venerdì 31 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/145: i libri, i ciliegi e due amiche che ridono e passeggiano



“Mi sono svegliata sotto una pioggia di fiori di ciliegio, era il momento che aspettavo ogni anno. Passeggiavo e respiravo il profumo dell’aria. Lasciavo che i petali si adagiassero sui capelli e sulla tonaca. Era una pioggia tenue, perlopiù rosata, ma con punte di bianco e di rosa acceso, come se i fiori avessero voluto rivelarmi il loro segreto. Tutta l’Abbazia è un luogo di segreti e di misteri. Dagli antichi manoscritti ai libri copiati dalle amanuensi, dai profumi alle spezie, ai veleni, ai broccati intessuti con oro e argento che sarebbero diventati abiti di re e regine. C’è anche una sala dove conserviamo le miniature e i ritratti. Chiediamo sempre ai pellegrini che si fermano e posseggono il dono di una o più arti, di lasciare un manufatto per la collezione dell’Abbazia. Quando finisce la pioggia dei ciliegi parto e cerco nel mondo tutti i buoni motivi che mi faranno tornare quando saranno le piogge di agosto a spezzare la schiena infuocata dell’estate. Ho deciso di passare a trovarvi quando ho saputo che vivete ormai stabilmente nella Casa delle Parole”.

Ieri sera molto tardi è arrivata alla Casa delle Parole un’amica della sacerdotessa. Hanno vissuto al riparo della stessa Abbazia quando erano ragazze e ora Roxanne è diventata Madre Badessa e, nonostante ciò, a ogni stagione si allontana e poi ritorna. È una donna di una bellezza carnale, dalle forme morbide, dagli occhi vivaci e intelligenti. La forma del suo viso indica la provenienza dalla lontana Russia e infatti mi conferma di essere russa per parte di madre. Ha una profondissima vocazione questa donna sorprendente e bella che ha scelto l’Abbazia non per mancanza ma per eccesso di mondo. Ha avuto una gioventù giocosa, ha viaggiato travestita da uomo, ha molto amato e si è anche sposata, voleva essere madre e ha avuto non uno ma due figli, femmina e maschio che hanno reso più ricco il mondo e dopo averli partoriti e cresciuti è tornata nel suo luogo di bellezza e di mistero. Lì ha ritrovato la sacerdotessa che aveva già conosciuto in gioventù, quando entrambe vagavano nel mondo maschile dei primi computer. Era un mondo precluso alle donne quello, un mondo di cui gli uomini pretendevano di tenere i segreti. Ma per loro non ci furono segreti, solo molto divertimento e molto prima che l’informatica si diffondesse verso tutti. In molte cose erano state pioniere le due donne e piaceva loro ricordarlo.

Negli anni della città silenziosa avevano un rito estivo, andavano a passeggiare lungo il Naviglio e poi a caccia di vecchi libri che, a volte, si contendevano. Era tutto uno smontare il mondo e ricostruirlo, ricordare le storie d’amore, i bambini ancora piccoli, l’incanto della scrittura e dei libri che leggevano. Dalla loro complicità emergeva anche un sentimento di sorellanza che andava oltre l’essere sorelle nella carne, perché loro, e lo vedevo molto chiaramente, erano sorelle nell’anima.

Ascoltarle è stato un tale piacere che il sonno mi ha abbandonato e ho trascorso buona parte della notte a riflettere sul dono dell’amicizia. Voglio chiedere alle due sacerdotesse se potrò andare a visitare la loro Abbazia un giorno, no, non un giorno, ma molto presto.

Acconsentono, anche se mi dicono che devo aspettare l’equinozio d’autunno. Poi andremo insieme, non sarà difficile trovare la strada, perché chi vive ai piedi delle Montagne della Nebbia ha in sé tutte le strade, note e sconosciute e i desideri, molto desideri.

Quando mi sono svegliata ho trovato sul mio cuscino una sciarpa di seta cangiante che imitava i colori dei ciliegi. Sono corsa in soggiorno per ringraziare Roxanne, ma mi hanno detto che lei e la sua amica stavano passeggiando in giardino.

Sono uscita e, infatti, le ho viste che parlavano e ridevano come due ragazzine e nella nebbiolina dell’alba, nella rugiada, nel sonno che ancora mi albergava negli occhi, non riuscivo a distinguere chi fosse l’una e chi l’altra.

Anche il nostro ciliegio scintillava nel giardino ed era fiorito una volta ancora e i petali stavano coprendo tutto il mondo, il nostro mondo e anche quello nella città silenziosa, dove in pochi se ne sono accorti e dove ritornerò per qualche ora.

Roxanne mi fa un cenno con la mano e mi grida di portarle qualche libro nuovo. Rispondo e torno in casa, sono ricoperta di petali e i lupi vengono ad annusarmi. Parlo la loro lingua adesso e non sapevo di poterlo fare. La lupa sembra che mi sorrida e poi mi dice “Vai. E scrivi”.

Questo è l’ultimo giorno di luglio dell’anno senza Carnevale e io vi ho presentato Roxanne, amica e sorella del cuore.


giovedì 30 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/144: se il tuo sguardo è la forza del mio

Sulla città silenziosa cala il sipario dell’estate anche se l’anno in corso è un anno diverso. Ieri e oggi ho camminato a lungo per le sue strade, ho ascoltato i suoni, i rumori, i canti degli uccelli.

A parte il rumore del traffico e le sirene delle ambulanze, la voce prevalente è quella delle cicale. Sì, proprio delle cicale, come se fossimo in campagna qualche decennio fa. La voce delle rondini si fa sentire solo il mattino molto presto o intorno al tramonto, cornacchie, merli, passeri e altri uccellini non si sentono quasi più.

Noi umani siamo più silenziosi, forse perché siamo alla ricerca di un impossibile equilibrio tra una nuova normalità e questo tempo nebuloso dove ci muoviamo al rallentatore.

Verso sera tutto si fa morbido e al buio cantano i grilli, poche persone passeggiano, neanche le terrazze si illuminano più di candele.

Ma una città è una città, posso tornare a esplorarla estate dopo estate e le variazioni saranno minime. Perché i palazzi non fioriscono e le piazze non si espandono.

Non sopporto altro tempo quaggiù, né tempo scritto, né tempo immaginato, né tempo reale.

Così torno con il mio bottino di libri nella Casa delle Parole, dove non c’è nessuno se non altri libri e un pomeriggio sonnolento.

Mi dispiace aver perso l’alba quaggiù, mi dispiace non avere visto il mare a mezzogiorno e non avere fatto il bagno con i delfini.

In città ho simulato la campagna mangiando pomodori e cetrioli sconditi, ora simulerò il mare ascoltando le onde immaginarie che chiamo sulle rive della mia memoria.

E così vedo l’isola, davanti alla nostra spiaggia un’isola che appare e scompare secondo i giorni e gli umori.

Lascio che i miei occhi si abituino a questa forma inesplorata, lascio che i miei occhi fioriscano e lo sguardo si apra su nuove dimensioni.

 

Se il tuo sguardo è la forza del mio

 

Dove esiste uno sguardo

esiste un nome, esiste

un tempo che ha inizio e

una fine, un colore che

dimentica se stesso, una

rondine che si tuffa coi

delfini, una conchiglia che

custodisce il sole, un granello

di sabbia che ruba il vento al

mare, un mare distratto che

gioca con le onde, un’onda che

canta come se fosse una foglia,

una rosa fiorita nell’angolo più

remoto della spiaggia, dove c’è

terra buona per la fioritura e

tutto questo basta perché questo

mio sguardo sia la trama di una

storia o di una poesia. A compiere

il miracolo, sono poi il silenzio e

il vento, le mie parole che sanno

di sale e il tuo sguardo che

incrocio e mi dice ciò che

avevo smarrito e non avevo

visto mai.

 

 

Sì, è proprio così, il mio sguardo e il tuo sguardo sono molto più che due sguardi. È tutto il mondo che ci danza intorno e insieme lo costruiamo parola per parola.

 

Questa Cronaca 144 nasce intorno alla poesia


mercoledì 29 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/143: fiorire nel silenzio e nel perdono, nella gioia restare


È la rosa che ti ha ascoltato e poi ti ha lasciato partire. La città era ancora silenziosa e noi stavamo nelle case che erano tane, piegati su noi stessi, spaventati e tristi.

Sei tornato e il coro delle cicale ti ha dato il benvenuto, anzi, ti ha salutato come se tu ti fossi svegliato in questo nuovo giorno e non avessi abbandonato né la città silenziosa né le terre dell’Altipiano.

Anche le nuvole sono venute a salutarti e ti hanno danzato intorno e ti hanno ricoperto di piccoli sbaffi di vapore e qualcuna ha lasciato cadere qualche goccia di pioggia per ritemprare le tue stesse rose.

Non poteva mancare il vento, complice delle nuvole, che ti ha sfiorato e redento dalla lunga attesa. Niente tracce di polvere sulla tua poltrona in giardino, niente foglie secche o rimpianti abbarbicati alla vite protesa verso il sole.

Anche il giardino tratta il tuo ritorno come un evento di minima importanza, ti saluta con improvvise fioriture del melograno e con l’oleandro che muta il colore da rosa in bianco.

Il ruscello in fondo al giardino gorgoglia felice, le acque sono trasparenti e i ciottoli sul fondo riflettono la luce, così che i pesci non siano d’argento ma d’oro e nessun predatore dall’alto dei cieli oserà tuffarsi a pescare.

Da quando sei tornato la luce danza con la polvere e mi sussurra storie all’orecchio, basta che io immerga una mano e parole danzanti mi restano impigliate come se fossi un pescatore e le storie, bè le storie, un banco di alici che sfida i delfini.

Anche le api partecipano alla sarabanda e si rotolano nei fiori e sfrecciano qua e là tra l’invisibile e il conosciuto, ci esortano a continuare nel nostro cammino e ci portano miele e parole sino alla tavola e io dispongo il pane e la carta bianca per accettare il loro nutrimento.

Abbiamo avuto la pazienza dei cammelli nel deserto, abbiamo perduto le lettere che ti avevamo scritto. Ma tu conoscevi la strada e sei tornato.

Mondo, mondo che sei noi e oltre noi abbracci le distese stellate del cielo notturno. Noi pure ti abbracciamo e sfioriamo il mare con dita leggere.

Nessuna ruga solcherà le onde e la tua fronte, nessun rimpianto, perché la strada continuerà dal punto preciso in cui era iniziata la paura.

L’olivo e l’oleandro sono sopravvissuti al crollo del tempio ed essi stessi sono la nuova cattedrale dove potrai fiorire nel silenzio e nel perdono.

Lì nello stesso luogo, dove la gioia è compagna della tua presenza e del mio sorriso che apre un varco tra i tuoi pensieri.

martedì 28 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/142: tu il fuoco, io la scintilla e il legno nel camino

Il campo di girasoli è nel pieno della sua fioritura, tutti stanno in faccia al sole, tutti, tranne uno.

Gli chiedo perché stia dall’altro lato e non si abbeveri alla piena luce del mezzogiorno.

“Non posso – mi dice – non posso. Perché li guardo e li vedo cadere. Alla fine della stagione non resterà nessuno, io pure sarò solo una manciata di semi e un gambo essiccato, le foglie arse dalla stagione implacabile”.

Mi chiedo perché solo lui, solo quest’unico girasole sappia come finirà questa storia. È inusuale che una creatura con le radici conosca la fine che solo a noi umani è dato sapere.

“Ero un pastore prima di diventare girasole, forse per questo ricordo che la fine è già data e nota. Forse per questo mi intenerisco alla vista dei miei fratelli che si credono immortali nell’oceano di luce solare”.

Non resta memoria di chi o cosa siamo stati, ma è vero, a volte ricordiamo.



Le mani sapienti che mi hanno accarezzato


Tu il fuoco, io la scintilla e
il legno nel camino.

Io la pioggia, tu la nuvola e
la terra odorosa.

Tu l’ombra, io lo zenit e
il girasole reclinato.

Io la rosa, tu il giardino e
le mani sapienti.

Le mani sapienti che mi hanno
accarezzato.



Se porto in me tutti questi frammenti di vita e di memoria, come farò a distinguere che io sono proprio io e non tu in un giorno passato?

Come farò a ricordare che ero pioggia e poi rosa e poi un’onda e la risacca, una conchiglia, un sorriso, il volo alto delle aquile, come farò?

Je est un autre, aveva ragione l’uomo con le suole di vento. Io non sono io ma un’altra. Tu sei tu e anche me. Insieme possiamo cavalcare l’onda e le nuvole.

Le vigne sono già piegate sotto l’uva che presto sarà matura. Imparo la pazienza dall’acino e dal grappolo. Torno dal girasole e lo accarezzo, noi saremo anche il frutto che ora è acerbo.

Così passano le generazioni e l’ulivo si contorce perché prende su di sé tutto il dolore della separazione, tutto il dolore del rimpianto e della nostalgia.

Sono le rose e il melograno a non girare mai il capo all’indietro, perché sanno la pena di ogni singolo giorno e tanto basta.

Solo le rose sono passeggere pazienti del tempo che verrà. Perché l’estrema fioritura sarà e non importa dove, e non importa come.


Il piccolo prato

Non è abbastanza
La pozza di cielo nel nostro cuore
È il cielo tutto intero
Che voglio quando sarà l’ora
Di scorrere come acqua pura
Nel letto profondo dell’amore.


L’acqua scorre e scivola di lato, tu sei il fiume e io il pesce argentato. Tu il mare e un’intenzione, un refolo di vento e la scintilla d’argento che ti chiama per nome.



La poesia Le mani sapienti che mi hanno accarezzato, un cui verso è diventato titolo, l’ho scritta per questa Cronaca 142.

La poesia Il piccolo prato è di Anne Perrier, la traduzione è mia.




Le petit pré

Ce n'est pas assez
D'une flaque de ciel en notre coeur
C'est le ciel tout entier
Que je veux quand viendra l'heure
De s'écouler comme une eau pure
Dans le lit profond de l'amour

lunedì 27 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/141: sono le tue mani che mi tengono aggrappata al mondo


Ascolto questo giorno nuovo che mi sussurra i suoi progetti e, soprattutto, i suoi segreti.

Non ho scelto di essere un lunedì, avrei preferito essere un venerdì o un sabato, ma sono un lunedì, il giorno che tutti detestano. Perché sono il primo giorno della settimana, per la maggior parte delle persone sono ancora il primo giorno di lavoro, dietro di me ci sono venerdì, sabato e domenica, i giorni felici della settimana.

Mi fermo con lui, questo giorno nuovo, a contemplare l’alba. Non c’è niente di meglio che alzarsi molto presto per godere delle ore azzurre e silenziose, le ore delle promesse e dei progetti.

Restiamo per un po’ in giardino e quando la luce vira sul rosa, decidiamo di scendere in spiaggia e vediamo i delfini che saltano e si divertono mentre le tre sorelle stanno già facendo il bagno. Non mi fermo a pensare se il giorno nuovo potrà tuffarsi con me. Mi libero velocemente del mio caftano ed entro nell’acqua fresca. Rabbrividisco e mi tuffo subito, seguo il respiro e le mie bracciate diventano morbide e in poco tempo raggiungo i delfini. Avete mai fatto il bagno in compagnia di un delfino? È un’esperienza senza pari, perché sono animali giocherelloni e amano la compagnia di noi umani. Vorrei poter saltare dentro e fuori dall’acqua come loro, ma mi basta essere trascinata per un po’ avanti e indietro. Ho dimenticato tutto, tutti i pensieri si sono assopiti come rondini nel nido, solo la memoria dell’acqua e delle onde è rimasta con me.


Sono le tue mani che mi tengono aggrappata al mondo


Anche nelle onde è rimasta
ferma l’ombra del tuo pensiero,
lo riconosco mentre nuota tra alghe
e delfini, ma più ancora è la forma
del tuo corpo che accompagna questo
moto obliquo del mare. Dove hai
vissuto sono rimaste anche le tue
impronte e io sento respirare ancora
il giardino che ti chiama e il mare
che ti invita. Arriverò in tempo per
stare con te? Sono le tue mani che
mi tengono aggrappata al mondo.


Quando torno a riva il giorno-bambino è diventato giorno-adolescente e mi ha messo il broncio. Così gli chiedo cosa vuole fare e lui mi dice “niente”, sono qui solo per guardare il mare e non dimenticare che sono pur sempre un lunedì.

Lasciamo passare le ore del mattino e a pranzo vado con un uomo con i capelli scuri e la barba verso casa. Tutti gli abitanti sono in giro e così prepariamo un pasto semplice a base di olive e formaggio di capra. Beviamo l’acqua della fonte che sgorga nel giardino, lunedì mi racconta molte cose che di lunedì sono accadute. Perché ogni giorno nuovo che nasce ha memoria di tutti quelli che lo hanno preceduto e memoria di ogni mese e di ogni anno, di tutti quei segnalibri dell’enciclopedia dell’universo che sono gli avvenimenti umani e quel che ne abbiamo fatto con i racconti.

Nel pomeriggio ci sdraiamo nel prato a guardare le nuvole, anche i lunedì amano contemplare le nuvole, anzi – mi dice – “Io colleziono nuvole”. Così mettiamo a confronto le nostre collezioni e gli chiedo di scambiare qualche nuvola che arriva dal mare lontano con le nuvole che vagano sulla città silenziosa il lunedì mattina.

Ora, le ore rimaste si stirano pigre come gatti e vanno incontro al tramonto. Sarà sera e poi notte e lunedì si ritirerà nella tasca del tempo dove riposerà per sei giorni prima di tornare.


Come arrivano i desideri leggeri e le speranze luminose

Secondi, minuti e ore,
un giorno dietro l’altro,
una settimana e poi
un mese, dodici mesi
e un altro anno è
andato e non tornerà.
Il tempo è questo giardino
che ci accoglie e ripone
con noi i desideri leggeri e
le speranze luminose. È
ancora estate e le promesse
cantano in lingue sconosciute.


Non abbiamo bisogno di altre parole ora, stasera ci riposiamo nel silenzio e nell’ombra delle stelle che sorgono a Occidente.


Le poesie e il titolo di questa Cronaca 141 sono stati scritti appositamente nell’ultimo lunedì di Luglio dell’anno senza Carnevale.

domenica 26 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/140: nella città le stanze e fuori il vento, solo vento


Solo la domenica, solo la domenica è il tempo giusto per poter ipotizzare che il tempo, sempre, è frutto di una mediazione tra il dentro e il fuori. L’ho capito girando per la casa, questa mattina molto presto, mentre tutti sono ancora addormentati. Ho guardato, ho guardato e guardato come se non lo avessi fatto mai:


La stanza

Riuniamo una porta, una finestra
e quattro muri pensierosi
e abbiamo già una stanza.
Una camera è senza dubbio il luogo
dove meglio si sente piovere.
Le tre rivelazioni della stanza:
un fantasma, un'arancia, una donna.
Quella che a tavola non disse nulla
lo dice con lacrime nella stanza.
La tua stanza è più intima del tuo passato
nel bosco i nidi
e nella città le stanze.


Nessuno ha mai pianto in questa casa, ma tutti abbiamo lasciato un’arancia a dormire sul tavolo, un’arancia passata da una mano all’altra sino a quando la volpe non l’ha presa e portata nella sua tana.

Tutti abbiamo ascoltato la pioggia e cantato la sua canzone.

Tutti abbiamo taciuto ascoltando chi voleva solo confessare lo straniamento dell’essere qui, tutti insieme, al sicuro, mentre la tela del mondo reale si sfilacciava un filo alla volta e sembrava che nessuno se ne fosse accorto.

Qui, nelle stanze, con noi riposano le storie, che sono molte, le figlie dell’ibisco rosso mi stanno chiamando al mio scrittoio, sento i rumori di chi si sta svegliando.

È un giorno nuovo, di tempo mite e fresco, benché il sole già splenda alto e nel giardino i lupi giochino a nascondino.

Ma oltre il giardino, oltre il mio sguardo, c’è l’Altipiano della Luna intorno e ci sono da un lato le Montagne della nebbia e dall’altro il Mare dei Delfini.

David, il poeta, sta uscendo con il suo taccuino, non so che strada prenderà, forse andrà alla Casa delle Sorelle in spiaggia e siederà in veranda a scrivere.

Arriva Anna con dei fogli in mano, ho copiato poesie mi dice e ora devo leggerlo a qualcuno:



Qui dove la pietra
è ritratto del tempo

e lo spazio
è l'unico albero

e il suo fogliame: nubi
e i suoi frutti: astri.

E il vento:
solo vento.


Come possono menti e voci che provengono da altre epoche sapere esattamente com’è il nostro fuori, quaggiù, con tutta la luce intorno e le nuvole in cerchio che giocano con i lupi, con tutto il tempo che vogliamo, per ridere e raccontare?

Come fanno i lupi e il vento a giocare e correre come se fossero un’unica creatura?

Una voce risponde: “Ma tutti noi siamo un’unica creatura che parla molte lingue e nel silenzio del cielo trova echi qui, sulla terra”.

È l’ultima domenica di luglio e noi siamo sempre qui, a vagare tra i mondi e il tempo e gli sguardi di chi sa ascoltare.



Le poesie di questa Cronaca 140 sono del poeta boliviano Eduardo Mitre:

La stanza trad. A. M. Molina, in Poesia, n. 221, Crocetti, 2007 è la prima delle Celebraciones
L’altipiano in Versi d'autunno, Sinopia, 2005, a cura di Antonella Ciabatti


Celebraciones

Unimos una puerta, una ventana
y cuatro pensativos
y ya tenemos un cuarto.
Un cuarto es sin duda el sitio
donde mejor se oye llover.
Las tres revelaciones del cuarto:
un fantasma, una araña, la mujer.
La que a la mesa nada dijo
se lo dice con lágrimas al cuarto.
Tu cuarto es más íntimo que tu pasado.
En el bosque los nidos
y en la ciudad los cuartos.

El Altipiano
Aquí donde la piedra
es retrato del tiempo
y el espacio
el único árbol
y su follaje: nubes
y sus frutos: astros.
Y el viento:
sólo viento.

sabato 25 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/139: all’ombra dell’ibisco rosso non dormono le fanciulle in fiore


Tre come le sorelle che vivono nella casa sulla spiaggia, tre come le lune che risplendono nel nostro cielo, tre come i delfini che saltano nel nostro mare, tre come i tentativi di aprire il mio cuore all’alba e al vento.

Inizia così un racconto che sto scrivendo, leggo questo incipit alla poetessa, alla regina e alla sacerdotessa. Non mi pare di averle molto colpite, Margot sbadiglia, le altre abbassano lo sguardo.

Chiedo loro perché siano così indifferenti e tiepide.

- Ma che dici! Mi riprende subito la poetessa, è che la storia la conosciamo molto bene anche noi.

- Di che storia state parlando? È una mia invenzione…

- La storia delle figlie del colonello non è una tua invenzione. È una storia che esiste nell’ampio arcipelago delle storie che sono già state scritte, prosegue la sacerdotessa.

Bisogna che io mi fermi un istante a pensare, qui siamo quattro donne e tutte e quattro scriviamo. Caterina la narratrice, che sono io, la regina Margot, la sacerdotessa Héloïse e Anna la poetessa, che interferisce di continuo con la mia scrittura e io con la sua tanto, che a volte, credo che siamo la stessa persona.


Qualche volta mi fermo sotto una parola
Precario riparo per la mia voce che trema
Che lotta contro la sabbia
Ma dove è la mia dimora.


Le figlie del colonnello erano tre, nate nel giro di tre anni e rimaste orfane alla nascita di Emilie. Colette e Simone pretendevano di avere un seppur vago ricordo della madre, mentre Emilie si consumava nel senso di colpa alimentato dai singhiozzi del padre che in lei rivedeva l’amatissima moglie Catherine. Dato che il colonnello Chabon era spesso via per le esercitazioni, le bambine crescevano nella casa di campagna in compagnia di un’istitutrice ciascuna e delle visite del parroco e di sua sorella Marie-Angèle che portavano loro il conforto della religione.
In casa imparavano il francese, il latino, l’inglese, il russo e il tedesco perché la madre aveva fatto giurare al marito che le figlie avrebbero dovuto imparare almeno tre lingue ciascuna. Suonavano il pianoforte, ricamavano, cucivano da sé gli abiti e imparavano anche a cucinare perché in quella grande casa di campagna si erano persi i confini tra la servitù e la vita borghese. Il colonnello faceva le sue apparizioni con regolarità e a ogni visita veniva scattata una fotografia che lo ritraeva con le figlie, così che un’intera parete del suo studio si andava riempiendo delle loro immagini. Un’intera fila, quasi vicino al soffitto, ritraeva anche la madre che era bellissima come Emilie e sembrava felice vicino al colonnello che era tanto più grande di lei. Le bambine amavano guardare le fotografie e commentare gli abiti della madre e i gioielli che il padre aveva detto che un giorno sarebbero stati divisi tra loro tre. Quel che l’uomo non scoprì mai è che le bambine scoprirono molto presto il nascondiglio della chiave della camera della loro madre e che iniziarono a visitarla di nascosto, senza che nessuno lo scoprisse mai. Sì perché la camera e il boudoir della madre confinavano con il guardaroba nella  camera delle bambine e solo un paravento celava la porta di comunicazione. Fu facile trovare la prima chiave sotto la lampada nello studio del padre e poi, una volta nel boudoir, aprire da quel lato la porta e potersi muovere con agio da un ambiente all’altro e curiosare tra gli oggetti della madre defunta. Trovarono e provarono gli abiti delle fotografie, i gioielli, gli ampi cappelli che erano ormai passati di moda, le pellicce, i guanti di capretto e i ventagli di piume. Lunghissimi file di perle dalle sfumatura che andavano dal bianco più puro al rosa, all’avorio e al grigio erano la passione di Emilie, Colette e Simone ardevano più per le acque marine, gli smeraldi e i diamanti così, pensavano, non sarebbe stato difficile dividere i gioielli una volta diventate grandi. Il trumeau di Catherine, la madre, custodiva non solo i cofanetti con i gioielli ma anche i diari che ancora le bambine non riuscivano a leggere perché erano scritti in russo.
Si dava, infatti, che Catherine fosse russa da parte di madre che, a sua volta, era figlia di una nobildonna tedesca che era dama alla corte dello zar. Quando la padronanza della lingua consentì loro di leggere i diari materni, una vita sfavillante alla corte dello zar, la vita della nonna e della madre bambina, si dispiegava sotto i loro occhi. Ce n’era abbastanza perché le storie si moltiplicassero grazie alla loro fantasia e ufficiali di cavalleria facessero vorticare in un valzer senza fine le loro antenate.
La vita scorreva così, ricca e senza particolari intoppi sino a quando il colonello, ormai in là con gli anni, cadde da cavallo e si fratturò le ossa del collo. L’agonia fu breve, i funerali solenni e rapidi, la lettura del testamento non interruppe la semplicità della loro vita. Colette era già maggiorenne ed era stata nominata tutrice delle sorelle sino al compimento della maggiore età. Momento nel quale, si dissero, avrebbero lasciato la dimora paterna per andare a vivere a Parigi. Ma quando Simone compì i fatidici ventuno anni, nessuna delle tre accennò all’antico patto e rimasero tranquille a vivere con le tre istitutrici che invecchiavano con grazia e la gioia di quella vita confortevole e protetta dalle brutture del mondo. Sino a quando, una sera, un messaggero a cavallo aveva bussato alla loro porta. Non fu il messaggero a turbare la quiete, né tanto meno il messaggio, era la firma in fondo al messaggio che diceva:

“Caro marito, torno a scrivervi presso la casa di campagna perché l’ultima missiva recapitata presso il vostro reggimento è stata respinta. Ho pensato che forse avete raggiunto l’età della pensione e che vi siete ritirato nella casa che tanto amate insieme alle nostre bambine. Vi chiedo ancora una volta di ascoltare le mie ragioni e di darmi la possibilità di riabbracciare le mie figlie. La Vostra devota, anche se voi non mi credete, moglie e amica fedele Catherine”.


Alla fine di questo racconto che stavo imbastendo intervenne ancora Anna la poetessa.


Partire partire
Non sono una che resta
La casa il giardino così amati
Non sono mai dietro ma sempre davanti
Nella splendida nebbia
Sconosciuta.


E questa poesia? Chiede Margot la regina.

È la poesia di Catherine, una di quelle persone che non sanno restare e amano l’alba ammantata di nebbia e non quella sconvolta dal sole. L’ora azzurra del giorno nascente ha un gusto diverso ogni stagione. L’azzurro è della primavera e dell’inverno, il grigio dell’autunno e il rosa dell’estate.

Così sono rimasta imbrigliata nella mia stessa rete e devo continuare a inseguire questa storia e a scriverla per voi che mi leggete e per me stessa, perseguitata da tutte le parole, dette, non dette o solo immaginate.



Le due poesie di questa Cronaca 139 sono di Anne Perrier e le ho tradotte io.
Il titolo deriva dal titolo di un vecchio racconto “Le figlie dell’ibisco rosso” iniziato tanti anni fa e rimasto in sospeso.


Je m'arrête parfois sous un mot
Précaire abri à ma voix qui tremble
Et qui lutte contre le sable
Mais où est ma demeure



Partir partir
Je ne suis pas de ceux qui restent
La maison le jardin tant aimés
Ne sont jamais derrière mais devant
Dans la splendide brume
Inconnue

venerdì 24 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/138: quelle luci disperse che non so ancora chiamare per nome


La parola che manca è acqua, la seconda parola che manca è cortile, manca anche la rosa per finire.

Ieri ho scritto della pioggia e la pioggia ha invaso tutti i regni e noi siamo rimasti chiusi in casa e abbiamo raccontato storie e abbiamo letto storie.

Poi abbiamo scritto, per non dimenticare, per poter rileggere e stupirci a ogni nuova lettura.

Perché le pagine sono tavole scolpite, ma le parole sgorgano come acqua e nessuna sorgente ha memoria dei limpidi zampilli.

Perché ogni zampillo è nuovo, è parola primigenia che cerca uno spazio dove stare, non importa se nell’aria o nella pagina scritta a mano.

Non importa se nel vento che geme o nell’incavo del silenzio.

Il silenzio non è lineare, non è piatto, è fatto di angoli, è concavo, è convesso. 

Se ne sta acciambellato come un gatto e si stira quando arrivano parole nuove a solleticarlo.

Nessuna parola è tale se prima non ha attraversato l’oceano del silenzio, se prima non si è bagnata e ha mutato colore, sillabe e consistenza.

Ogni parola lascia qualcosa di sé nell’oceano, per questo basta immergere le mani e contare le stelle che sono rimaste impigliate nella rete della lingua.

È dolce il movimento che porta le mani dalla bocca all’orecchio, solo così le parole possono attraversare la luce e risplendere dei significati che sappiamo donare loro.

Com’è dolce la pioggia, anche se impetuosa, si è arresa a cadere quaggiù sui selciati piegati dal caldo e scolpiti dal sole.

Cade la pioggia e una parte scivola nel terreno e l’altra parte, subito, evapora e torna nel cielo.

Lassù saranno nuove nuvole ad accoglierla e la pioggia perderà prima il nome e poi il ricordo della caduta.

La parola che manca è necessità, nessuno sa di cosa ha bisogno. La vita antica ha smesso di scintillare e tutti vediamo nitidamente che non abbiamo bisogno di più cose di quante già non siano nelle nostre case.

La parola che manca è futuro, un tempo vasto e più immenso di quel che è stato, un tempo migliore perché è nelle radici della nostra cultura credere che progrediremo e cresceremo verso un sole più luminoso.

Le parole che mancano sono così tante che ci fermiamo. Raccolgo dalla cesta di Alexandre e François – il misterioso architetto e il sapiente guerriero - le parole che hanno raccolto in giardino e in spiaggia dopo la tempesta.

Oceano è la prima parola e se ne sta in un guscio d’uovo di tartaruga, sguardo è la seconda ed è scolpita su una pietra di lava nera, stella è la terza e la stella marina morta contiene una briciola di quella luce che è arrivata dal cielo.

C’è questa tristezza da emisfero australe stasera che mi percorre i brividi e le mani e allora cerco una poesia per i miei amici e le mie amiche che condividono questi giorni, uno diverso ogni giorno, e mi danno felicità con le loro parole.



Il Sud 

Da un tuo cortile aver guardato
le antiche stelle,
dalla panchina in ombra aver guardato
quelle luci disperse
che non so ancora chiamare per nome
né ordinare in costellazioni,
aver sentito il cerchio d’acqua
nel segreto pozzo,
l’odore del gelsomino e della madreselva,
il silenzioso uccello addormentato,
la volta dell’androne, l’umido
– forse son queste cose la poesia.



Sono la cicala e il vento, il grillo che canta ogni notte sotto la mia finestra, il mare che ho visto e quello che ho sognato. Sono il cortile e questo giardino, la promessa dei melograni, un gatto addormentato nel prato, un gatto addormentato sul mio letto. Posso chiedere all’infinito e all’eternità di stilare una nuova lista.

Loro accettano, io mi siedo alla mia scrivania e resto in attesa, ascolto, poi scrivo….



Il titolo di questa Cronaca 138 è un verso dalla poesia Il Sud di Jorge Luis Borges, tratta da Fervore di Buenos Aires, traduzione di Tommaso Scarano, Adelphi 2010


El Sur

Desde uno de tus patios haber mirado
las antiguas estrellas,
desde el banco de sombra haber mirado
esas luces dispersas,
que mi ignorancia no ha aprendido a nombrar
ni a ordenar en constelaciones,
haber sentido el círculo del agua
en el secreto aljibe,
el olor del jazmín y la madreselva,
el silencio del pájaro dormido,
el arco del zaguán, la humedad
– esas cosas, acaso, son el poema.