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martedì 25 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/443. Marina, intessuta di tempo e di stelle

 


 

Oggi Roxanne, la badessa del monastero di Colorno, mi ha annunciato l’arrivo di Marina Cvetaeva, gigantesca poetessa del secolo scorso, incandescente come lava e perduta come la nebbia dell’alba dopo che il sole è risorto.

Come tutte e tutti gli altri poeti e poetesse, scrittori e scrittrici che arrivano ai piedi delle Montagne della Nebbia per la prima volta, gli abitanti della Casa delle Parole, che non abbiamo più incontrato da diversi mesi, si mobilitano per dare il benvenuto a quest’anima tormentata e sfortunata, intessuta di tempo e di stelle.

Sono rituali semplici, aprire una bottiglia di vino, ravvivare il fuoco nel camino, leggere i versi e frammenti di diario e lettere dell’ospite ad alta voce, ad alta voce sognare in questa dimensione dove il tempo non esiste e la poesia è la tessitura comune di chi vaga in questa terra cercando di disegnare mappe plausibili nel silenzio del cuore, quello che Rilke le stava, in qualche modo scrivendo:

 

“Ho aperto l’atlante (per me la geografia non è una scienza, ma un insieme di rapporti di cui mi affretto ad approfittare) ed ecco, tu sei già segnata nella mia mappa interiore: da qualche parte fra Mosca e Toledo, ho creato uno spazio per l’impeto del tuo oceano.”

 

 

Dopo questo frammento di lettera, ecco un frammento dal diario:

 

“Alle 10 la giornata è finita. Talvolta sego e taglio legna per il giorno dopo. Alle 11 o alle 12 vado a letto. Sono felice del lumino proprio accanto al guanciale, del silenzio, del quaderno, della sigaretta, talvolta - del pane.
Scrivo malamente, in fretta. Non ho annotato né le ascensions in soffitta - niente scala (l'hanno bruciata) - mi isso con una corda - per prendere le travi, né le continue ustioni delle braci che (impazienza? esasperazione?) afferro direttamente con le mani, né le corse su e giù per i kommissionnye (che abbiano venduto tutte le mie cose?) e per le cooperative (che distribuiscano?).
Non ho annotato la cosa più importante: l'allegria, l'acutezza di pensiero, le esplosioni di gioia ad ogni più piccolo colpo di fortuna, l'appassionata tensione di tutto l'essere - tutti i muri sono coperti di versi e di NB! per il taccuino.

In soffitta

(Dagli appunti moscoviti, 1919-1920)



E infine una delle poesie che più amo:

 

 

Io sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
lo crescerò e lo ridarò centuplicato.

Io sono la campagna, la terra nera.

Tu per me sei il raggio e l'umida pioggia.
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
sono terra nera e carta bianca.

10 luglio 1918



 

  

Ci sono giorni come questo, martedì 25 maggio del secondo anno senza Carnevale, dove le mie parole stanno un passo indietro e felice come un’onda rileggo Marina Cvetaeva, poi la bellissima voce, che vi invito a leggere, che la mia amica Rossana Kaminskij ha scritto per l’Enciclopedia delle Donne; e infine ringrazio Ilaria Durigon della Libreria delle Donne di Padova e Claudia Brigato per l’incontro dedicato proprio alla Cvetaeva e che mi ha fatto venire voglia di rileggerla e di parlarne in questa Cronaca 443. E di nuovo grazie a Rossana che ci ha letto in russo prima e in italiano poi, due poesie della Cvetaeva, tra cui una dedicata all’altra poetessa Anna Achmatova.

 

Questi sono i testi da cui ho tratto le citazioni:

Poesie, a cura e traduzione di Pietro Zveteremich, Feltrinelli 1979.

Indizi terrestri. Diario moscovita 1917-1919, a cura di Serena Vitale, Guanda 1980.

E infine l’epistolario a tre: Rainer Maria Rilke - Marina Cvetaeva - Boris Pasternak

Il settimo sogno. Lettere 1926. Editori Riuniti 1980, edizione italiana a cura di Serena Vitale.

venerdì 24 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/47: il settimo sogno, tre poeti (almeno) e due lupi


È marzo, un marzo ancora invernale, il passo della primavera non ha ancora preso il sopravvento sulle ultime battaglie del generale inverno.
Rainer, il primo poeta non godeva di una grande salute, già da qualche anno viveva nel Canton du Valais, in Svizzera, in un paesaggio che ricordava i paesaggi della Spagna e della Provenza, in un piccolo castello del tredicesimo secolo nei pressi di Sierre, in completa solitudine, occupato solo dal suo lavoro e dalle rose del suo giardino. Di tanto in tanto, quando l’eccessiva solitudine minacciava di travolgere le sue forze vitali e diventava pericolosa, partiva per Parigi o per l’Italia.

Anche l’altro uomo era un poeta, figlio di pittore: Boris figlio di Leonid, stava attraversando una fase di grande crisi creativa dominata dall'ansia e dall'insoddisfazione per la vita moscovita. Una lettera di Rainer a Leonid dove gli fa i complimenti per i versi di Boris tradotti in francese da Paul Valéry, rassicura padre e figlio che Rainer, benché seriamente ammalato è ancora in vita. Per un caso del destino nello stesso periodo gli accadde di leggere il Poema della fine di Marina Cvetaeva, considerato uno dei vertici della poetessa, questi versi gli confermarono che nel mondo esisteva un’altra artista la cui ricerca era consonante alla sua ricerca, che esisteva ancora in concreto la possibilità di una feconda esistenza creativa.

Alcuni anni più tardi, dopo la morte sia di Rainer che di Marina, Boris scrisse alla figlia di lei Ariadna: “Per alcuni anni tutto ciò che scriveva vostra madre, la limpida ed esaltante risonanza della sua prorompente spiritualità, mi ha tenuto in uno stato di ininterrotta, beata euforia”.

Già alla fine di quel mese Boris ha inviato numerose lettere a Marina, forte di quella coincidenza, la lettera di Rilke, il poema di lei, che egli vedeva come un dono del destino, ed è proprio ragionando di destino che lui le scrive una prima appassionata lettera.

“Finalmente sono con te. Siccome mi è tutto chiaro, e io credo nel destino, potrei anche tacere, lasciando fare tutto a lui, così vertiginosamente immeritato, così devoto. Ma proprio in questo pensiero c’è tanto sentimento nei tuoi confronti, se non tutto il sentimento, che esso non può esprimere. Sei così meravigliosa, così sorella, così sorella mia la vita, mi sei stata mandata direttamente dal cielo, coincidi con il limite estremo della mia anima. Sei mia e sei sempre stata mia, e tutta la mia vita è per te… Sto seduto e leggo come se tu mi vedessi, e ti amo e voglio che anche tu mi ami… che grande artista sei, che artista diabolicamente grande Marina!”.

Come in una sinfonia, dove gli strumenti entrano uno alla volta, ecco che questa tessitura di parole e poesia inizia a delinearsi. Il direttore d’orchestra è già Boris anche se ancora non lo sa. La loro corrispondenza è già iniziata da qualche tempo negli anni 1923-1924 ma fino all'inserzione di Rilke nelle loro vite, l’intensità di Boris non esplode.

“Ed ecco che all'improvviso ci sei tu, non creata da me, ma suggerita in me fin dalla nascita di ogni brivido – in modo esagerato, cioè in tutta la statura del corpo. Che tu sei terribilmente mia e non sei stata creata da me – ecco il nome del mio sentimento”.
Nella lettera del 27 marzo così prosegue Boris:

“Tu sei oggettiva, e soprattutto hai talento – sei geniale… Un giorno te lo diranno o forse no. Ma è lo stesso: non una problematica tassa negativa, ma la positiva arcanicità della parola è sospesa sopra di te come un tetto d’aria dal cui modello, un anno dopo l’altro, tu vai deducendo la fisica della tua poesia. Importante è quello che fai. Importante è che tu costruisci il mondo, che si sposa con il mistero della genialità. Nei tuoi giorni, tu viva, questo tetto si scioglie e confonde con il cielo, nel vivo azzurro che sovrasta la città in cui tu vivi o quella che tu immagini scrivendo la tua fisica. In altri tempi su questo involucro camminerà la gente, esso sarà il suolo di altre epoche”.

Siamo solo all'inizio di un anno straordinario che vedrà lo scambio epistolare infittirsi e poi perdere uno dei raggi di questa stella, perché alla fine del 1926 Rilke morirà.

Cosa possono dire a noi contemporanei, noi che siamo quelli che camminiamo sul suolo di altre epoche queste parole?

Forse, prima di tutto, che per risuonare uno nell'anima dell’altro non abbiamo bisogno di avere incontrato la persona cui dedichiamo i nostri pensieri e i nostri scritti, la persona le cui parole ci fanno vibrare come aria felice. O forse basterebbe averla incontrata anche poche volte nella vita che poi, per i più diversi motivi, ci ha separati.

Ma in quest’anno senza Carnevale è proprio la dimensione della distanza e dell’immaginazione che voglio esplorare.

Per chi sto scrivendo? Per chi voi state leggendo?

Anche la lettura, come la scrittura, porta in sé uno o più destinatari, con cui saremo felici di condividere le nostre scoperte, le emozioni, le riflessioni, lo sguardo del poeta, il ritmo della poetessa.

Poesia è anche tessere in lontananza gli stessi versi, leggersi a bassa voce, leggersi anche solo nella mente.

Un legame è nato, un legame più forte anche di un incontro fisico come primo passo di una reciproca conoscenza, un legame è nato perché esisteva già nel tempo e nei secoli, un incontro fra due anime, due cuori, due spiriti.
Gli eventi della vita possono spezzare un dialogo fitto che già tesseva senso e bellezza, possono impedire la fisicità di un incontro che può dare volto e voce all'altro che ci ascolta, ma questa non è la dimensione più importante.
Ricordate i versi di Pedro Salinas “Non ho bisogno di tempo / per sapere come sei: /conoscersi è luce improvvisa”?

Rilke, Pasternak e Cvetaeva dal loro anno inciso nel flusso del tempo ci stanno dicendo proprio questo.
Marina, con la drammatica vitalità della sua poesia aveva già scritto il 10 luglio 1918 dei versi che in qualche modo profetizzavano l’incontro con gli altri due poeti.


Io sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
lo crescerò e lo ridarò centuplicato.

Io sono la campagna, la terra nera.
Tu per me sei il raggio e l'umida pioggia.
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
sono terra nera e carta bianca.


Leggo ad alta voce questa poesia, lo faccio sempre anche con le mie, so che quando provo stupore e mi chiedo chi abbia scritto quei versi, di avere scritto qualcosa di buono e di bello.

I versi di Marina mi colpiscono con la stessa forza della prima lettura che risale a diversi decenni fa. Sono anch'io intessuta di tempo e di stelle.
Lo dico ai lupi che se ne stanno accucciati accanto al camino immaginario della mia brughiera.

Loro alzano la testa, fiutano l’aria, pare che sorridano e io sento le voci, le loro voci che mi sussurrano “Continua, continua per chi sta nel tuo mondo reale e anche per chi come noi, solo nel tuo mondo immaginario”.
Non siamo mai soli, anche se a volte crediamo di esserlo, la poesia è la nostra estrema consolazione, un dono che attraversa e varca il tempo e lo spazio, che spalanca i cancelli dell’Eternità.

Dalla mia riva io continuo a guardare e scrivo nella luce calante queste nuove parole.

I tre poeti torneranno, la loro storia si dipanerà, lo sanno anche i lupi che già la conoscono, lo so anch'io che mi accingo a scrivere il seguito di questa Cronaca, per un altro giorno non ancora vissuto, per un altro giorno già desiderato.


*I libri che hanno accompagnato questa Cronaca sono le  Poesie di Marina Cvetaeva, tradotte da Pietro Zveteremich per Feltrinelli nel 1979; Il settimo sogno. Lettere 1926 di Cvetaeva, Pasternak e Rilke. A cura di Serena Vitale, Editori Riuniti 1980

mercoledì 1 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/24: quando l’oceano diventa mare


Le spiagge piatte dell’Adriatico marchigiano con il Monte Conero in alto verso nord, le spiagge pugliesi di dune di sabbia, vongole e piccoli pesci vicino a riva e poi gli scogli della costiera giù fino al tacco d’Italia, le morbide spiagge della Calabria Ionica e quelle, un tempo più selvagge, di quella tirrenica. La bellezza mozzafiato degli scogli siciliani di Aci Trezza e Aci Castello, la sabbia dorata di Cefalù. La costiera amalfitana e quella laziale. La Toscana e l’adorata Liguria da Levante a Ponente. Compilando l’ennesima lista tra i miei luoghi preferiti ci sono sempre località marine con relative spiagge. Dal Ponente ligure sono scesa fino alla Costa Azzurra e giù per il Golfo del Leone fino a Colliure e su per i Pirenei e i Paesi Baschi francesi, Biarritz e Bayonne, Saint-Jean de Lutz. E a salire la magnifica Dune de Pylat in Gironda, che è la più alta duna d’Europa. E le partenze in traghetto per Irlanda e Gran Bretagna e con una capriola tornare nell’alto Adriatico a Trieste e poi in Croazia nell’isola di Lussino. Le isole greche, Kastell Orizo e Folegandros e Paros; e le isole minori italiane Eolie ed Egadi; Lampedusa e Pantelleria. E di un nuovo un salto verso l’atlantico bretone con le isole di Ouessant e Belle-Île… (continua)

L’arcipelago della mia memoria è costellato da isole e spiagge, estuari e delta dei fiumi, laghi e torrenti. Mi piacerebbe riuscire a scrivere dei micro-racconti per ognuno di questi luoghi.

Vorrei scrivere del perché il mare non è l’oceano, perché oceanico è un aggettivo che ci sovrasta e travolge, che evoca l’infinito e le profondità, mentre marino riporta alla mente una piacevole brezza e porti sicuri. Il Mar Mediterraneo è per me un universo raccolto e compiuto, pieno di vita e di speranza, così come di mistero e naufragi.

Per questa sera mi congedo con un frammento di lettera che Rilke scrisse alla poetessa russa Marina Cvetaeva, dove l’oceano è metaforico, perché un sentimento oceanico è qualcosa che tutti abbiamo conosciuto.

Ho aperto l’atlante (per me la geografia non è una scienza, ma un insieme di rapporti di cui mi affretto ad approfittare) ed ecco, tu sei già segnata nella mia mappa interiore: da qualche parte fra Mosca e Toledo, ho creato uno spazio per l’impeto del tuo oceano.”

Tratta dall’epistolario a tre
Rainer Maria Rilke - Marina Cvetaeva - Boris Pasternak
Il settimo sogno. Lettere 1926
Editori Riuniti 1980
edizione italiana a cura di Serena Vitale

mercoledì 18 gennaio 2017

La notte si appressa come un monte di pietre

   C'è una notte che si avvicina in un paradosso: come un monte (immobile) di pietre (ancora più immobili). La notte si "appressa come un monte di pietre", scrive Marina Cvetaeva nell'Accampamento dei cigni. Si appressa con il monte, con le pietre, nonostante il monte, nonostante le pietre e in fretta, come si murava la finestra dell'appestato diventa notte totale, pietra che né il sonno, né la veglia scalfiscono, ma che rimane, appressandosi a ogni crepuscolo, finché chiamiamo vita questo restare.
   Ora dimmi tu la notte. Vorrei chiederlo anch'io e attraversare ormai la notte che resta fissando il buio dell'ispirazione, l'ombra dei libri accatastati che mi raggiunge, mi minaccia e mi protegge.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

martedì 19 gennaio 2016

è con questi che sto scrivendo

I miei furti al Commissariato: due magnifici notes a quadretti (gialli, laccati), un'intera scatola di penne, una boccetta di inchiostro rosso inglese.
E' con questi che sto scrivendo.

Marina Cvetaeva
Indizi terrestri
Diario moscovita 
1917-1919
a cura di Serena Vitale
Guanda 1980

lunedì 11 gennaio 2016

Marina Cvetaeva: scrivere da sé i libri mecessari

Bisogna scrivere soltanto i libri la cui mancanza ti fa soffrire.
In breve: i propri libri da capezzale.

Marina Cvetaeva
Indizi terrestri
Diario moscovita 
1917-1919
a cura di Serena Vitale
Guanda 1980

lunedì 7 dicembre 2015

tutti i muri sono coperti di versi

Alle 10 la giornata è finita. Talvolta sego e taglio legna per il giorno dopo. Alle 11 o alle 12 vado a letto. Sono felice del lumino proprio accanto al guanciale, del silenzio, del quaderno, della sigaretta, talvolta - del pane.
Scrivo malamente, in fretta. Non ho annotato né le ascensions in soffitta - niente scala (l'hanno bruciata) - mi isso con una corda - per prendere le travi, né le continue ustioni delle braci che (impazienza? esasperazione?) afferro direttamente con le mani, né le corse su e giù per i kommissionnye (che abbiano venduto tutte le mie cose?) e per le cooperative (che distribuiscano?).
Non ho annotato la cosa più importante: l'allegria, l'acutezza di pensiero, le esplosioni di gioia ad ogni più piccolo colpo di fortuna, l'appassionata tensione di tutto l'essere - tutti i muri sono coperti di versi e di NB! per il taccuino.
In soffitta
(Dagli appunti moscoviti, 1919-1920)


Marina Cvetaeva
Indizi terrestri
Diario moscovita 
1917-1919
a cura di Serena Vitale
Guanda 1980

lunedì 23 novembre 2015

era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere

Appoggiava la fronte su una mano cacciando le dita tra i capelli e si concentrava all’istante. Diventava cieca e sorda a tutto ciò che non fosse il manoscritto, in cui letteralmente si conficcava con la punta della penna e l’acume del pensiero”. Ogni tanto si accendeva una sigaretta e beveva un sorso di caffè. Parlottava per sentire come suonavano le parole, restava seduta al tavolo, come inchiodata, qualunque cosa accadesse intorno a lei, e ricopiava i manoscritti da mandare in tipografia in stampatello. “Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta – un manoscritto”, scrive nella seconda raccolta di lettere pubblicata da Adelphi, Deserti luoghi.

Cvetaeva era tutta un manoscritto, parole, anima, alberi di betulla, poesie, lettere, e il resto dell’esistenza, la vita dei giorni, le sfuggiva di mano, la faceva sentire “una miserabile, piccola sartina che non farà mai niente di bello, che sa solamente far guasti e ferirsi e che, lasciando là tutto: forbici, pezze, rocchetti – si mette a cantare. Davanti a una finestra dove piove per sempre”. Così, mentre gli altri stanno in vacanza, si divertono, si riposano dopo un lavoro che forse non amano, o non amano abbastanza, o comunque non amano più della vita stessa, Marina soffre: “La mia vacanza è proprio il mio lavoro. Quando non scrivo sono semplicemente infelice, e nessun mare può darmi sollievo”.


Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

domenica 22 novembre 2015

L'impossibilità di non scrivere: Marina Cvetaeva e la poesia

La vita di una donna che per prima cosa ogni mattina, mettendo da parte tutte le faccende e le urgenze, a mente fresca, e pancia vuota, scrive. “Si versava una tazzina di caffè bollente e la posava sullo scrittoio, al quale andava ogni giorno della sua vita, come un operaio alla macchina: con lo stesso senso di responsabilità, ineluttabilità, impossibilità di fare altrimenti”.

L’impossibilità di non scrivere ha segnato la vita di Marina Cvetaeva, nella povertà, nell’esilio, nella mancata pubblicazione dei versi, durante la Rivoluzione, durante la morte della sua figlia più piccola, nella sparizione degli amici, degli amori, e nella solitudine più dolorosa. Anche nella giovinezza allegra, quando le serviva molto poco per essere felice: “A Dio io chiedo / una stanza – qualunque – / un buco – da sola! – / un posto – per me! – / quattro pareti per / il silenzio”.

(...)

Marina Cvetaeva, che aveva pubblicato la prima raccolta di poesie a diciott’anni, scriveva come gli altri respirano, per restare viva. “Perché scrivo? Scrivo perché non posso non scrivere. Alla domanda sullo scopo – risposta sulla causa. E non può essercene altra”. Osservare e descrivere, cercare la verità, contemplare, scolpire. Per fare questo aveva un bisogno carnale delle parole degli altri (“trovate parole che mi incantino, credo soltanto agli incantesimi”), si innamorava di tutti, tendeva le braccia, inondava le persone e chiedeva loro di inondarla. Cercava interlocutori alla sua altezza, persone che sapessero ascoltare, cercava un’eco alle sue parole, un’anima gemella vivente, o più di una, aveva bisogno di versi e di scintille, ma le persone si stancavano in fretta della fatica a cui lei costringeva la loro mente e tutti i muscoli dell’anima, e si ritraevano spaventate, stordite.

Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

venerdì 20 novembre 2015

Essere poeta significa incendiarsi per un verso, per l'albero al bordo della strada

Da bambina lesse di nascosto dai grandi Eugenio Onegin, il poema di Aleksandr Puškin  (Tatiana e Onegin non si amarono mai, pur amandosi sempre: all’inizio lui respinge Tatiana, alla fine Tatiana respinge Onegin): in un saggio su Puškin , nel 1937, Marina Cvetaeva scrisse che quell'amore non riuscito “predeterminò in me tutta la passione per l’amore infelice, non reciproco, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice e con questo mi sono condannata – al nonamore”.

Il nonamore ha vissuto dentro molti amori, il nonamore cresceva perché l’amore era incompatibile con la vera ossessione della vita: la scrittura. La scrittura ha guidato ogni gesto di Marina Cvetaeva, e la irritavano le parole imprecise, le domande stupide, i pensieri meschini, la vita priva di poesia (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”). Marina si irritava anche per l’amore eccessivo, cieco, ottuso: in una lettera a un amico, prima della Rivoluzione, racconta la sua formula dell’amore, anche se è forse ancora piena dell’invincibilità della giovinezza. L’amore per lei era prima di tutto comprensione, riconoscimento, condividere una passione: “Voglio leggerezza, libertà, comprensione – non trattenere nessuno e che nessuno mi trattenga” (per questo amò Boris Pasternak, amò Rainer Maria Rilke – “E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”, “Posso baciarti?”, “Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno” – e amò i poeti e le poetesse e chi si incendiava come lei per un verso, per l’albero al bordo della strada).

Un bellissimo ritratto di Marina Cvetaeva scritto da Annalena Benini
tratto dal blog minimaemoralia

giovedì 10 settembre 2015

I poeti a San Pietroburgo

C'era una volta a Pietroburgo


Lënja. Esenin. Amici indivisibili, indissolubili. Sul loro volto, sui loro volti 
così sbalorditivamente diversi si sono ricongiunte, sono riconfluite 
due razze, due classi, due mondi. Si sono ricongiunti — attraverso tutto e tutti — i poeti. Lënja si recava da Esenin in campagna, Esenin a Pietroburgo non si
staccava mai da Lënja. Così rivedo le loro due teste unite — al buffet — in
un bell'abbraccio intimo che aveva trasformato quel tavolino in un banco di
scuola… (Immagino di girargli lentamente attorno: la superficie nera della
testa di Lënja, quella bizzarra con i ricci folti di Esenin, i fiordalisi di Esenin,
le mandorle marroni di Lënja). È bello quando c'è un tale contrasto — e una
tale armonia.
Che soddisfazione, come per una rima rara e perfetta. 
[...] *** Me ne sto seduta in questa sala gialla e deserta — forse per i cammelli di Serëza — e leggo le mie poesie, anzi non leggo — dico a memoria. Ho cominciato a leggerle sul quaderno solo quando ho smesso di ricordarle a memoria, e ho smesso di ricordarle quando ho smesso di dirle, e ho smesso di dirle quando hanno smesso di chiederle, e hanno smesso di chiederle nel 1922
— anno della mia partenza dalla Russia. Da un mondo dove le mie poesie
erano necessarie a qualcuno come il pane, sono precipitata in un mondo
dove le mie poesie non servono a nessuno, né le mie poesie né le poesie in
generale, servono da dessert: se il dessert serve a qualcuno… [...] A dirla
tutta: i versi su Mosca che hanno seguito il mio arrivo a Pietroburgo li devo
ad Achmatova, al mio amore per lei, alla mia speranza di regalarle
qualcosa di più eterno dell'amore, ciò che è più eterno dell'amore. Se
avessi potuto regalarle semplicemente il Cremlino, probabilmente non avrei
scritto questi versi. In un certo senso ero in competizione con Achmatova,
ma non del tipo "farò meglio di lei", bensì — non posso fare meglio e
questo non posso fare meglio — porlo ai suoi piedi. Competizione?
Devozione. So che Achmatova, dopo, nel 1916-17, non si staccava più
dalle mie poesie manoscritte e che le ha portate così tanto tempo nella
borsetta che si sono tutte spiegazzate e consumate. Lo ha raccontato Osip
Mandel'stam — una delle più grandi gioie della mia vita.
Continuano a leggere gli altri. Esenin legge Le chiavi di Maria , accettato da
"Letopis'" di Gor'kij, ma proibito dalla censura. 
[...] Osip Mandel'stam, socchiusi gli occhi da cammello, vaticina: Andremo a Caarskoe Seelo liberi, felici, ubriachi, lì sorridono gli ulani, balzando sulla sella dura. […].
Leggono Lënja, Ivanov, Ocup, Ivnev, e, mi sembra, Gorodeckij. Molti altri li
ho dimenticati. Ma so che leggeva tutta Pietroburgo, a parte Achmatova
che si trovava in Crimea e Gumilëv — sul fronte.
Leggeva tutta Pietroburgo e una sola Mosca.
… E la bufera imperversa incessantemente fuori le enormi finestre. E il
tempo vola.

Marina Cvetaeva
Serata non terrestre 
a cura di Marilena Rea
Passigli 2015

anticipato su Repubblica del 31 luglio 2015

domenica 2 marzo 2014

Poesia, un eterno mancarsi

Su Marina Cvetaeva ripubblico la bellissima voce dell'Enciclopedia delle donne scritta da Rossana Kaminskij, amica straordinaria, traduttrice raffinata e scrittrice spero presto pubblicata.

«Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi». In Crimea, sulle rive del Mar Nero, a Koktebel’ Marina s’innamora di Sergej Efron. Lei ha 19 anni, lui 18. Sergej trova sulla spiaggia una corniola che Marina tanto desiderava. Marina vede il segno del destino. Si sposano. Era già stato pubblicato il primo libro di poesie di Marina, Album serale. Marina Ivanovna Cvetaeva nasce a Mosca il 26 settembre 1892. Il padre, Ivan Vladimirovič Cvetaev, figlio di un povero pope di campagna, non ebbe un paio di scarpe proprie fino ai tredici anni; ma sarebbe diventato filologo e professore di storia dell’arte all’università di Mosca, e fondatore del Museo Puškin. La madre, Marija Alexandrovna Mejn, fu obbligata dalla propria famiglia a rinunciare all’amore per un uomo già sposato e alla carriera di pianista, pur essendo stata allieva di Rubinstein. Fu la seconda moglie del professor Cvetaev. 
La prima moglie Varvara Dmitrievna Ilovaiskij, aveva dato alla luce Valerija e Andrej; morì prematuramente ed era un’amica di Marija. 
Marija avrebbe voluto figli maschi: ne aveva già scelto i nomi. Dopo Marina, nacque Anastasija. Sperò almeno che diventassero musiciste. L’ambiente familiare è ricco di sollecitazioni coltissime. Marina studia musica; scrive le prime poesie in russo a sei anni; si fa incantare dalle passioni letterarie della madre, Puškin e i grandi classici tedeschi e francesi. Cresce a Mosca, al n. 8 del Trёchprudnyj Pereulok, il vicolo dei Tre Stagni. La casa moscovita, assieme alla residenza estiva in campagna a Tarusa, resteranno decisivi, per la Marina adulta e in esilio, in ricordo dell’infanzia e di tutto ciò che viene perduto in modo irrimediabile. La madre si ammala di tubercolosi. In cerca di un clima più mite, la famiglia viaggia - soggiornando anche in Italia, a Nervi. Marina e Anastasija frequenteranno collegi in Svizzera e in Germania, perfezionando il francese e il tedesco. 
Marija muore nel 1906 rimpiangendo la musica, il sole, e di non poter vedere adulte le figlie, che saranno viste crescere da « cretini qualsiasi». La sua fame di vita e la sua rivolta diventeranno, in Marina, vocazione: « Dopo una madre così non mi restava che divenire poeta». A 16 anni, da sola, segue i corsi di letteratura francese antica alla Sorbona di Parigi. Iscritta al ginnasio a Mosca non riuscirà a concludere studi regolari a causa del suo carattere indocile. L’anticonformismo si unisce al devoto amore per il marito, che seguirà sempre « come un cagnolino», e che non le impedirà di avere altre relazioni, fra cui Osip Mandel’stam, la poetessa Sofija Parnok e l’attrice Sonja Halliday. Sergej comprende e soffre il dinamismo della passione creatrice della moglie: Marina “inventa” le persone, le investe con l’uragano della propria passione, per poi scoprirne l’umana mediocrità; ne consegue la disillusione, derisa in modo crudele, incarnata in una formula razionale che genera, ogni volta, un libro, un progetto di scrittura. Questo meccanismo ha un bisogno di alimentarsi per vivere e per creare, « come una grandissima stufa che per funzionare ha bisogno di legna, legna, legna» ; ma mai pensa di lasciare Sergej. Il destino di Marina è nella fedeltà ai propri sentimenti e soprattutto alla poesia. 
Per l’Armata Bianca, alla quale si era unito Sergej dopo la Rivoluzione, Marina osa leggere in pubblico, alcune poesie scritte da lei, senza la parola amore né il pronome tu. Non viene denunciata per il tema scelto: doveva ancora arrivare il grande terrore staliniano. Resta bloccata a Mosca in condizioni disumane, descritte nella prosa Indizi Terrestri, senza notizie di Sergej, sola con le due figlie: Ariadna (Alja) e Irina,ma non riesce a mantenere entrambe e Irina viene affidata ad un orfanotrofio dove muore per fame.
Il sentimento per Marina richiede forza. La sua poesia arriva al grido, raggiunge l’oratoria poetica. Nelle prime raccolte di poesia prevalevano il quotidiano, la famiglia e la maternità, o l’odore della nursery – come scrissero i più critici; nel tempo la poesia si fortifica in una potente energia espressiva in cui tutte le possibilità del linguaggio sono utilizzate: ritmo, assonanze, rime, il particolare utilizzo della negazione, giochi fonetici in poesie che andrebbero lette ad alta voce. 
Ogni genere e argomento entra nella sua produzione: poesia e nel dramma storico (Sten’ka Razin), favola (Il Pifferaio di Hamelin ovvero l’Accalappiatopi), e leggende popolari (Lo Zar-fanciulla), storie bibliche, classiche (Ariadna e Fedra). E prosa critica, L’Arte alla luce della coscienza e Il Poeta e il Tempo
Scrisse che si potevano ricavare da lei sette poeti, senza tralasciare i prosatori... La poesia di Marina non è romantica – nonostante circolino di lei oggi sillogi più facili e canzoni - , è analogica, razionale e intellettuale. È impegnativa: la sua lettura è un atto di con-creazione, un’esperienza conoscitiva. Bisogna arrivare all'essenza della cosa o della persona, non descrivere visivamente, piuttosto dare dall'interno: se si trattasse di un albero, restituirne il midollo. 
« Io mi sono sempre fatta in pezzi, e tutti i miei versi sono, letteralmente, frammenti argentei di cuore.» In questa smisuratezza, tanti critici hanno prediletto un approccio istintivo e passionale piuttosto che analitico e conoscitivo.
Alja e Marina raggiungono Sergej, che sanno finalmente vivo, all'estero, nel 1922. 
Nasce a Praga Georgj, detto Mur: capriccioso, maleducato, insopportabile, viziato dalla madre. Alja si legherà sempre di più al padre. A Berlino, Praga e Parigi vi sono case editrici russe. L’ambiente dell’emigrazione è vivace. Marina pubblica interi cicli di poesia, anche se per motivi economici prevale la prosa. Scrive molto di più di quanto riesca a pubblicare e legge anche in serate letterarie. A Parigi frequenta il famoso salotto di Natalie Clifford Barney. Conosce la pittrice Natal’ja Gončarova, nasce una collaborazione, ma l’amicizia non regge nel tempo: « non ho lasciato in lei un segno abbastanza profondo, non le sono diventata necessaria. Sentiero subito invaso dall'erba» .
Marina non frequenta solo i salotti. Spazza, cucina, si procura soldi, cibo, legna e carbone: « e poi un uomo non può fare lavori femminili, è bruttissimo da vedere (per le donne)» . Marina vive pesantemente il byt, il quotidiano, fino in fondo, senza delegare alcuno, ma nella sua poesia emerge possente il Byt’e, l’Esistenza, la forza che non sottostà ad alcuna legge. Sergej, quasi sempre a carico della moglie, ne è consapevole: Marina è poeta che pur passando la maggior parte del tempo in cucina, non ha perso né il talento né la capacità di lavorare. Ostinata, fedele alla poesia, scrive appena può. Si reca al mare per un breve soggiorno: non il mare, ma nel poter scrivere è la sua vacanza. Nel 1928 esce l’ultimo libro di poesie che vedrà pubblicato, Dopo la Russia. Molte case editrici dell’emigrazione russa chiudono per mancanza di fondi. Le condizioni economiche peggiorano. Marina viene poco a poco emarginata, per la sua intransigenza e anche perché non si dichiara antisovietica; senza soldi non può muoversi da casa; vive una grande solitudine. Da questo isolamento nasce la corrispondenza straordinaria con Boris Pasternak e con Rainer Maria Rilke: i loro rapporti si muovono in un ambito parallelo, spostato. I tre poeti non s’incontreranno mai, per un eterno mancarsi. L’assenza diventa un vantaggio perché l’altro, amato, interiorizzato, diventa più intero nell'anima.
Marina è un’eterna straniera, non solo perché vive fuori dalla Russia per molti anni, senza riconoscere alcun paese come patria: è un’estranea al proprio tempo, condannata a guardarlo dall’esterno. Quando rientra in Russia è conosciuta solo per le sue prime raccolte poetiche e sarà riscoperta a partire dal 1956; all’estero non verrà più letta da una emigrazione russa sempre più ostile. 
Nel 1937 Alja decide di rimpatriare, così poco dopo anche Sergej, ora filosovietico e implicato in un assassinio politico. Marina è convinta della sua innocenza. L’ostracismo della colonia russa raggiunge l’apice. Rimpatriare? In una lettera chiede ironicamente a un’amica di procurarle un consulto da un’indovina, tanto soffre l’indecisione. 
Nessuno la informa di quello che stava accadendo in Russia, nessuno la ferma. Come se presentisse la sciagura: la partenza le appare sotto una nube nera. Nel giugno 1939 parte per l’Unione Sovietica con Mur. Trova tutte le porte chiuse, ed è stupita e furiosa. Come si permette la città di Mosca a darsi così tante arie? La sua famiglia l’aveva colmata di doni, su tutti il Museo Puškin. La famiglia resta riunita per pochi mesi. Nell’agosto del 1939 Alja è arrestata e condannata, prima alla prigione, poi al confino. In ottobre tocca anche a Sergej: sarà fucilato due anni dopo. Nel 1941 Marina incontra Anna Achmatova. Le due donne, pur stimandosi, sono troppo diverse, solo unite dal dolore per la sorte dei propri cari.
In agosto Marina e suo figlio sono evacuati a Elabuga, in Tataria. Nella più profonda indigenza. Marina chiede di lavorare come lavapiatti nella mensa dell’Associazione degli Scrittori. Non ottiene il posto. La scrittrice Lidija Čukovskaja: « Se si mette la Cvetaeva a lavare i piatti, perché non far lavare i pavimenti ad Anna Achmatova e assumere come fuochista Blok, se fosse ancora vivo? Allora sì che sarebbe una vera mensa per scrittori» .
Marina si impicca il 31 agosto 1941. Avrebbe desiderato giacere a Tarusa, sotto un cespuglio di sambuco, « dove crescono le fragole più rosse e più grosse», ma viene sepolta in una fossa comune.

Ogni mio verso è l'ultima cosa che so su me stessa

La sua poesia – orgogliosa e arrogante – è tutto un accavallarsi di invocazioni al lettore (come poi le sue lettere), mentre sul tessuto intimistico di quelle confessioni poetiche si aprono squarci dove, come nelle dissolvenze del cinema, si stagliano Amleto, Ofelia, Re David e Saul morente, Elena, Arianna, ma anche Marina Mniszek, figura quasi da leggenda, che nella Russia dei Torbidi aveva sposato il falso Dmitrij (o meglio: due falsi Dmitrij in successione), condividendone il destino di morte («non l'amica essere, ma la complice! Gemello – sosia – slanciato fratello di sangue, fiamma di rogo, la sua scimitarra ricurva»). Calamita troppo forte per resistervi, per una poetessa come lei («digrignante eretica, sorella del Savonarola») sempre propensa al gioco dell'identificazione sprezzante.
(...)
«Caparbia, indocile, sempre sovreccitata, sempre immersa nel folto del cataclisma» (A. M. Ripellino), lei non stava certo lì a cercare una qualche rappacificazione. 
(...)
I taccuini ci raccontano, col loro andamento sconnesso, la Cvetaeva di quei tragici anni. A partire dal ritratto che ne fa la figlia Ariadna (Alja), sei anni ma alquanto precoce («così amiche noi due! Così orfane entrambe!»): 
«Ha gli occhi verdi, meravigliose sopracciglia folte, capelli chiari vaporosi che terminano in favolosi boccoli. Se si taglia una ciocca, si può pensare che sia un braccialetto senza fibbia, per un piccolo braccio».
(...)
Come nelle vecchie soffitte, la Cvetaeva nei suoi affascinanti taccuini – diario e romanzo a un tempo – c'infila di tutto: sogni, canzoncine infantili, lettere, lunghi brani di Alja, considerazioni sulla propria poesia («ogni mio verso è l'ultima cosa che so su me stessa»), parole terribili sulla morte per stenti della figlia più piccola, sulla crescente emarginazione, sull'angoscia di non sentirsi indispensabile.
E poi una feroce autopsia dei propri reiterati amori ancora in corso d'opera, sorta di bilancio continuo, ma anche dialogo con l'amante assente, ammissione tacita dell'impossibilità a farlo nello spazio estraneo del reale.

frammenti della recensione di Giuseppe Dierna ai Taccuini 1919-1921 
di Marina Cvetaeva 
pubblicati da Voland nella traduzione di Pina Napolitano
Repubblica 1 marzo 2014

venerdì 25 ottobre 2013

Tu sei un intero paese e completamente nuovo

Ti aspetto con gioia come se tu fossi un intero paese e completamente nuovo. 

da una lettera di Marina Cvetaeva a Rainer Maria Rilke

Rainer Maria Rilke - Marina Cvetaeva - Boris Pasternak
Il settimo sogno. Lettere 1926
Editori Riuniti 1980
edizione italiana a cura di Serena Vitale

mercoledì 23 ottobre 2013

Il poeta è persona dell'essenza delle cose

Come, io poeta ovvero persona dell’essenza delle cose, potrei farmi sedurre dalla forma? Io sono sedotta dall’essenza, la forma arriverà da sola. 
E arriva… La forma richiesta dalla data situazione, accolta da me sillaba dopo sillaba… No, sono sedotta dall’essenza, poi incarno. Ecco il poeta. E incarno (qui è già questione di forma) il più possibile l’essenzialeL’essenza è appunto la forma – un bambino non può nascere altro! La graduale manifestazione degli elementi – ecco la crescita dell’uomo e la crescita dell’opera creativa”.
“Il poeta - da lontano comincia il discorso; del poeta – lontano porta il discorso”.


Marina Cvetaeva 
Poesie
parole citate nell'introduzione di Pietro A. Zveteremich
Feltrinelli 1998

martedì 7 maggio 2013

Per il poeta non esiste lingua natia: scrivere versi significa trasporre

Caro Rainer,
Goethe ha scritto da qualche parte che non si può creare nulla di importante in una lingua straniera, e io ho sempre pensato che non fosse vero. (Nell'insieme, nel significato complessivo, Goethe ha sempre ragione e io probabilmente non sono giusta con lui.)
La poesia è già essa stessa traduzione, dalla lingua natia in un'alta - che sia francese, tedesco, etc., è lo stesso. Per il poeta non esiste lingua natia. Scrivere versi significa comunque trasporre. Per questo non capisco quando si parla di poeti francesi o russi o altro ancora. Un poeta può scrivere in francese, ma non può essere un poeta francese. È ridicolo. 
Io non sono un poeta russo e resto sempre sconcertata quando mi considerano tale e mi chiamano in questo modo.

Marina Cvetaeva 
frammento della lettera del 6 luglio 1926 a Rainer Maria Rilke

Rainer Maria Rilke - Marina Cvetaeva - Boris Pasternak 
Il settimo sogno. Lettere 1926
edizione italiana a cura di Serena Vitale
Editori Riuniti 1980



giovedì 15 novembre 2012

La legge della stella e la formula del fiore

I versi crescono, come le stelle e come le rose,
come la bellezza - inutile in famiglia.
E, alle corone e alle apoteosi -
una sola risposta: "Di dove questo mi viene?"

Noi dormiamo, ed ecco, oltre le lastre di pietra,
il celeste ospite, in quattro petali.
Mondo, cerca di capire! Il poeta - nel sonno - scopre
la legge della stella e la formula del fiore.

14 agosto 1918

Marina Cvetaeva
Poesie
a cura e traduzione di Pietro Zveteremich
Feltrinelli 1979

mercoledì 14 novembre 2012

Io sono una pagina per la tua penna

Io sono una pagina per la tua penna.
Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.
Io sono la custode del tuo bene:
lo crescerò e lo ridarò centuplicato.

Io sono la campagna, la terra nera.
Tu per me sei il raggio e l'umida pioggia.
Tu sei il mio Dio e Signore, e io
sono terra nera e carta bianca.

10 luglio 1918

Marina Cvetaeva
Poesie
a cura e traduzione di Pietro Zveteremich
Feltrinelli 1979

martedì 13 novembre 2012

Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio

Un mondiale nomadismo è cominciato nel buio:
sono gli alberi che vagano sulla terra notturna.
Sono i grappoli che fermentano in vino dorato,
sono le stelle che di casa in casa peregrinano, 
sono i fiumi che il cammino cominciano a ritroso!
E io ho voglia di venire da te sul petto - a dormire.

Marina Cvetaeva
Poesie
a cura e traduzione di Pietro Zveteremich
Feltrinelli 1979

giovedì 17 maggio 2012

L'impeto del tuo oceano

Ho aperto l’atlante (per me la geografia non è una scienza, ma un insieme di rapporti di cui mi affretto ad approfittare) ed ecco, tu sei già segnata nella mia mappa interiore: da qualche parte fra Mosca e Toledo, ho creato uno spazio per l’impeto del tuo oceano. 


Rainer Maria Rilke a Marina Cvetaeva




Rainer Maria Rilke - Marina Cvetaeva - Boris Pasternak
Il settimo sogno. Lettere 1926
Editori Riuniti 1980
edizione italiana a cura di Serena Vitale