Visualizzazione post con etichetta terra. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta terra. Mostra tutti i post

domenica 8 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/518. È cieca la materia, attratta dalle ombre, più ancora che dalla luce

 



Il tempo mite e non troppo caldo favorisce le lunghe ore di contemplazione seduta in fondo al giardino. Da lì posso guardare la Casa delle Parole e i suoi numerosi abitanti che vanno e vengono, ritornano e poi partono. Non mi sono mossa per tutto il giorno, ho mangiato pesche colte dall’albero, tiepide e profumate, ho bevuto l’acqua che zampilla dalla fontana e ride in una lingua che non conosco. Ho ascoltato le cicale frinire senza sosta e ho guardato il cielo, prima sgombro, poi attraversato da nuvole evanescenti e chiare. Il vento ha soffiato per pochi minuti e la pace del paradiso terrestre ha abitato con me nel giardino. Mi sorprende sempre come un pensiero cerchi subito il suo opposto e l’azzurrità della conca sopra di me, ha cercato invano il ricordo dei temporali.

 

 

Le cose senza lacrime che mi stanno intorno

 

C’è una pioggia che non

lascia mai le nuvole, c’è

acqua che mai evapora

dal mare, c’è terra che

mai diventerà linfa, tutti

sanno che la metamorfosi

è quasi sempre un atto

di volontà e devono

queste cose senza

lacrime restare nella

forma originaria per

ricordare a ciò che

ritornerà come dovrà

essere il loro nuovo

stato. Ma la materia

conosce anche la grazia

di abbandonarsi alle

trasformazioni chieste

dal cielo e dalle stelle.

È cieca la materia, attratta

dalle ombre, più ancora

che dalla luce. E nemmeno

sa ascoltare il grido delle

rose che sbocciano a

ogni ora in fondo al

giardino e rispondono a

un richiamo di cui abbiamo

perso le origini e il senso.

 

 

 

Ora che è buio posso tornare a casa, accendere le luci, lavare i pomodori sotto l’acqua corrente che illumina il lavandino di pietra. Esco ancora a raccogliere un mazzetto di basilico il cui profumo mi inebria e poi preparo una cena fatta di poco e d’estate che danza tutta in questi colori e in questo silenzio.

Oggi è domenica 8 agosto del secondo anno senza Carnevale e la Cronaca 518 vuole andare a dormire presto, per ascoltare i grilli che riempiono l’aria del loro canto dolce.

lunedì 20 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/134: estate, stagione assoluta del deserto e del mare


Tondo come il mondo, il pianeta blu, l’arancia azzurra. Il mondo è il pianeta, noi siamo il mondo. Il mondo è la nostra casa comune, una casa instabile, di tempeste, terremoti, vulcani in eruzione, mari agitati, nuvole in corsa, una casa che non governiamo ma che ci illudiamo di avere domato. Perché abbiamo dato un nome a tutte le cose, ma il nome da solo non basta, non bastano le sillabe e le singole lettere. Non basta una lingua a dare conto del mondo, né bastano tutte le lingue per poterlo dire. C’è sempre qualcosa che eccede la nostra capacità di dirlo in parole. Ma ci resta la contemplazione, ci resta l’ammirazione e il sogno di vederlo per una volta almeno da lassù, tondo, azzurro di mare e bianco di nuvole.

 

Il dolore è il mondo ferito che entra in noi, la scomparsa di qualcuno che amiamo, un cambiamento irreversibile, il crollo della speranza, la lontananza di qualcuno che amiamo. Il dolore ha tanti volti e non li mostra mai tutti insieme. Ci sono dolori che sono come una buca scavata nel terreno e una bambina rimasta intrappolata che non ha più neanche la forza di piangere e gridare. I suoi immensi occhi azzurri continuano a infrangere l’oscurità, ma nessuna mano tesa è abbastanza forte per poterla tirare su. O forse la bambina neanche ci prova, perché la buca è una certezza e perché il mondo, lassù, fuori, può causare ancora più dolore.

Il dolore esce da noi con un grido lacerante, squarcia l’aria, i nostri stessi polmoni. Ma non c’è dolore che non arrivi dal mondo, non c’è dolore che non sia legato a una relazione distorta, morta o malata. Il dolore sopravvive alla relazione, tiene in schiavitù le persone, non le lascia cambiare. Ci sono persone che vivono crogiolandosi nei dolori e nelle perdite. Anni fa su un treno avevo incontrato una donna anziana che stava andando a passare una settimana di vita con il figlio minore, la nuora e il nipotino che vivevano a Riccione. Lei non voleva trasferirsi da loro perché non avrebbe più potuto andare a trovare tutti i giorni al cimitero il marito e il figlio primogenito che era morto in un incidente di moto. A volte i morti prendono il sopravvento sui vivi e li scalzano dall’amore. È più facile amare chi non c’è più, perché i morti non cambiano, non cambieranno mai e i vivi cambiano ogni giorno e, nella relazione, ci portano nel cambiamento nella terra dei vivi.

 

La terra non è propriamente il mondo. La terra è più vicina, significa mondo ma anche solo una parte di esso, la parte che amiamo e conosciamo meglio, spesso quella in cui siamo nati. Non c’è epoca che non abbia visto una parte dell’umanità doversi staccare dalla propria terra e iniziare a piangerla non appena partiti.

 

 

Prepararsi all’addio


Salutate la casa, il pozzo
gli ulivi, mettete delle colline
il profilo in un’altra quiete che
confonderà le querce
alle ciminiere.

Ai treni consegnate i giochi nei
campi, gli stornelli dell’estate  
lasciateli all’aia. Della cucina
prendete il fumo che con altro
fumo mescolerete.

All’orecchio non confidate
subito il segreto dell’oleandro,
lasciate che le voci barbare
ne violino la sfera.

Il viaggio inizia con la terra
che non si stacca, non si
stacca dalle suole.



La madre, la madre, porta che dall’infinito ci conduce all’eternità. Non ci sono madri innocenti, non ci sono madri colpevoli. Diventare madre significa accettare la vita com’è, significa accettare la sfida dell’essere e farsi carne per un’altra carne, per un altro frammento di eternità che respirerà qui nel mondo e amerà la terra e forse noi. Se diventare madre era un destino fino a pochi decenni fa, ora più che mai, almeno in Occidente, è diventato una scelta, un dono di sé. Come una scelta è il non diventare madri ed essere comunque donne, essere madri non è solo partorire un bambino, è prendersi cura. Essere donna implica anche la possibilità di dire di no a tutto questo e scegliere altro. Ma tutti noi continuiamo a relazionarci con la nostra di madre. Presente, assente, buona o cattiva, amorevole o indifferente lei è il primo, vero oggetto d’amore, l’amore che genera gli amori successivi.

Gli uomini sono l’umanità intera, uomini e donne nascosti nel neutro maschile universale che comprende le donne e al contempo le cela. Affermare che le donne non sono uomini a partire proprio dal linguaggio è stata una prima grande rivendicazione. Me nonostante il Novecento con tutte le guerre, le sconfitte, i lutti, le lotte, il femminismo e il Sessantotto, la vita delle donne e degli uomini continua a essere divisa verticalmente dalle responsabilità in seno alla famiglia, dalla divisione del lavoro, dalle aspettative sociali. Il patriarcato non è morto e la pandemia di quest’anno ce lo ha dimostrato.

Il deserto è un luogo assoluto dove i mistici si rifugiano a cercare o a sfuggire da Dio, dove i nomadi calpestano le proprie impronte secolo dopo secolo, dove l’acqua si nasconde e la sete non si esaurisce. Dove il caldo soffocante del giorno è gemello del gelo stellato della notte. Ho conosciuto solo un deserto sinora, quello del Negev in Israele. Il deserto tutto intorno al Mar Morto, il silenzio, l’acqua così salata da essere amara, la solitudine che era diventata una cosa viva, l’oasi di En Gedi e lo Wadi Arugot dove ho sentito Dio e la natura essere tutt’uno e sento ancora nelle orecchie il vento tra le foglie, il rumore delle cascatelle d’acqua e il respiro mio e della mia amica Titti che non abbiamo parlato per ore e ore. Si può fare spazio a un deserto e un’oasi dentro di sé e mettersi in ascolto. Qualcuno parlerà.

L’onore non è più una parola molto usata, pertiene all’individuo e alla società. È molto più che rispetto e implica il riconoscimento di valori e comportamenti comuni che devono essere preservati e valorizzati. L’onore è il contrario della menzogna e dell’opportunismo e sono poche le persone di questo scorcio di secolo che potrei affiancare alla parola onore.

Anche la miseria è una parola desueta pur non essendo la miseria scomparsa. La miseria e l’onore non sempre abitano nella stessa casa, ma si può essere miseri ma onorevoli. La miseria non è solo la povertà estrema delle cose, ma soprattutto la povertà estrema dell’anima e non basterà nessuna ricchezza a colmarne i vuoti e a rammendarne i buchi.

L’estate è la stagione assoluta, la stagione della terra di Camus, l’epoca delle virtù e della luce, la stagione che esiste e si rivela come invincibile anche nel cuore di un inverno, reale o metaforico ha poca importanza.

Il mare non è solo l’acqua che abbraccia le terre. Il mare è uno stato d’animo, il mare tutto accoglie e tutto restituisce. I tesori sommersi sono tali solo perché noi possiamo continuare a cercarli. Il mare accompagna il pensiero e il respiro, ci fa tornare bambini e gioiosi.

Come questo mare dalle rive di sabbia e pochi scogli dove stiamo leggendo questa nuova lista di parole preferite che è quella di Albert Camus.

“Le mie dieci parole preferite: il mondo, il dolore, la terra, la madre, gli uomini, il deserto, l’onore, la miseria, l’estate, il mare”.

"Mes dix mots préférés: le monde, la douleur, la terre, la mère, les hommes, le désert, l'honneur, la misère, l'été, la mer".

Albert Camus, Carnets III (1951-1959)

 

Prepararsi all’addio è tratto dalla mia prima raccolta Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004


giovedì 25 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/109: se la pagina scritta è un giardino, la poesia non è la rosa ma la terra feconda


Cammino guardando la terra, mi concentro sul movimento di un piede, sulla flessione, sulla forza e lo slancio.

Prima cammino sui prati intorno a casa, poi sul sentiero che porta alla spiaggia, continuo a camminare a piedi nudi.

Le tre sorelle sono sedute all’ombra di una grande tenda bianca. Riescono sempre a disporsi a trittico, sono bellissime e di nuovo tutte e tre stanno leggendo libri dalla copertina antica.

Il fratellino sta giocando con un cagnolino che non avevo ancora mai visto.

Le ragazze, all’unisono, mi fanno cenno di avvicinarmi.

La brezza marina agita i lembi delle tende e quelli dei loro lunghi abiti di lino. Tutto quel biancore mi trasmette una grande freschezza e anche un senso di pace che provo di rado.

Mi offrono da bere del tè ghiacciato con limone che accetto con piacere.

- Ho visto il vostro giardino, è davvero bello – mi dice una delle sorelle – non so chi di voi sia il felice giardiniere ma ha un tocco notevole.

- Non solo il tocco di un giardiniere, ma anche il tocco di un poeta. Sono deliziose tutto quelle piccole edere e le patate americane germogliate – aggiunge la seconda.

- Ascoltate cosa scriveva un filosofo e poeta del secolo scorso a proposito di giardini e poesia:


Se paragonassi una pagina di scrittura a un giardino, sarei portato a vedere in un primo momento nella rosa l'immagine stessa del componimento poetico. Ma sarebbe un grave errore.
La poesia è nemica dell'apparenza. È appartenenza immemoriale. Del giardino la poesia è piuttosto la terra feconda, umida: la miracolosa umidità del suolo nelle sue profondità. Può essere, anche, la linfa, le radici
”.

Trovo notevole questo scarto del pensiero, questo accantonare la bellezza struggente della rosa per riportare l’arte poetica alla sua germinazione dal profondo dell’essere.

Di quanto lavoro ha bisogno la terra per donarci i suoi frutti? Scavata, arata, sarchiata, inseminata e così via.

È profondo il legame tra i nostri passi e il nostro cibo, la terra è sostegno a entrambi e noi godiamo della sua fertilità.

In italiano, e non solo, terra è anche Terra, il nome del nostro pianeta, un nome antico che ha origini latine.

Sulla terra lasciamo le impronte dei nostri passi, la terra è casa, è ricchezza, nella terra affondano le radici degli alberi.

La terra è sposa del cielo quanto il mare, nella terra ritorneremo, la terra conserva le vestigia di epoche lontane e di civiltà scomparse.

La terra è la custode dell’anima umana, è bello toccarla e pensare a cosa potrebbe crescere.



Apro il taccuino e leggo alle sorelle una mia poesia di tanti anni fa.


La terra che era mondo

 

Ho scavato nella terra
con le mani già sporche 
d'inchiostro.

Ho scavato fino al giusto
fondo dove dimorano ora
le piccole radici
e racchiuso tutto intorno
quella terra che era mondo.

Le foglie si alzeranno
si apriranno verso le nuvole
invidiose del loro colore
desiderose di andare e stare.

A sugo quasi pronto spezzerò
qualche gambo e laverò
le foglie nell'acqua corrente.

L'estate è profumo di basilico
e ringhiera.



È il giorno giusto per leggerla perché è di nuovo estate anche se nessuno è ancora preparato a questo mondo mascherato. Non è davvero cambiato nulla, quel che siamo ha solo una diversa decorazione.

Una delle sorelle mi chiede di poter copiare la poesia e vuole anche sapere cosa sia una ringhiera perché non ne ha mai vista una.

Sento la città non più silenziosa sorridere alle mie spalle, tenace e fiera come una terra madre.

Domani torno a vedere come vanno le cose. Tra poco tornerò verso casa, voglio chiedere al misterioso architetto cos’è la terra per lui.


La mia poesia è tratta dalla raccolta Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004

La citazione di Edmond Jabès è tratta dal volume Poesie per i giorni di pioggia e di sole, a cura di Chiara Agostini, Manni 2002



domenica 24 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/77: l’esperienza dell’alba e le mutazioni del fuoco


Il pensiero s’innamora spesso delle stesse immagini e se il pensiero è innamorato io pure lo sono.

Mi sono alzata prima ancora dell’alba oggi, perché il mio pensiero desiderava vedere l’alba e io e il mio pensiero eravamo tutt’uno.

È stato bello vedere come è sparita la coperta della notte, via! In un attimo il cielo è virato dal grigio all’azzurro e poi al rosa.

Il mondo era vuoto e silenzioso, neanche le rondini erano ancora uscite, così mi sono seduta sul gradino della ringhiera e sono rimasta a contemplare le mutazioni della luce, non una ma molte, quanti erano i colori che la accompagnavano.

Le cose si trasfondono una nell’altra all’alba, è il dono della notte al giorno nuovo.

Le mutazioni, il continuo cambiare colore e forma sono, e so di averlo già scritto, uno dei miti fondanti di questa civiltà cui appartengo.

La mutazione della materia in altra materia è una delle ossessioni di filosofi, alchimisti e fisici.

Già Eraclito diceva:

“Mutazioni del fuoco: da prima mare, e dal mare una metà terra e una metà fiamma in cielo”.

L’aria non è contemplata in questo frammento di cosmogonia e credo di sapere perché.

All’aria appartengono le parole che vengono pronunciate da tutti gli umani. Parole interrogative e filosofiche da alcuni, parole di tempo per altri, parole di vita quotidiana per altri ancora.

Svelare il mistero delle parole, le logiche combinatorie che sostengono ogni lingua è il compito immane che si è dato il nuovo ospite che è stato lieto di scoprire il nome della nostra casa, qui ai piedi delle Montagne della Nebbia.

Quando li ho sentiti arrivare ho lasciato il mio angolo di contemplazione nella città silenziosa e li ho raggiunti con la forza del mio desiderio.

Il guerriero sapiente e la sacerdotessa camminavano affiancati e ciascuno era affiancato dal volo maestoso di un’aquila.

I lupi, il poeta e il re sono andati a dargli il benvenuto. Il re è così curioso che non si è rammaricato del lungo viaggio della regina che ancora non arriva.

La sacerdotessa aveva già preparato una stanza per lui. Alla Casa delle Parole sono spuntate quattro torri che salutano i punti cardinali. A lui, di cui ancora non sappiamo il nome, anche se a dire il vero nessuno ha mai rivelato il proprio nome agli altri ospiti di questa casa incantata, la sacerdotessa ha destinato la torre che guarda a Oriente. Il luogo da cui lui viene e le cui lingue reca con sé. La sacerdotessa dice che è un uomo fuori dal comune, che da giovane ha salvato un’antica città e la sua biblioteca da una distruzione certa. Non saprei dargli un’età perché ha voce giovane e occhi verdi che scintillano. È gentile, ride volentieri, ma non ha, almeno oggi, molta voglia di intrattenersi con gli altri ospiti. Il poeta gli regala un suo libro, il re lo ascolta come si ascoltano gli aruspici, cercando di cogliere indizi laddove ci sono solo resti inanimati. La sacerdotessa mi ha detto che lui è un veggente, che l’ha chiamata a sé da secoli lontanissimi e che sapeva che lei lo stava cercando e che lo avrebbe aspettato. Il guerriero sacerdote, perché questo è, non guarda nessuno se non la sua sacerdotessa, le è devoto con tutto se stesso e insieme condividono un’antica sapienza che stanno rivelando l’uno all’altra e io spero che poi si volgeranno al mondo e ci daranno frammenti e parole che ci siano di guida e d’ispirazione. Fremo dalla curiosità, ma niente distoglie quegli sguardi amorosi dalla loro muta conversazione. Presto la sacerdotessa e il guerriero si ritirano nella Torre Orientale e la giornata prende un’altra piega.


“Quanti fuochi, quanti soli, quante aurore, quante mai sono le acque? Non ve lo dico per sfida, o voi Padri. Lo chiedo per sapere, o voi poeti”.

Così recita il guerriero come commiato e noi che restiamo nella sala comune della Casa delle Parole accogliamo le domande, perché ciascun fuoco è una domanda, ciascuna aurora lo è, così come ogni acqua che stia sulla terra in forma di oceano, mare o fiume è una domanda, e domande sono l’acqua che dorme nelle nuvole e la pioggia che altro non è che l’amore delle nuvole per la terra da cui non possono più stare lontane.

In queste domande, in molte altre domande, sta il senso del nostro scrivere.

Lo sa il poeta che torna al suo tavolo, lo sa il re che inizia una nuova lettera per la sua regina, lo sanno i lupi, quando la lupa dà un colpetto al muso del suo lupo e lui si china a strofinarsi, lo so anch’io che di questo mondo e dell’altro insieme sono la narratrice.


Dell’alba di questa mattina e di tutte le aurore,

Dell’alba di questa mattina e di tutte le aurore,
del sole che risorge da un lato e si addormenta dall’altro,
delle acque che cambiano forma più veloci del nostro
immaginarle, della terra che sembra dormire mentre
sotto una superficie vasta e profonda, tutti gli alberi
parlano e scambiano idee,
delle bestie di questo creato che congiunge il mito a
un desiderio, di tutte queste voci che il fuoco ha
forgiato, io sono la custode e la donatrice.
Basta che io apra le mani dopo avere scritto,
basta che voi apriate le vostre dopo avere letto.
E le domande troveranno le risposte giuste nel momento
in cui le avrete pensate. E le risposte saranno domande senza punti
ma con un microcosmo che ciascuna contiene e che
le contiene tutte.

Un fremito dell’aria annuncia due visitatori alle mie spalle.
Sono già tornati il sacerdote e la sacerdotessa, sono tornati perché anche loro vogliono leggere queste mie parole.
Lascio i fogli a galleggiare nella luce del tramonto, dall’altra parte del mondo è quasi giorno ed è di certo amore per questa vita che continua e si rinnova.
Nonostante tutto, grazie a tutto, grazie al fuoco che muta gli elementi e poi ritorna alla sua fiamma originaria.


La citazione di Eraclito è tratta da
I Frammenti e le Testimonianze
Frammento 39
a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra
Fondazione Lorenzo Valla /Arnoldo Mondadori Editore 1980


La citazione dai Rgveda 10, 88, 18
è in esergo al libro di

Roberto Calasso

L'ardore
Adelphi 2010

Dell’alba di questa mattina e di tutte le aurore,
è una mia poesia inedita, scritta per questa Cronaca 77.

mercoledì 29 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/52: anche la pioggia crea la sua notte


Come affrontare la pioggia? Come affrontare uno scroscio? Come affrontare un’intera giornata o la notte che viene, sotto l’acqua?

Il tempo in cui la pioggia si manifesta non è indifferente, ci spinge alla fuga o al gioco, alla contemplazione o al rifugio nel profondo di noi stessi.

Il re è uscito a passeggiare nei campi in compagnia dei lupi anche se il cielo striato di grigio preannunciava l’arrivo di una pioggia sottile.

Così è stato e questa pioggia di primavera, che evapora non appena tocca il suolo, invita alla corsa e al gioco come stanno facendo i lupi e il re.

Quando corriamo, saltiamo, ci rotoliamo nei prati, la nostra età anagrafica sparisce e i bambini e i lupacchiotti che siamo stati, riprendono la scena e giocano, giocano come se non ci fosse nient’altro che importa al mondo.

Diverso è decidere di camminare sotto lo scroscio di un temporale estivo. Lo avete mai fatto? Io sì, quando ero adolescente, e una parte di me continua a essere adolescente, quando lo stupore del mondo è tutt'uno con il nostro spirito e i nostri desideri.

L’adolescenza è una terra di nessuno attraversata da fulmini e scrosci di pioggia improvvisa.

In quell'ormai remoto pomeriggio di agosto un temporale minaccioso, così com'erano i temporali di un tempo, aveva oscurato il cielo e allagato le strade.

Nelle estati della mia adolescenza ho lavorato nel palazzo di Via Manzoni 31 a Milano dove ora c’è l’hotel Armani e che all'epoca era un palazzo di uffici.

Nonostante la pioggia avevo continuato a camminare a piedi attraversando il centro sino ad arrivare in piazza Castello. Pioveva talmente tanto che facevo fatica a respirare, ma la sensazione della pioggia che si infrangeva sulla pelle nuda delle braccia e delle gambe, mi basta chiudere gli occhi per sentirla ancora. Quando sono scesa in metropolitana, uno strascico di acqua sgocciolava dai vestiti che mi si erano appiccicati addosso e dai capelli lunghissimi e tutti arruffati. Mi ero guardata per un attimo nel riflesso dei finestrini e avevo intravisto una giovane e bella ragazza dall'aria fiera e selvaggia in compagnia di una lupa altrettanto arruffata e giovane.

I temporali estivi è bello viverli anche da una finestra o dal divano e sentire le gocce che battono sui vetri, si infrangono sulle foglie e poi scivolano verso la terra.

Ho un ricordo vivido di un temporale che aveva avvolto un albero di fico maestoso il cui profumo invadeva l’aria del giardino per diversi mesi ogni anno.

Quando la pioggia iniziava a diminuire pareva di poter contare ogni goccia e di accompagnarla nel nuovo regno sotterraneo che la stava aspettando.

Man mano che il rumore scemava, un sonno come di fiaba prendeva il sopravvento e potevo addormentarmi certa che solo sogni di carta di riso mi avrebbero visitata.

Di notte, invece, la pioggia può essere foriera di accese nostalgie, soprattutto se siamo soli, soprattutto se cerchiamo la presenza di qualcuno che amiamo e che non è con noi.

Ma ora non è ancora notte, il re è fuori nella brughiera ai piedi delle Montagne della Nebbia e i lupi non lo lasceranno solo.

Posso sedermi al mio tavolo e iniziare a scrivere una nuova Cronaca.

Anche il congedo di oggi è poetico e molto piovoso. I versi, della superlativa scrittrice e poetessa canadese Anne Michaels, sono tradotti da Francesca Romana Paci e tratti dal volume Quello che la luce insegna.


La pioggia crea la sua notte


La pioggia crea la sua notte, lunghe mattinate con le lampade
    accese.
Erba lunga di spiaggia incollata al pavimento vicino alle tue
    scarpe,
polline della scorsa estate si alza da zanzariere bagnate.

Questo è ordine, questi cumuli che riempiono spiazzi fra noi,

indumenti aggrappati alle sedie, le tue scarpe in un guscio
   di fango.

La pioggia forte ha un odore come se venisse dalla terra.

La luce umana dentro le nostre finestre, calma aranciata
di stanze viste dall'esterno. Il posto dove ci diamo da soli,
dandoci al sonno. Circondati dalla garanzia verde di una foresta,
dal tulle di ferro di cielo e mare,
mentre la notte, la pioggia, fila giù attraverso gli alberi.



Rain Makes Its Own Night


Rain makes its own night, long mornings with the lamp left
on.
Lean bean grass sticks to the floor near your shoes,
last summer’s pollen rises from damp metal screens.

This is order, this clutter that fills clearings between us,
clothes clinging to chairs, your shoes in a muddy grip.

The hard rain smells like it comes from the earth.
the human light in our windows, the orange stillness
of rooms seen from outside. The place we fall to alone,
falling to sleep. Surrounded by a forest’s green assurance,
the iron gauze of sky and sea,
while night, the rain, pulls itself down through the trees.

domenica 4 giugno 2017

Una biografia del desiderio e della nostalgia

L'ombra del passato è formata da tutto quello che non è mai successo. Invisibile squaglia il presente come la pioggia col calcare. Una biografia del desiderio de della nostalgia. Ci guida come un campo magnetico, una forza che che torce lo spirito. È per questo che si resta turbati per un odore, una parola, un posto, per la fotografia di un anno montagna di scarpe. Per l'amore che chiude la bocca prima di gridare un nome.
Non ho assistito ai fatti salienti della mia vita. La parte più intima della mia storia deve essere raccontata da un cieco, un prigioniero del rumore. Da dietro un muro, da sotto terra. Dall'angolo di una casupola su un'isoletta che sporge come un osso dalla pelle del mare.

Anna Michaels 
In fuga
Traduzione di Roberto Serrai
Giunti 1998

giovedì 16 marzo 2017

Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.

Nell'inganno delle parole
I
È il sonno d’estate quest’anno ancora,
L’oro che chiediamo, dal fondo delle nostre voci,
Alla trasmutazione dei metalli del sogno.
Il grappolo delle montagne, delle cose vicine,
È maturato, è quasi il vino, la terra
È il seno nudo in cui la nostra vita riposa.
E respiri ci circondano, ci accolgono,
Come la notte d’estate, che non ha rive,
Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.
Amica mia, è qui nuovo cielo, nuova terra,
Un fumo incontra un fumo
Al di sopra della disgiunzione dei due bracci del fiume.
E l’usignolo canta una volta ancora
Prima che il nostro sogno ci prenda,
Ha cantato quando s’addormentava Ulisse
Nell’isola in cui faceva tappa la sua erranza,
E anche chi arrivava acconsentì al sogno,
Fu come un brivido della sua memoria
Per l’intero suo braccio d’esistenza sulla terra
Che aveva ripiegato sotto la sua testa stanca.
Penso che respirò d’un fiato eguale
Sul giaciglio del suo piacere poi del riposo,
Ma Venere nel cielo, la prima stella,
Volgeva già la prua, benché esitante,
Verso l’alto mare, sotto nubi,
Poi derivava, barca il cui vogatore
Avesse dimenticato, gli occhi ad altre luci,
D’immergere di nuovo il remo nella notte.
E per la grazia di quel sogno cosa vide?
Che fosse la linea bassa di una riva
Ove sarebbero state chiare delle ombre, chiara la loro notte
A causa di fuochi altri da quelli che ardono
Nelle nebbie delle nostre domande, successive
Durante la nostra avanzata nel sonno?
Siamo navi grevi di noi stessi,
Traboccanti di cose chiuse, guardiamo
Alla prua del nostro periplo tutta un’acqua nera
Aprirsi quasi e ritrarsi, per sempre senza lido.
Lui comunque, nelle pieghe del canto triste
Dell’usignolo dell’isola casuale,
Pensava già a riprendere il suo remo
Una sera, quando sarebbe sbiancata di nuovo la schiuma,
Per dimenticare forse tutte le isole
Su un mare in cui cresce una stella.
Andare così, con lo stesso oriente
Al di là delle immagini ciascuna delle quali
Ci lascia alla febbre del desiderare,
Andare fiduciosi, perderci, riconoscerci
Attraverso la bellezza dei ricordi
E la menzogna dei ricordi, attraverso il tormento
Di alcuni, ma anche la felicità
D’altri, il cui fuoco corre nel passato in cenere,
Nube rossa in piedi al frangente delle spiagge,
O delizia dei frutti che non abbiamo più,
Andare, per l’al di là quasi del linguaggio,
Con soltanto un po’ di luce, è possibile
O non è altro che l’illusorio ancora,
Di cui ridisegniamo sotto altri tratti
Ma iridati dello stesso ingannevole bagliore
La forma nelle ombre che si condensano?
Ovunque in noi soltanto l’umile menzogna
Delle parole che offrono più di quel che è
O dicono cosa altra da quel che è,
Le sere non tanto della bellezza che tarda
A lasciare una terra che ha amato,
Plasmandola con le sue mani di luce,
Quanto della massa d’acqua che di notte in notte
Precipita con gran fragore nel nostro avvenire.
Noi mettiamo i nostri piedi nudi nell'acqua del sogno
È tiepida, non sappiamo se sia un risveglio
O se la folgore lenta e calma del sonno
Già tracci i suoi segni in rami
Che un’inquietudine scuote, poi è troppo scuro
Perché vi si riconoscano figure
Che questi alberi scostano, davanti ai nostri passi.
Noi avanziamo, l’acqua sale alle nostre caviglie,
O sogno della notte, prendi quello del giorno
Nelle tue mani amorose, volgi verso te
La sua fronte, i suoi occhi, ottieni con dolcezza
Che il suo sguardo si fonda al tuo, più saggio,
Per un sapere che non laceri più
La disputa tra il mondo e la speranza,
E che unità prenda e conservi la vita
Nella quiete della schiuma, dove si riflette,
Sia bellezza, nuovamente, sia verità, le stesse
Stelle che s’accrescono nel sonno.
Bellezza, sufficiente bellezza, bellezza estrema
Delle stelle senza significato, senza movimento.
A poppa sta il nocchiero, più grande del mondo,
Più nero, ma di un’opacità fosforescente.
Il lieve sciacquio dell’acqua appena agitata,
Si fa presto silenzio. E non sappiamo ancora
Se è un nuovo lido, o lo stesso mondo
Che nelle pieghe febbrili del letto terrestre,
Questa sabbia che sentiamo stridere sotto la prua.
Non sappiamo se approdiamo a un’altra terra,
Non sappiamo se mani non si tendano
Dal grembo dell’ignoto accogliente per afferrare
La corda che lanciamo, dalla nostra notte.
E domani, al risveglio,
Forse le nostre vite saranno più fiduciose
In cui voci e ombre indugeranno,
Ma distolte, calme, disattente,
Senza guerra, senza rimprovero, mentre
Il bambino accanto a noi, sul sentiero,
Scuoterà ridendo la sua testa immensa,
Guardandoci con la goffaggine
Della mente che riprende alla sua origine
Il suo compito di luce nell’enigma.
Sa ancora ridere,
Ha afferrato nel cielo un grappolo troppo greve,
Lo vediamo portarlo via nella notte.
Il vendemmiatore, colui che forse coglie
Altri grappoli lassù nell’avvenire,
Lo guarda passare, benché senza volto.
Affidiamolo alla benevolenza della sera d’estate,
Addormentiamoci…
… La voce che ascolto si perde,
Il rumore di fondo che è nella notte la copre.
Le assi della prua, incurvate
Per dar forma alla mente sotto il peso
Dell’ignoto, dell’impensabile, si allentano.
Che mi dicono questi scricchiolii, che spezzano
I pensieri attestati dalla speranza?
Ma il sonno si fa indifferenza.
Le sue luci, le sue ombre: più nient’altro che
Un’onda che s’infrange sul desiderio.
II
E potrei
Fra poco, al sussulto del brusco risveglio,
Dire o tentare di dire il tumulto
Degli artigli e delle risa che si scontrano
Con l’avidità senza gioia delle vite primarie
Al bordo sconnesso della parola.
Potrei gridare che ovunque sulla terra
Ingiustizia e sciagura devastano il senso
Che la mente ha sognato di dare al mondo,
Insomma, ricordarmi di ciò che è,
Non essere che la lucidità che dispera
E, benché sia ritorta
Ai rami del giardino di Armida la chimera
Che inganna la ragione quanto il sogno,
Abbandonare le parole a chi cancella,
Prosa, per evidenza della materia,
L’offerta della bellezza nella verità,
Ma mi sembra anche che non sia reale
Che la voce che spera, fosse essa
Inconsapevole delle leggi che la negano.
Reale, solo, il fremito della mano che tocca
La promessa di un’altra, reali, sole,
Queste barriere che spingiamo nella penombra,
Quando si fa sera, di un sentiero di ritorno.
So tutto quello che occorre cancellare dal libro,
Una parola comunque resta a bruciarmi le labbra.
O poesia,
Non posso impedirmi di chiamarti
Con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
Oggi tra le rovine della parola.
Oso rivolgermi a te, direttamente,
Come nell’eloquenza delle epoche
In cui si ponevano, alla vigilia dei giorni di festa,
In cima alle colonne dei saloni,
Ghirlande di foglie e di frutti.
Lo faccio, confidando che la memoria,
Insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
Di far essere il senso malgrado l’enigma,
Farà decifrare loro, sulle sue grandi pagine,
Il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
In silenzio, un fuoco chiaro,
I sarmenti dei loro dubbi e delle loro paure.
«Guardate, lei dirà, nel solo libro
Che si scriva attraverso i secoli, vedete crescere
I segni nelle immagini. E le montagne
Inazzurrarsi in lontananza, per essere a voi terra.
Ascoltate la musica che delucida
Con il flauto sapiente alla vetta delle cose
Il suono del colore in ciò che è.»
O poesia,
Io so che ti disprezzano e ti negano,
Che ti considerano un teatro, perfino una menzogna,
Che ti gravano delle colpe del linguaggio,
Che dicono infetta l’acqua che tu porti
A quelli che tuttavia desiderano bere
E delusi si allontanano, verso la morte.
Ed è vero che la notte gonfia le parole,
Venti girano le loro pagine, fuochi sfiancano
Le loro bestie atterrite fin sotto ai nostri passi.
Abbiamo creduto che ci avrebbe condotto lontano
Il sentiero che si perde nell'evidenza,
No, le immagini cozzano contro l’acqua che sale,
La loro sintassi è incoerenza, cenere,
E presto nemmeno vi sono più immagini,
Più libro, più grande corpo caloroso del mondo
Che stringa le braccia del nostro desiderio.
Ma so comunque che non esiste altra stella
Che si muova, misteriosamente, auguralmente,
Nel cielo illusorio degli astri fissi,
Se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre
Si raggruppano a prua, e perfino cantano
Come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva
Davanti a loro, alla fine del lungo viaggio,
La terra nella schiuma, e brillava il faro.
E se rimane
Altro che un vento, uno scoglio, un mare,
Io so che tu sarai, anche di notte,
L'ancora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia,
E la legna raccolta, e la scintilla
Sotto i rami umidi, e, nell'inquieta
Attesa della fiamma che esita,
La prima parola dopo il lungo silenzio,
Il primo fuoco che prenda in fondo al mondo morto.


Yves Bonnefoy
Le assi curve
in L’opera poetica
traduzione di Fabio Scotto
I Meridiani 
Mondadori 2010