che ci dica che non siamo pazzi, dopo tutto, e che quello che stiamo facendo è giusto. Molto giusto, diavolo, ottimo!
Ma è facile dubitare di se stessi, perché dai un'occhiata all'insieme di nozioni possedute dagli altri scrittori, dagli altri intellettuali e ti fanno arrossire per la colpa. Scrivere dovrebbe essere difficile, tormentoso, un esercizio spaventoso, un'occupazione terribile.
Ma, vedi, le mie storie mi hanno guidato attraverso la mia vita. Loro gridano, io le seguo. Loro corrono e mi mordono la gamba, io rispondo scrivendo tutto quello che succede durante il morso. Quando finisco, l'idea mi lascia andare e se ne va.
Questo è il tipo di vita che ho avuto. Ubriaco e con la responsabilità di una bicicletta, com'era scritto in un rapporto della polizia irlandese. Ubriaco di vita, significa, e senza conoscere il prossimo passo. Ma sulla strada prima dell'alba. E il viaggio. Per metà terrificante, per metà esilarante.

Ray Bradbury
Ubriaco e con la responsabilità di una bicicletta in
Lo zen nell'arte della scrittura
Libera il genio creativo che è in te
traduzione di Paolo Nori e Salim Catrina
DeriveApprodi 2000


domenica 26 maggio 2013

Scrivere è attraversare la terra di nessuno


Entrambi i protagonisti del Leviatano sono scrittori: Peter riflette sulle difficoltà che sembrano rendergli la lingua inaccessibile: «mi sento separato dai miei stessi pensieri, intrappolato in una terra di nessuno tra il sentimento e la sua espressione», dice. Mentre per Sachs la scrittura è priva di sofferenza, le parole scorrono sulla pagina alla stessa velocità con cui le avrebbe pronunciate. A quale dei due scrittori lei si sente più vicino?
Sono più vicino a Peter, scrivere mi prende molto tempo, ho ritmi assai rallentati, e non so spiegarmelo. Lavoro paragrafo dopo paragrafo, scrivo e poi riscrivo e poi butto via tutto e ci torno di nuovo su. È doloroso, ma fa parte del mio lavoro: credere nel bene del libro piuttosto che nella bellezza di una frase o di una pagina, ecco penso che questo abbia a che fare con l’onestà nei confronti della propria opera.

Paul Auster
La lingua è un debole strumento
Frammenti dall’intervista - del settembre 1996 - a proposito del suo romanzo Leviatano nel volume di Francesca Borrelli
Biografi del possibile
Bollati Boringhieri 2005


sabato 25 maggio 2013

Scrivere è come impastare il pane


Il pane non è mai lo stesso. E c’è anche quello che non viene. D’inverno, ad esempio, qui fa troppo freddo; si fa molta fatica a far lievitare il pane, a meno di surriscaldare la cucina come un forno. Non si è mai sicuri che riesca. E vi sono degli stadi che ricordano in tutto e per tutto quelli della scrittura. All’inizio, qualcosa di informe che si appiccica alle dita: una poltiglia. Poi, la poltiglia diventa via via più soda, più consistente, e c’è un momento in cui diventa elastica. Infine, l’istante in cui si sente che il lievito ha cominciato ad agire: la pasta è viva. Non c’è più che lasciarla riposare. Ma se fosse un libro, il lavoro potrebbe durare dieci anni.

Marguerite Yourcenar
Ad occhi aperti
Conversazioni con Matthieu Galey
Traduzione di Laura Guarino
Bompiani 1999

venerdì 24 maggio 2013

Sul mio balcone, nel buio: Milano

Rigiro questi pensieri seduta sul mio balcone, nel buio. La partenza è per domani. Intanto bevo un bicchiere di vino ghiacciato, fra tralci d'edera, sperando che nessuno mi chiami al telefono. Desidero starmene nascosta, nel silenzio delle cose che m'attorniano. Solo il silenzio produce equilibrio, per me. Temo ogni repentinità, ho paura di essere distolta. Siccome abito a un quindicesimo piano, la città mi sta attorno, ammansita e notturna. La grande città! Ora posso osservarla, in piena calma. Di fronte a me il lume verde d'un ascensore percorre l'armatura di ferro di una torre. È lontano abbastanza per apparirmi oscillante come la stella di un presepe. Ci deve essere una terrazza, all'ultimo piano, là dove l'ascensore si arresta a lungo, affinché i turisti contemplino il paesaggio in una illusione di dominio, mentre il vento del parco irrompe tutt'attorno.
La città, vista dall'alto, è bella. So d'averla amata al tempo in cui, vari anni fa, decisi di stabilirmici. E so d'averla vivificata, gettando su di essa tutte le mie aspettative ansiose di prorompere. Era, ai miei occhi, la capitale del nord, sbiancata da migliaia di luci al neon, protesa a inventare una vita adatta alla misura nuova dell'uomo, intenta a convertire ogni sforzo in strumenti efficiente e in comfort. La sua profonda potenzialità arrivava al mio orecchio con un fremito. I sobborghi, ad esempio, stavano divorando giorno per giorno la pianura, mentre il centro, in slanci di rinnovata potenza, non faceva che fiorire verticalmente: grattacieli, torri, ciminiere.
Accadde molti anni fa e ora osservo tutto questo, senza ritrovare il sentimento d'allora. Sento che la città ha esaurito da tempo il suo slancio. Una volta attuate le sue progettazioni in cemento-vetro, perforato il suo grembo coi cunicoli della metropolitana, drizzati ai margini i suoi casamenti- baluardo impietriti nella ripetizione di sé, ecco che la tensione fantastica, in lei, si è esaurita assai presto. Oggi la città è muta, nella sua compattezza. Qua e là restano le punte di una bellezza antica o ipermoderna, apprezzabile solamente dall'alto: le lontane guglie del Duomo, la merlatura del castello medievale che i fari avvampano di rosa-arancio, la superficie di certi edifici lucenti e piatti (la mostruosa utopia di un architetto d'avanguardia li ideò senza finestre) e in alto in mezzo al cielo, la luna che è salita adagio ed è ferma lassù, sul pennone slanciato della notte.

Grazia Livi
L'approdo invisibile
Garzanti 1980

giovedì 23 maggio 2013

Scrivere, scrivere per imparare a scrivere

Un migliaio o due migliaia di parole tutti i giorni per i prossimi vent'anni.
All'inizio dovete puntare a un racconto a settimana, cinquantadue racconti all'anno per cinque anni. 
Dovete scrivere e mettere via da parte o bruciare un mucchio di materiale prima che siate a vostro agio in questo medium.
Potete benissimo cominciare adesso e fare tutto quello che occorre.
Perché io penso che alla fine la quantità si trasforma in quantità.
Come?
I miliardi di schizzi di Michelangelo, Leonardo da Vinci, Tintoretto, la quantità, li ha preparati per la qualità, singoli schizzi lungo la linea, singoli ritratti, singoli paesaggi di incredibile contenuto e bellezza.
Un grande chirurgo seziona e riseziona un migliaio, dieci migliaia di corpi, di tessuti, di organi, preparando così con la quantità il momento in cui la qualità conterà con una creatura viva sotto il suo coltello.
Un atleta può correre dieci migliaia di miglia per prepararsi per cento yarde.
La quantità dà esperienza. Solo dall'esperienza può venire la qualità.
Tutte le arti, grandi e piccole, sono l'eliminazione di un movimento inutile in favore di una dichiarazione concisa.
L'artista impara cosa togliere.
Il chirurgo sa come andare direttamente alla fonte del male, come evitare perdite di tempo e complicazioni.
L'atleta impara come conservare il potere e applicarlo ora qui, ora là, come utilizzare questo muscolo, piuttosto che quello.
Lo scrittore è diverso? Penso di no.
La sua più grande arte sarà spesso quello che egli non dice, quello che lascia fuori, la sua abilità nel dichiarare e spiegare semplicemente con la pura emozione, la direzione nella quale vuole andare.
L'artista deve lavorare così duramente, così a lungo, che un cervello si sviluppa e vive, per conto suo, nelle sue dita.
È così per il chirurgo la cui mano, alla fine, come la mano di Leonardo da Vinci, deve abbozzare disegni salvifici sulla carne dell'uomo.
È così per l'atleta il cui corpo alla fine è educato e diventa, per se stesso, un cervello.
Con il lavoro, con l'esperienza quantitativa, l'uomo libera se stesso da qualsiasi cosa che non sia il lavoro manuale.
L'artista non deve pensare alle ricompense critiche o in denaro che otterrà dipingendo quadri. Deve pensare alla bellezza nella sua pennellata, pronta a scorrere, se la lascerà andare.
Il chirurgo non deve pensare al suo onorario, ma alla vita che pulsa sotto le sue mani.
L'atleta deve ignorare la folla e lasciare che il suo corpo corra per lui.
Lo scrittore deve lasciare che le sue dita corrano per la storia dei suoi personaggi, che, essendo solo uomini pieni di strani sogni e ossessioni, sono felicissimi di correre.
Il lavoro quindi, il lavoro duro, prepara il campo per la prima sessione di rilassamento, quando si inizia ad avvicinarsi a quello che Orwell avrebbe potuto chiamare Not Think! Così, imparando sulla macchina da scrivere, viene un momento in cui le singole lettere a-s-d-f e j-k-l danno vita a un flusso di parole.
Così non dovremmo guardare al lavoro né guardare alle quarantacinque o cinquantadue storie scritte nel nostro primo anno come un fallimento. 
Il fallimento è la rinuncia.
Ma voi siete nel mezzo di un processo. Niente fallisce allora, tutto va.
Il lavoro è fatto. Se è buono imparate da lui.
Se non è buono, imparate anche di più.
Il lavoro è fatto e dentro di voi è una lezione da studiare.
Non c'è fallimento, a meno che uno non si fermi.
Non lavorare è smettere, mollare, diventare nervosi e quindi distruttivi rispetto al processo creativo.

Ray Bradbury
Lo zen nell'arte della scrittura
Libera il genio creativo che è in te
traduzione di Paolo Nori e Salim Catrina
DeriveApprodi 2000

mercoledì 22 maggio 2013

La frase e chi la scrive

La frase è sempre un Altro rispetto a colui che la scrive.

Elias Canetti
Potere e sopravvivenza
Adelphi 1974

martedì 21 maggio 2013

Il genio di Sylvia Plath

Nell'aprile e maggio del 1962, come mostrano le date in calce alle poesie dei Collected Poems, sono i mesi in cui nasce l'improvvisa e imprevedibile concisione del suo ultimo stile. Nella decina di poesie scritte quella primavera il talento di Sylvia Plath si trasforma in quello che credo tutti concordino nel definire il suo genio, l'espressione pressante e serrata di un pensiero metaforico che procede per una serie di brevi strofe esplosive, dove ogni verso è una trappola che scatta imprigionando un'emozione.


Diane Middlebrook
Suo marito
Ted Hughes & Sylvia Plath
ritratto di un matrimonio
Mondadori 2009

lunedì 20 maggio 2013

Scrivere è una felicità segreta e silenziosa in un'alba azzurra

Poco dopo la partenza di Hughes, Sylvia cominciò ad alzarsi ogni giorno all'alba per lavorare nel suo studio fino a quando i bambini non si svegliavano. Era sola, ma la mancanza di distrazioni andava a tutto vantaggio della scrittura e c'era anche la gioia del pieno possesso della sua isola privata: il focolare, la stanza dei bambini, l'orto e il giardino con l'alveare e le api. Su questo mondo riversò non solo tutto il peso del suo dolore ma anche tutto il suo sapere. Esiliata a Court Green dalle circostanze, trovò rifugio in attività che anni di istruzione e di educazione avevano reso una seconda natura: i libri, lo studio, la scrittura, le cure materne, la casa. Scrisse a Olive Prouty:

«Non sono mai stata così felice come quando scrivo, seduta alla mia enorme scrivania, nelle albe azzurre, tutta sola, in segreto e in silenzio».


Diane Middlebrook
Suo marito
Ted Hughes & Sylvia Plath
ritratto di un matrimonio
Mondadori 2009

domenica 19 maggio 2013

Questioni di metodo: Plath & Hughes

Hughes ha così descritto la radicale differenza dei loro metodi compositivi:

«Il mio consisteva nel trovare il capo di un filo dentro una matassa ingarbugliata ed estrarlo», mentre «il suo consisteva nel raccogliere una serie di oggetti vividi e parole dense di significato e comporli in un disegno».

Diane Middlebrook
Suo marito
Ted Hughes & Sylvia Plath
ritratto di un matrimonio
Mondadori 2009


sabato 18 maggio 2013

Prima di scrivere, visualizza

Prima visualizza, poi analizza dal punto di vista emotivo. 
Gli scrittori alle prime armi partono sempre dalle impressioni, scordandosi dei lucidi schemi realistici.
Prima stabilisci lo scenario della vicenda, freddo e obiettivo. Con rigore. 
Poi scrivi tutto quello che ti pare, dopo esserti messa sul divano a visualizzarlo, portandolo al calor bianco, a una nuova vita, la vita dell'arte, della forma, non più informe, senza punti di riferimento.

(appunti dopo un incontro con la scrittrice Val Gendron che le diede questi suggerimenti)

Sylvia Plath
Diario
Adelphi 1998

venerdì 17 maggio 2013

Scrivere è un'occupazione tragica

Y.A.: Di cosa si preoccupa?
M.D.: Di scrivere. Una occupazione tragica, ossia relativa al corso della vita. Ci sono dentro senza sforzo.

Più tardi lo stesso pomeriggio

Y.A.: Ha un titolo per il prossimo libro?
M.D.: Sì. Il libro a scomparire.

Marguerite Duras
C'est tous
traduzione di Donata Feroldi
Piccola Biblioteca Oscar Mondadori 1996


giovedì 16 maggio 2013

Scrivere è rivivere un'emozione

Ci accorgiamo che una rêverie, a differenza di un sogno, non si racconta. 
Per comunicarla, bisogna scriverla, scriverla con emozione, con gusto, rivivendola così come la si riscrive. Arriviamo nel campi dell’amore scritto. La moda si perde. Ma il bene rimane.

Gaston Bachelard
Poetica della rêverie
Dedalo 1972

mercoledì 15 maggio 2013

Sono i nostri occhi e le nostre mani che imma­gi­nano

Sono i nostri occhi e le nostre mani che imma­gi­nano: gli uomini imma­gi­nano più di quanto pensa­no.

Gaston Bachelard

martedì 14 maggio 2013

Scrivere è non avere un altro posto dove andare

Le vostre righe riguardo alla locomotiva, alle rotaie e al naso che affonda nella terra sono assai graziose, ma ingiuste. Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare.

Anton Čechov
(in risposta a Maksim Gor'kij in)

Senza trama e senza finale 
99 consigli di scrittura
traduzione di Gigliola Venturi e Clara Coisson
Minimum Fax 2002

lunedì 13 maggio 2013

I libri sulla mensola, la libertà

Poi andai a casa, feci sei piani di corsa, presi dalla mensola prima un libro, poi un altro. Tutto era mio e io non ero di nessuno.

Nina Berberova
Il corsivo è mio
a cura di Julija Dobrovol’skaja
traduzione di Patrizia Deotto
Adelphi 1989

domenica 12 maggio 2013

La narrativa è l'arte dell'inganno

... Desidero che i miei libri abbiano una struttura, che abbiano sangue, muscoli, tendini, ossa.

(...) soprattutto ai tempi del libro su Keplero - il secondo della trilogia dedicata ai grandi scienziati - la mia scrittura governava l'intreccio in modo troppo controllato; tanto che mi ricordo ancora molte della parole che avevo usato allora. Ma già nell'Intoccabile ho cercato di confidare in una narrazione più istintuale: è un esperimento e come tale non so se sia del tutto riuscito. Desideravo comporre una sorta di manifesto di arte pubblica, vedevo questo romanzo come una specie di murale, dove i dettagli si evidenziano man mano che ci si avvicina. Inoltre, da ragazzo avevo una grande ammirazione per alcuni scrittori inglesi come Graham Greene, Evelyn Waugh, P. G. Wodehouse, Henry Green; così con questo libro volevo allo stesso tempo tentare una loro parodia e rendere omaggio alla loro scrittura.

Torniamo ai libri che ha dedicato a Copernico e a Keplero: non è tanto la passione per l'astronomia ad averglieli dettati, quanto l'affinità con l'esigenza di ordine che muove le speculazioni scientifiche. Tutto questo sembra avere a che fare con quella sorta di furore organizzativo che il poeta americano Wallace Stevens chiamava "the rage for order". Ma, qui, il fatto di inseguire armonie prestabilite pare abbia per lei una valenza soprattutto estetica. È così?
Assolutamente sì. Sono d'accordo con Frank Kermod quando teneva a sottolineare come l'opera d'arte trovi in se stessa una sua compiutezza, perché è qualcosa di circolare, di conchiuso, di finito: ha un inizio, una parte centrale, una fine. Le nostre vite, invece, sono aperte, nel senso che non ricordiamo la nostra nascita, né possiamo avere piena consapevolezza della morte. Quel che ci resta è una parte centrale, connotata, tra l'altro, da una profonda incoerenza. Dunque, ciò che mi ha affascinato in persone come Keplero o Copernico è proprio l'aver cercato di imporre il loro senso dell'ordine su questo complesso disordine che ci circonda.

Per la verità, anche l'arte contempla il non finito: da Michelangelo a Proust a Gadda a Schubert, l'incompiuto è una potenzialità più volte realizzata, non le sembra?
Certo, ma io non mi riferisco all'aspetto superficiale con il quale si presenta l'opera d'arte, alla sua rifinitura; bensì al fatto che essa nasce dal nulla e anche quando non viene portata a compimento esibisce, comunque una sua oggettività che non è paragonabile a null'altro di quanto scorre nella nostra vita.

La pittura è nei suoi romanzi una presenza insistente, come mai?
La narrativa è l'arte dell'inganno. Chiunque si dedichi a un lavoro simile dovrebbe conoscere anche altre forme di espressività artistica.

Nelle pagine dei suoi romanzi, pur così diversi nella tessitura della trama, sono molte le ricorrenze che si potrebbero citare. Sul finire del suo memoriale, Victo Maskell - ovvero "l'intoccabile" - riflette: "Qui, alla scrivania, alla luce della mia lampada, mi sento come Odisseo nell'Ade, premuto da ombre che supplicano un po' di calore, un po' del sangue della mia vita, così che possano vivere ancora, anche se per poco" (...)
Sì, (...) un nesso c'è e riguarda la creatività. Come sosteneva Beckett, tutti i protagonisti di una stessa storia non fanno altro che prestare voci diverse a ciò che l'artista vuole esprimere. Maskell si dibatte tra le figure nebulose della sua memoria e cerca di restituire loro un corpo. (...) A me pare che quel che rende possibile la nostra relazione con gli altri sia l'immaginazione, la proiezione delle nostre fantasie su chi ci circonda.
(...)

John Banville
Voglio che i miei romanzi abbiano sangue, muscoli, tendini, ossa
Frammenti dall’intervista - del novembre 1998 - a proposito del suo romanzo L'intoccabile nel volume di Francesca Borrelli
Biografi del possibile
Bollati Boringhieri 2005

sabato 11 maggio 2013

Nessuna rosa è certa

Ogni giorno uscendo verso l'auto
io traverso un giardino
e spesso vorrei che Aristotele
fosse arrivato al-
l'esame del ditirambo,
che fossero rimasti i suoi appunti.

Erba ruvida guasta il prato fine
mentre io guardo a destra e a sinistra
tic toc -
E a destra e a sinistra le foglie
crescono sul pesco di un anno
lungo il tronco snello.

Nessuna rosa è certa. Ciascuna è una rosa
e questa, diversa da un'altra,
s'apre piatta, quasi come un piatto
senza tazza. Ma è una rosa, color
di rosa. La senti ruotare lentamente
sullo stelo di spine.


W.C. Williams
The collected later poems
tradotto da Cristina Campo
in La tigre assenza
Adelphi 1991

venerdì 10 maggio 2013

Preparare la pioggia alla notte che viene

La pioggia d'autunno nel cuore della primavera rende Milano struggente e irresistibile. Ogni cosa sembra uscire dal tempo presente e lampi del passato illuminano i nostri sguardi. Nelle vie intorno al Teatro Dal Verme all'improvviso ci si trova a vivere nel XIX° secolo. Sui Navigli le gocce che si infrangono sull'acqua portano indietro dal passato antiche passeggiate degli anni Sessanta. Così per aumentare lo struggimento e preparare la pioggia alla notte che viene, ecco un frammento del film Happy Family di Gabriele Salvatores.



giovedì 9 maggio 2013

Scrivere romanzi è imparare a leggere l'atlante della faccia oscura della luna

Scrivere romanzi è come imparare a leggere l'atlante della faccia oscura della luna. È fantasticare su qualcosa che nessuno può vedere.

Roberto Cotroneo
Tweet di un discorso amoroso
Lorenzo Barbera editore 2013


mercoledì 8 maggio 2013

La poesia è l'utensile che porta alla luce l'immagine del ricordo

La sua fedeltà - ha detto - si è legata a una lingua capace di aderire alla materialità degli oggetti evocati dai suoi versi, a una memoria fatta di luoghi naturali e di cultura a un tempo, producendo suoni capaci di speciali aderenze, come fossero davvero l'utensile che porta alla luce l'immagine del ricordo

Fedeltà è un termine molto intriso di morale, tuttavia penso sia una parola adatta. La scrittura ha a che fare con la voce, con la mia personale intonazione, e dunque coinvolge anche la fedeltà verso un gruppo: sta in questo, credo, il mio primo livello di impegno. Ai miei esordi di scrittore, pensavo a me stesso come a qualcuno che è appartenuto a una comunità che non aveva parlato a sufficienza, nella fattispecie la minoranza cattolica nazionalista del Nord, verso la quale sentivo una solidarietà non necessariamente politica, anche se era una componente, un dato di partenza. Nella letteratura, la mia speciale fedeltà aveva a che fare con il modo di emettere certi suoni, certe intonazioni, trasportando questi suoni inarticolati dal livello sotterraneo della tradizione orale alla cultura scritta.


Seamus Heaney
Parlare troppo è un oltraggio alla lingua
Frammenti dall’intervista - dell'ottobre 1993 - nel volume di Francesca Borrelli
Biografi del possibile
Bollati Boringhieri 2005

martedì 7 maggio 2013

Per il poeta non esiste lingua natia: scrivere versi significa trasporre

Caro Rainer,
Goethe ha scritto da qualche parte che non si può creare nulla di importante in una lingua straniera, e io ho sempre pensato che non fosse vero. (Nell'insieme, nel significato complessivo, Goethe ha sempre ragione e io probabilmente non sono giusta con lui.)
La poesia è già essa stessa traduzione, dalla lingua natia in un'alta - che sia francese, tedesco, etc., è lo stesso. Per il poeta non esiste lingua natia. Scrivere versi significa comunque trasporre. Per questo non capisco quando si parla di poeti francesi o russi o altro ancora. Un poeta può scrivere in francese, ma non può essere un poeta francese. È ridicolo. 
Io non sono un poeta russo e resto sempre sconcertata quando mi considerano tale e mi chiamano in questo modo.

Marina Cvetaeva 
frammento della lettera del 6 luglio 1926 a Rainer Maria Rilke

Rainer Maria Rilke - Marina Cvetaeva - Boris Pasternak 
Il settimo sogno. Lettere 1926
edizione italiana a cura di Serena Vitale
Editori Riuniti 1980



lunedì 6 maggio 2013

Nel romanzo quel che più conta è il linguaggio

... nell'affrontare i temi di un romanzo ci si nasconde dietro il carattere dei personaggi; ma credo di poter dire che, in effetti, non intendevo usare le loro parole per esprimermi a fini ideologici. Certo, tutto il romanzo è profondamente calato nella storia degli ultimi quarantacinque anni e dunque nella politica; ma quel che più conta è il linguaggio. Uno scrittore dovrebbe percepire in anticipo quel che non si rende immediatamente visibile, e restituirlo creando frasi, componendo paragrafi, disegnando personaggi in una lingua che, prima di tutto, deve inseguire una sua bellezza ed essere capace di attrarre e coinvolgere il lettore.


Don DeLillo
Quanta nostalgia per i giorni della colpa
Frammenti dall’intervista - del marzo 1999 - a proposito del suo romanzo Underworld nel volume di Francesca Borrelli
Biografi del possibile
Bollati Boringhieri 2005

domenica 5 maggio 2013

Il vento parla una lingua che conosco bene

Non siamo più abituati alla variabilità del tempo. All'idea che il cielo possa cambiare all'improvviso, come una piccola prova che ci riserva il destino. Cerchiamo stabilità nel tempo e fingiamo di essere variabili, duttili e sorprendenti nella vita di ogni giorno. È del tutto inutile. Il tempo che cambia è un modo dell'attesa, sono i colori che virano, i movimenti delle nuvole quando le nuvole sembrano parlarsi una con l'altra; il tempo che cambia è il vento quando si alza e vuole suggerirti le cose, e qualche volta sembra conosca le tue parole, e altre parole in lingua straniera, la lingua lontana da cui proviene e da cui prende il nome.
Non siamo più abituati ai profumi che cambiano quando tutto prende a inumidirsi e quando il sole, intermittente, sembra lanciare segnali Morse a un mondo che non sa decifrarli. Non sappiamo accogliere la pioggia addosso senza correre per proteggerci dall'acqua, e non sappiamo guardarla, per capire se è perpendicolare come antichi dadi persiani, o se è obliqua, come in certe storie che scrive Gabriel Garcia Márquez. Se è incerta o decisa, se divide il cielo con il sole o invece scurisce le ombre e si colora di verde o di giallo. Oggi il cielo sta cambiando, il tempo si fa diverso. E il vento parla una lingua che conosco bene.

Roberto Cotroneo

Tweet di un discorso amoroso
Lorenzo Barbera editore 2013

sabato 4 maggio 2013

Un sabato di primavera: Katherine Mansfield a Brescia


Una giornata luminosa, le voci e i profumi del mercato, passanti colorati e vocianti. Così mi ha accolto Brescia al mio arrivo sabato mattina. Ho camminato a lungo, respirato quell’odore di primavera che ancora non avevo sentito in questa stagione. Nel cortile della casa editrice il glicine è in fiore e il silenzio avvolgeva ogni cosa. A ogni minima folata qualche fiore cadeva con l’eleganza distratta delle cose che cadono. Ne ho raccolti alcuni e li ho messi a seccare in fondo al volume dei racconti di Katherine Mansfield che stavo rileggendo. Felicità è uno dei suoi racconti che più amo. La presa diretta sulla realtà, la mancanza dello voce autorale, la poetica degli oggetti che dicono, nel loro silenzio, dei personaggi ancora più di quanto non facciano loro stessi nel compiere le azioni. Il 18 marzo del 1922, Rebecca West pubblicò sulla rivista New Statesman una recensione che sottolineava le qualità poetiche del racconto Alla baia e dove scriveva che la scrittura della Mansfield era «the conquest of prose by the logic of poetry». Questo aspetto credo che sia uno dei motivi che fanno da sempre questa scrittrice una delle mie preferite. Ne ho parlato lungamente nel tardo pomeriggio alla libreria Rinascita dove un pubblico, quasi tutto femminile, ha avuto la bontà di ascoltarmi per quasi un’ora e mezza. Amare i libri significa per me anche condividere il piacere della lettura e restituire la gioia di ogni singola scoperta. Alla fine una signora mi ha chiesto se a mio parere la Mansfield avesse conosciuto la felicità di cui scriveva o se l’avesse soltanto immaginata. Ci ho pensato un lungo istante prima di risponderle, ferma sulle scale della libreria. Le ho risposto di sì, perché la felicità si esprime solo a frammenti, illuminazioni, folate, scoppi improvvisi, e questo è il modo in cui lei la narra. Ma il no sarebbe stata una risposta altrettanto veritiera, perché lo scrittore e il poeta non hanno bisogno di avere vissuto quello che raccontano, perché è soprattutto l’immaginazione che li guida nella scrittura, anche se conoscono ciò di cui stanno scrivendo. Almeno credo.

E.P.

venerdì 3 maggio 2013

Il poeta vede più lontano: Alvaro Mutis e Maqroll il gabbiere


Da più di mezzo secolo Alvaro Mutis è il padre di una figura letteraria che lo accompagna prima nella poesia, poi nella prosa: il suo nome è Maqroll, detto El Gaviero per la sua professione giovanile di vedetta sul mare. Già nel primo disegno che l’autore traccia di lui, porta i tratti distintivi di un carattere cui non verrà mai meno: «un’ardente vocazione di felicità costantemente tradita», sacrificata a missioni impossibili, votate al fallimento sicuro. E poi «la familiarità con l’andar morendo come compito essenziale di ogni giorno», una certa ostinazione all’«errar stordito, sempre contro corrente, sempre dannoso, sempre estraneo alla mia vera vocazione»
(…)

Come ma ha scelto di attribuire a Maqroll il ruolo del gabbiere, ossia del marinaio che sta di vedetta sull’albero più alto della nave: è per dargli la possibilità di additare agli altri il destino che li attende all’orizzonte?

Quando ho inventato il personaggio avevo diciassette anni, e allora non avevo pensato a questa immegine. Però è vera, me ne sono reso conto solo molto più tardi. Inoltre, poco a poco la figura del gabbiere mi è sembrata precisarsi come una rappresentazione del poeta, che vede più lontano e trasmette questa visione agli altri.
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Come descriverebbe la morale d Maqroll?
È molto difficile, anche se l’ho tentato nelle mie poesie. Direi che la sua morale sta nell’amore l’uomo come un fratello, ma senza pensare di potersi riposare sulle sue spalle, affidandogli la soluzione dei suoi problemi: perché nessuno può risolvere le questioni degli altri. Inoltre Maqroll sa che nella vita non siamo destinati a grandi cose, tutto va visto in proporzione. E prima o poi finiamo tutto a Sant’Elena, come Napoleone.

La sua opera sembra portare in sé molti elementi del «desengaño», un tema ricorrente nel dramma barocco spagnolo.
Senz’altro. I miei libri sono imparentati con la letteratura spagnola innanzi tutto per il tramite della lingua, anche se la mia formazione è piuttosto francese. Gli autori che preferisco sono Proust, Colette, Céline, scrivo sempre all’ombra di questi grandi classici. E ho un’ammirazione sconfinata per Cervantes e per un grandissimo romanziere pressoché dimenticato in Europa, Pérez Galdós, il massimo protagonista del realismo spagnolo, grande quanto, se non più di Balzac. Io sono americano, ma mi sento di cultura europea e del mio sentimento di disinganno fa parte, tra l’altro, la convinzione che con la formazione delle nazionalità abbiamo perso l’Europa.

Nonostante la sua devozione per la poesia, lei ha scritto che essa è una «moneta inutile che paga i peccati altrui con le false intenzioni di offrire agli uomini la speranza». Cosa intendeva dire?
Ho per la poesia il massimo rispetto e ho sempre detto che per me un poema è una forma di preghiera. Ma, alla fine, bisogna pur rendersi conto che non ha il potere di cambiare l’uomo. Ho visto persone che amano la poesia e la coltivano senza trarne nessuna morale, guerriglieri che leggono versi sulle montagne e quello stesso giorno riescono a uccidere.
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Tra le immagini più belle della sua narrativa c’è quella del pittore descritto nel Trittico di mare e di terra il cui sogno è dipingere il vento «che non lascia traccia…quello che non ha nome e che ci sfugge dalle mani senza sapere come». Dove si origina questa visione?
È tutto vero sa? Uno dei miei migliori amici, morto poco tempo, aveva un rapporto così intenso con la pittura che arrivava a questi estremi. E mi diceva: «Alvaro, mi piacerebbe dipingere il vento». Allora io gli rispondevo: «Sì, capisco, le onde, gli alberi piegati…». «No - mi diceva lui -, voglio dipingere il vento, solo il vento». Era una aspirazione alla totalità che si esplicitava così… naturalmente non ci è mai riuscito.

Alvaro Mutis
La mia più profonda fedeltà è per i vinti
Frammenti dall’intervista nel volume di Francesca Borrelli
Biografi del possibile
Bollati Boringhieri 2005

giovedì 2 maggio 2013

Irène Némirovsky raccontata da me

Sull'Enciclopedia della donne , pubblicata ieri, la voce che ho scritto per Irène Némirovsky.

E.P.


Erano tre i regni dove Irène Némirovsky abitava e dove abitò per tutta la vita, nonostante l’esilio: l’immaginazione, i libri, la lingua francese. Nata Irma Irina a Kiev in una famiglia dell’alta borghesia ebraica, sin dall’infanzia la futura scrittrice attraversò e sopravvisse ai più tragici eventi della storia. Ben due volte la città fu sconvolta da pogrom, come spesso accadeva a quell’epoca nell’impero Zarista. A tre anni si salvò perché la cuoca le mise al collo la sua croce ortodossa e la nascose dietro un letto.
La vita solitaria causata da una vita familiare poco regolare, dove Leonid il padre, diventato Léon dopo l’immigrazione definitiva in Francia, era occupato dai suoi affari, e dove la madre Anna - Fanny in onore della nuova patria - era occupata a mantenersi giovane e bella per non perdere il favore dei molteplici corteggiatori e amanti, favorì nella bambina lo sviluppo delle facoltà particolari che avrebbero poi sostenuto la sua vocazione di scrittrice. La solitudine sviluppò le sue inclinazioni verso il libero uso dell’immaginazione e le letture precocissime, ma la Francia e la sua lingua furono un dono involontario dei genitori. Era abitudine tra i russi ricchi e aristocratici trascorrere lunghi periodi dell’anno in Francia e il francese era la lingua della nobiltà e delle classi elevate. Durante i lunghi soggiorni invernali nelle città termali, in Costa Azzurra e a Parigi, lo spirito stesso della Francia e del suo dolce vivere, permearono l’anima di Irène, al punto che le venne riconosciuto già negli anni Venti di essere una delle più grandi scrittrici francesi; così scriveva di lei il critico Henri Régnier: «Némirovsky scrive il russo in francese».
Mentre i genitori seguivano i loro affari, la piccola era affidata alle cure della governante Marie detta Zézelle che profumava di sapone fine ed essenza di violetta e le insegnava canzoni e proverbi francesi, mentre lei languiva per la mancanza di attenzioni e di carezze paterne e materne. «La sua fu peraltro un’esistenza quasi da orfana, anche se l’abbandono le procurava un piacere sconosciuto: quello di osservare la propria vita a distanza». Questa dote fu uno dei motivi che rendevano così speciale la creazione artistica della Némirovsky. Le sue capacità descrittive, con poche immagini e parole chiare, sono formidabili, i suoi libri trascinano subito il lettore nel luogo preciso, nel paesaggio della storia. Con la descrizione di gesti essenziali e scarni, i suoi personaggi rivelano l’essenza del carattere, le meschinerie, la cattiveria. La madre bella e distante, alta e ben fatta, non sfuggirà alle cronache e reinvenzioni filiali.
Tutte le madri dei romanzi e racconti della Némirovsky ritraggono Fanny, ma è in particolare in Jezabel, che la penna della scrittrice trova la sua vendetta. «Gli anni erano passati per Gladys con la rapidità dei sogni. E a mano a mano che invecchiava, sembravano ancora più lievi, le parevano essere volati via ancora più in fretta. Ma le giornate erano lunghe, e certe ore pesanti e amare. Non le piaceva stare sola: non appena intorno a lei cessava il cicaleccio delle donne, non appena si spegneva l’eco dei discorsi d’amore, sentiva in cuore una sorda inquietudine». Anche il padre non venne risparmiato dallo sguardo totale della Némirovsky. David Golder è il suo ritratto puntuale e svela che dietro la corazza sfavillante e spietata dell’affarista geniale, che comprava l’amore e il quieto vivere in famiglia con fiumi di denaro, viveva ancora l’impavido ragazzino ebreo “sognatore del ghetto” che era partito in cerca di fortuna. Una copia di ciascuno di questi romanzi fu l’eredità che Fanny lasciò alle figlie di Irène, Denise e Élisabeth. Glieli fece trovare chiusi in cassaforte, lei che aveva rifiutato di accoglierle, orfane e spaventate alla fine della guerra, arrivando a dichiarare che lei non aveva nipoti.
Ma siamo ancora Kiev, prima che il destino prendesse forma e costringesse i Némirovsky alla fuga in Francia. La dolcezza di Kiev stordita dalla primavera è eterna: «Com’è bella la primavera in quel paese! Le strade erano fiancheggiate da giardini, l’aria profumava di tiglio, di lillà, e un’umidità lieve saliva da tutte quelle aiuole, da quegli alberi stretti gli uni contro gli altri che spandevano nella sera il loro profumo zuccherino». Quel clima era pericoloso per la piccola Irocka che soffriva di asma. «Nei giorni caldi dell’estate, la campanella del venditore di gelati, le corolle schiacciate al passaggio o gualcite fra le mani, troppa erba, troppi fiori, un profumo troppo soave, che turba e intorpidisce la mente; troppa luce, uno splendore selvaggio, il canto degli uccelli nel cielo». La vita faticosa e impaurita degli ebrei del ghetto e quella noncurante e sfarzosa degli ebrei dei quartieri eleganti in collina, è raccontata con pari intensità. La scrittura di Irène è dunque prima di tutto una scrittura di testimonianza e di salvaguardia della memoria. Niente di quello che lei ha visto e vissuto è andato perduto e la vita avventurosa dei suoi libri è proseguita anche nel nuovo secolo. La precisione, la ricchezza di dettagli e informazioni, la consistenza dei personaggi, sono frutto di un lavoro preparatorio rigorosissimo. I suoi biografi scrivono che «Irène Némirovsky ha spiegato spesso che, prima di iniziare a scrivere, riempiva interi quaderni di dati biografici su ogni singolo personaggio - la fase che lei definiva la “vita anteriore del romanzo”. Poi rileggeva, censurando e commentando, ed esprimendo appassionanti riflessioni sul suo mestiere di scrittrice». La vita monotona, in cui i libri sostituivano la realtà, si interruppe bruscamente durante la Rivoluzione. Tra il 1917 e il 1919 la Russia cambiò volto, le città e i possedimenti imperiali furono saccheggiati, alla famiglia Némirovsky non restò che cercare riparo all’estero. Nel romanzo Il vino della solitudine è rievocata la fuga da San Pietroburgo che li portò, dopo varie peripezie e una lunga sosta in Finlandia, a stabilirsi a Parigi dove Irma Irina ebbe in dono il nome Irène e una nuova patria. Parigi era anche un ritorno all’infanzia. A Parigi l’attendevano il jazz, la scrittura e l’amore. Nel 1921 a diciotto anni appena compiuti, vendette a una rivista di dubbia fama i primi racconti e quando passò a ritirare il suo compenso stupì, per via della giovane età, l’editore. Quando Irène ebbe compiuto i venti anni, il padre la sistemò in un appartamento indipendente dove ella poté darsi davvero alla pazza gioia. Nonostante la libertà, gli amori, il senso di rivalsa nei confronti dell’odiatissima madre che invecchiando le faceva godere della vendetta, la gioventù della Némirovsky fu bruciata da uno stupro, raccontato nel Vino della solitudine e da pensieri molto seri di suicidio che la sfiorarono molto da vicino. Dopo quattro anni di vita sregolata nel 1924 completò gli studi alla Sorbona e incontrò l’uomo con il quale avrebbe diviso la vita, Michel Epstein, «un piccoletto bruno dalla carnagione scura» come Irène scrisse all’amica del cuore Madeleine nel 1925. Moscovita, nato nel 1896, figlio di un banchiere, Michel viveva a Parigi con la famiglia dal 1920. Prima di incontrarlo la scrittrice aveva già scritto, durante i soggiorni estivi sulla costa basca, Il bambino prodigio e Il malinteso. Quei luoghi le erano così cari che vi trascorse tutte le estati sino al 1939. Il malinteso uscì nel 1926 e il 31 luglio dello stesso anno Irène e Michel si sposarono. La casa dove andarono ad abitare era grande e confortevole, la giovane coppia aveva al suo servizio una cameriera e una cuoca. Irène poté dedicarsi alla scrittura e riscrittura di David Golder sino al 1929 conducendo al contempo una vita agiata e divertente. Durante tutti gli anni del matrimonio lei scriveva mentre Michel lavorava in banca. Il patto era che lei scrivesse solo durante il giorno e mezz’ora dopo cena, quando il marito l’aiutava copiando a macchina i suoi manoscritti. Durante la gestazione di David Golder, pubblicò sotto falso nome il romanzo La nemica dove regolava ancora e non una volta per tutte, i conti con sua madre. Un altro dei suoi racconti più spietati, Il ballo, venne scritto durante una pausa dell’altro libro. Una volta terminato, David Goldervenne spedito all’editore Bernard Grasset che lo lesse e decise di pubblicarlo immediatamente. Scrisse quindi allo scrittore Epstein, questo il nome che accompagnava il manoscritto, ma non ebbe risposta per diverse settimane. La spiegazione era semplice, anche se a lui rimase ignota per qualche tempo. Irène era impegnata a mettere al mondo Denise France Catherine. Quando Grasset, tre settimane dopo il parto, si vide comparire davanti quella giovane donna, quasi non credette possibile che lei fosse l’autrice di un libro di tale potenza. Mise in campo tutta la sua forza editoriale per creare un caso letterario e ci riuscì. Tutti i critici scrissero di questo libro, tutti i lettori lo volevano leggere e sia il cinema che il teatro se ne contesero la messa in scena. Dopo il grande successo seguirono tre anni di blocco anche se Grasset pubblicò il racconto Il balloche era già stato scritto. Il mondo letterario dovette aspettare sino al 1932 con L’affare Courilov, per avere conferma dello straordinario talento della giovane russa. Non le mancarono accuse di anti-semitismo per via della crudezza dei suoi personaggi, ma lei se ne stupiva e scherniva rivendicando sempre l’orgoglio di appartenenza a una cultura, una storia e una religione, anche se proprio alla dimensione spirituale dell’ebraismo non era mai davvero stata vicina. I romanzi successivi uscirono con regolarità e la fama si ingrandì. I motivi che la spingevano a scrivere erano anche di natura economica e non solo creativa, soprattutto dopo la morte di Léon avvenuta nel settembre del 1932, che le aveva lasciato un’eredità modesta rispetto al ricchissimo patrimonio che possedeva. Tutti i beni finirono nelle mani di Fanny che si guardò bene dal dividerli con la figlia. In quegli anni si sa che Irène leggeva e rileggeva i racconti di Katherine Mansfield Preludio e Alla baia. Il tema del romanzo La pedina sulla scacchiera sono i tremendi anni Trenta arrivati come una sorta di punizione dopo i dissoluti anni Venti. Anche per questo romanzo è stata tracciata la “vita anteriore” che accompagnava ogni suo scritto. L’ascesa al potere di Hitler viene raccontata nella corrispondenza della scrittrice che, all’amica Néné, si dice certa che ci sarà di nuovo la guerra e «vedrete che sarà la morte». Come ricordano i suoi biografi dal 1926 al 1940, la Némirovsky non ha fatto altro che scrivere un unico, immenso, lunghissimo romanzo, a partire da Il ballo per arrivare a I cani e i lupi. «Comincio a scrivere, in una minuta informe, il romanzo vero e proprio e nel contempo le riflessioni che esso mi suggerisce, il “diario del romanzo”, per usare l’espressione di André Gide. Poi lascio riposare il tutto, sforzandomi di non pensare più alla letteratura. Quando lo riprendo, tutto sembra organizzarsi, costruirsi da sé».
Nel 1933 passò all’editore Albin Michel che sarà il custode della mole dei suoi manoscritti, riportati alla luce solo di recente. Parigi è la cornice di molti dei suoi libri e allo stesso tempo anche il luogo che ne favorisce la scrittura. Tra Saint-Gérmain e le Tulieries si siederà con il quaderno in grembo e scriverà respirando la città e allo stesso tempo estraniandosene. Fatti i conti, tra il 1935 e il 1942, lei avrà scritto 9 romanzi, una biografia e 38 racconti. Le sue opere tradotte e portate in scena in tutto il mondo sono la fonte principale di entrate della sua famiglia. Nel 1935 la piccola Denise sarà la prima a ottenere la cittadinanza francese. Nel 1937 nasce Élisabeth, la sua futura biografa. Ma non bastarono né la fama letteraria, né le relazioni sociali, né tanto meno la conversione al cattolicesimo di tutta la famiglia nel febbraio del 1939, a costruire la rete di salvezza in cui lei e Michel speravano. Nessuno dei due riuscirà mai a ottenere la cittadinanza francese, anche se neppure questo avrebbe potuto salvarli. L’odio razziale si strinse sempre più intorno a loro come una rete cui è impossibile sfuggire. Quando scoppiò la guerra il 3 settembre 1939, era una giornata estiva ancora piena di promesse e la famiglia era in vacanza sulla costa basca. Il rifugio durante la guerra fu Issy-l’Évêque, un paesino della Borgogna dove il cibo e la quiete non mancavano. Alloggiata all’Hotel des Voyageurs, la famiglia riusciva a condurre una vita di quasi normalità, nonostante le notizie tremende che arrivavano da Parigi e dal fronte. L’ultimo quaderno da cui non si separava mai, era il manoscritto di Suite francese, il libro che ha restituito il suo nome alla fama che merita.
Nonostante il pericolo ormai evidente, Irène e Michel non riuscivano a risolversi di scappare o nascondersi. Il 16 luglio 1942 lei venne arrestata e il giorno dopo insieme ad altre decine di ebrei francesi mandata ad Auschwitz. Il 19 luglio all’arrivo le donne, dopo essere state private di abiti e gioielli, vennero rapate, vestite con i mesti abiti a righe che abbiamo imparato a conoscere e marchiate con i numeri dal 9550 al 9668. Gli uomini, per la maggior parte provenienti da Parigi, erano operai e artigiani, furono marchiati con i numeri dal 48.880 al 49.688. Irène sopravvisse solo un mese, nel certificato redatto ad Auschwitz, è scritto che il decesso avvenne alle 15 e 20 del 19 agosto 1942 a causa di un’influenza, molto più probabilmente di tifo. L’ultima lettera che riuscì a scrivere per la sua famiglia iniziava con le parole «Mio amato, mie piccole adorate». Di lei resta un’immagine netta e felice contenuta nel famoso quaderno di Suite francese, la nota è datata 11 luglio ’42, Bosco della Maie: «I pini intorno a me. Sono seduta sul mio maglione blu come su una zattera in mezzo a un oceano di foglie putride inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate sotto di me! Ho messo nella borsa il secondo volume di Anna Karenina, il Diario di Katherine Mansfield e un’arancia. I miei amici calabroni, insetti deliziosi, sembrano contenti di sé e il loro ronzio ha note gravi e profonde. Mi piacciono i toni bassi e gravi nelle voci e nella natura. Lo stridulo “cip cip” degli uccellini sui rami mi irrita… Tra poco cercherò di ritrovare quello stagno isolato».