domenica 28 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/357: come canta la primavera, come ritorna il cielo

 


 

Apro a caso il libro per cercare un’immagine o una parola: si presenta un vecchio forno dove stanno impastando il pane. Il profumo si diffonde intorno, io continuo a camminare.

Apro a caso il libro e un altipiano di nuvole in fuga si stende tutto intorno a me. È qui che nascono le nuvole e poi si lanciano sul mondo a portare ombra o temporali.

Apro a caso il libro per creare la gioia, mi basta anche solo la parola per evocare il ciliegio fiorito, la mela matura e la rosa appena sbocciata in fondo al giardino.

Il cielo non si ferma sopra le nuvole oggi, ma scende giù, giù fino all’orizzonte e copre la terra, pietoso mantello delle nostre disgrazie.

Il cielo non si ferma quando tocca il mare, azzurro e azzurro si scambiano di posto e le onde credono di essere nuvole e le nuvole credono di essere schiuma del mare.

Il cielo non si ferma neanche di fronte al mandorlo che sboccia e pretende siano azzurri i suoi fiori, almeno per oggi, almeno per questa stagione che si ripiega.

La terra canta mentre cambia pelle e lascia all’acqua tutto ciò che era gelo e neve, mi scotto le mani in quest’acqua che scorre e rido.

La terra canta mentre cambia pelle, gli alberi rabbrividiscono e sanno che presto sarà tempo di aprire i rami e di lasciare che le gemme tocchino, sfrontate, il cielo.

La terra canta mentre cambia pelle, il vento la guarda incuriosito. È lo stesso rito di ogni stagione, ma la cerimonia è nuova perché non ci sono folle a festeggiare.

C’è un albero che monta la guardia per impedire al gelo di riconquistare terreno, anche le pietre si ritraggono e non offrono la forma e la superficie che l’inverno rivendica nei suoi ultimi giorni.

C’è un albero che monta la guardia, proprio in riva al fiume, e guarda i pesci scivolare sotto la superficie verde e le ninfee nel piccolo lago che abbandonano l’attracco per cercare il luogo della nuova fioritura.

C’è un albero che monta la guardia e non mi ascolta, non vuole cogliere le sillabe umane che a lui suonano come balbuzie. Ha orecchi solo per il vento, è una storia d’amore antica quella tra loro, più antica ancora di quella tra acqua e fuoco che possono abbracciarsi sapendo che uno dei due soccomberà.

Dicono che marzo sarà un mese tremendo, dicono che sarà peggio, ma la primavera non sa nulla di tutto questo dire e sta scuotendo le vesti e il mantello per prepararsi al viaggio. Anche noi dobbiamo prepararci e accogliere questi giorni che stanno arrivando.

Ieri e oggi ho passato ore belle con Giorgia, Simone e Giulio, con Ilaria, Elisabetta e Roberta, con Martina, Rita e Francesca. E con tutti gli altri che sono nomi e volti e che con noi hanno respirato un’aria rarefatta di storie e di parole.

Questa è la Cronaca 357, di domenica 28 febbraio del secondo anno senza Carnevale, c’è una poesia imprigionata in questa pagina, ma la libererò un altro giorno.

sabato 27 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/356: i ricordi di un’altra primavera

  


L’aria ha radici profonde che affondano nelle stelle, così come il cielo affonda le proprie radici in ogni acqua in cui può specchiarsi. Sono tutte invisibili le radici, celate dalla luce e dalla terra, connettono i mondi celesti a quelli terrestri e danno nutrimento alle immaginazioni e ai sogni.

Fanno nodi le radici e sussultano quando le vogliamo recidere o srotolare. Ci sono radici che custodiscono i frutti che saranno e radici sapienti nei giorni della solitudine, quelli in cui sarà ancora più importante sapere chi siamo.

Qui sul pianeta che chiamiamo terra, da oltre un anno una pandemia inarrestabile tiene inchiodata nelle case la metà della popolazione mondiale. Si cercano espedienti per far capire il livello di pericolosità del virus e oggi la città silenziosa è tornata a essere arancione. Così, decido di andare nelle terre ai piedi delle Montagne della Nebbia. Porto con me tutte le radici, le radici si portano appresso, libri, sapori, fotografie, sprazzi di cielo, lembi di ricordi.

La memoria non è un cassetto ordinato dove andare a recuperare ciò che è stato. La memoria è uno scrigno dove tutto sta alla rinfusa e ogni volta che lo apriamo, lo sguardo cade su qualcosa di diverso. Non sono mai uguali i nostri ricordi, arrivano come le onde marine, respirano, si acquietano solo a riva e poi ritornano nel grande mare del passato.

 

Primavera, un’invocazione

 

Ascolto quel respiro che credevo

noto, lo ascolto e non riconosco

neanche una sillaba. Sale il vento

di maestrale e confonde le rive

col cielo e così smettiamo di

avere un punto di riferimento e

ne scopriamo altri dieci a ogni passo.

La memoria è un palazzo, uno scrigno,

è quel cassetto. La memoria è quel

refolo di vento che accompagna questi

nostri giorni dove restiamo appesi alle

prime luci dell’alba e imploriamo che

la primavera ritorni.

 

Un anno è tanto tempo contato qui, sul pianeta azzurro. Ora abbiamo iniziato a doppiare i compleanni e il vento soffia ancora come se fosse la Siberia il nostro luogo. Come se potessimo avere ancora l’idea di un luogo cui appartenere, un luogo nel futuro, per i giorni che saranno, per la chiara luce della stagione bella.

Oggi è sabato 27 febbraio del secondo anno senza Carnevale. Primavera, un’invocazione, l’ho scritta per questa Cronaca 356.

venerdì 26 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/355: apprendisti delle stelle, narratori dei cieli

 


 

Da quando avevano iniziato a studiare le costellazioni, prima sulle mappe celesti, poi osservandole con il telescopio, erano state prese da una strana frenesia.

Le stelle più antiche avevano nomi di mitologia e leggende, quelle scoperte in epoche più recenti nomi che erano numeri.

E non era solo la bellezza di quei nomi e la precisione di quei numeri. Ciò che davvero le aveva rapite, man mano che si addentravano nello studio di una materia tutta basata sulla ferrea disciplina dello sguardo, era cogliere le relazioni e le interdipendenze tra i corpi stellari.

Ancora più grande fu il loro stupore di giovani e appassionate neofite, scoprire che alcune costellazioni non esistevano più perché erano state sminuzzate in gruppuscoli di minori dimensioni e più facilmente identificabili. La Nave Argo era tra queste, ed era anche l’unica delle 48 costellazioni originarie di Tolomeo, a non essere stata riconosciuta dai suoi successori.

Cassiopea scoprì con gioia che il nome che portava non era solo quella della superba e bellissima regina madre di Andromeda, ma anche il nome di una costellazione. Forse per questo le risuonavano familiari tanti di quei nomi e sempre, al primo sguardo, riusciva a identificare la costellazione che portava il suo nome tra migliaia di punti luminosi nel cielo notturno. Sua sorella Berenice era la custode della Chioma, la terza sorella era Andromeda, sorella e non figlia di Cassiopea in questa porzione di realtà.

In breve le tre sorelle mi avevano raccontato della loro comune passione ereditata dai genitori. Eravamo sedute in veranda, nella loro casa di fronte al mare e, dato che le stelle erano ancora invisibili, avevano srotolato sul tavolo diverse mappe per spiegarmi perché il cielo non fosse mai vuoto. Tutta la loro devozione si era però infranta contro un fenomeno oscuro. Perché nel cielo qualcuno o qualcosa stava facendo scomparire le stelle. E cosa accade quando una stella scompare? Il buio la sostituisce, gli astronomi cercano spiegazioni plausibili, gli innamorati sentono più tenue la benevolenza dell’universo sulle loro teste.

 

Era tutto nei tuoi occhi il nostro cielo

 

Un stella non è che luce

portata dal passato sino a

noi. È strano pensare che

Adriano, Cesare e Galileo

l’abbiano contemplata con

le stesse domande di Borges

nella penna. Poi sono arrivata

io, che leggo il cielo solo con

intenti poetici e non cerco

spiegazioni. Ci ho messo un po’

di tempo a capire che una stella

scomparsa non lo è per sempre.

Anche una stella invisibile contribuisce

a disegnare una mappa dove perderci

a ogni stagione. E il nome non

basta di quella stella, per avere

un cammino tracciato tra i marosi

della notte, quel tutto che nessuna

stella può scalfire, se non per piccole

intersezioni. Eppure era tutto nei tuoi

occhi il nostro cielo, anche per questo

io l’ho amato.

 

 

Dall’altra parte del tempo ci sono tre sorelle che disegnano mappe su mappe e fanno affidamento solo sulla potenza del loro sguardo. Stanno in una casa perduta nella brughiera e scrivono storie che non hanno bisogno di altri paesaggi per trovare il loro posto nel mondo. Loro che non sono più tra noi vivono in Jane, Catherine e Agnes.

A cosa servono le stelle, se non a raccontare storie d’amore? Le mie tre amiche annuiscono, portano con leggerezza il peso di quei nomi. Mentre siamo ancora intente a parlare, arriva Alexandre con un dono: una mappa stellare dove sono rappresentate tutte le stelle scomparse di cui si ha notizia. Sono sul confine degli universi quelle stelle -  ci dice il nostro misterioso architetto che sta costruendo la Casa delle Stelle – ma questo non significa che non potremo rivederle, basterà scoprire i loro nomi segreti. La mappa di Alexandre è disegnata su carta pergamena trasparente, quando la sovrapponiamo alla mappa delle costellazioni circumpolari che sono visibili tutto l’anno nel nostro emisfero, gli spazi si vanno a riempire e il cielo diventa d’un colpo più grande. Ho imparato molti nuovi nomi oggi, ho imparato che dietro una piccola notizia – sono sparite cento stelle nel cielo – sta sempre acquattata una storia da raccontare e, spesso, anche una poesia.

Oggi è venerdì 26 febbraio del secondo anno senza Carnevale. Era tutto nei tuoi occhi il nostro cielo, è una nuova poesia che ho scritto oggi per questa Cronaca 355.

giovedì 25 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/354: per tutte le voci che abbiamo dimenticato, per tutte le voci che non abbiamo ascoltato



Le voci sono aria che vibra, ma non sempre. Ci sono giorni in cui, come oggi, le voci sono fatte di legno, o di vetro, o di luce. A volte sono anche fatte di neve o pioggia, le voci, a volte anche di mare o di miele.

Le voci che ho ascoltato oggi in giro per il mio quartiere nella città silenziosa, erano voci di vetro, voci stanche, voci in fuga dal chiuso delle stanze. Ha riaperto la gelateria di via Marghera e c’era un po’ di gente in coda, tra cui un ragazzo con un cacatua sulla spalla sinistra. Tutti i tavolini nei dehor erano pieni di gente che beveva spritz. Se non fosse stato per le mascherine di chi stava camminando poteva essere un tardo pomeriggio qualunque, dove dopo il lavoro la gente si fermava a chiacchierare e a bere, facendo programmi per la sera. Oggi per me è il primo anniversario da quando mi sono chiusa in casa a lavorare. Avevo letto uno studio prodotto da uno statistico dell’università di Pavia e avevo detto alla mia capessa che sarebbe stato imprudente continuare ad andare in giro. Lei mi aveva apostrofato, nervosissima: “Mi rifiuto di diffondere fake news! Tu se vuoi stare casa restaci, ma noi dobbiamo pianificare le presenze in ufficio, almeno due o tre giorni alla settimana ciascuno”. A nulla era valso farle notare che lo studio pronosticasse oltre settemila contagiati alla fine di quella settimana. E così fu, io ero chiusa in casa, sgomenta e incredula come tutti in quei giorni, giorni che stanno raddoppiando, più di un anno è passato e lo sgomento non è mai diminuito. Continuo a sperare, in fondo ai miei pensieri, che questo coronavirus scomparirà così com’è arrivato e come ha fatto nel 1919 la Spagnola. Sono tempi duri e bizzarri, molto meno duri dei decenni bui del Ventesimo secolo, ma ancora non riusciamo a immaginare come sarà non essere più confinati tra le mura domestiche. Così appena posso esco a raccogliere le voci di vetro dei miei concittadini e per ciascuna scrivo un’etichetta per il vaso trasparente in cui la riporrò.

 

Per questo respiro che ci accompagna nella vita

 

Una voce ha bisogno d’aria e

di un corpo che la formi e di

altri corpi che la ascoltino.

La voce vive nelle registrazioni,

ma non è mai la stessa cosa

ascoltare e ascoltarsi dopo

il momento esatto della prima

pronuncia. È difficile ricordare

le voci, anche quelle di chi

abbiamo amato. Forse perché

tutta la nostra memoria è

intenta a salvare le immagini

e per le nostre povere voci

di vetro e paura, non c’è

abbastanza spazio e mai

ce n’è stato. Il sole è

tramontato e la prima

stella scuote il cielo e

chiama, ma nessuno qui

sulla terra risponde. Abbiamo

perso l’aria nelle parole e

solo per salvare questo

respiro che ci accompagna

nella vita.

 

Salvare le voci, ma come farlo? Come restituire l’intonazione, l’inflessione e la pronuncia? Di quel che siamo e che siamo stati, la voce è l’elemento più misterioso. Niente dalla superficie del corpo lascia immaginare la forma che l’aria prenderà fuori dai nostri polmoni.

Quando arrivo a casa sento il solito cagnolino abbaiare, e la gente che si ferma sotto l’albero bellissimo a dire le ultime parole. Nella cassapanca ripongo queste voci di vetro che mi hanno ricordato il giro delle stagioni, l’inverno finisce, la primavera esplode, nascono i cuccioli, ricominciamo a sorridere. Sì, ricominciamo e parliamo, riempiamo di canti tutta l’aria intorno e ricordiamo alla memoria che ogni immagine ha avuto una voce, e che noi l’abbiamo udita.

Oggi è giovedì 25 febbraio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 354 nasce da un respiro e da una poesia costruita tutto attorno: Per questo respiro che ci accompagna nella vita è inedita e già sente la primavera che sta arrivando.

mercoledì 24 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/353: dove la luce della neve risplende nella corteccia delle betulle

 




La prima stella della sera saluta il pastore che torna al suo capanno, le bestie docili che governa lo precedono, il cane lo aiuta a tenerle a bada, è tempo di chiudere il mondo fuori e di occuparsi del mondo dietro quelle mura di fango e paglia imbiancate a calce. La luce della lampada illumina la stanza insieme alla luce che proviene dal focolare, dove in una pentola bolle una zuppa di erbe e patate. Altre erbe sono appese alle travi e, insieme alla paglia nel sacco che fa da materasso, profumano l’aria di primavera, anche se sono erbe dell’anno passato. Intanto che la zuppa cuoce, il pastorello, perché di un bambino si tratta, apre il cassetto del tavolo ed estrae un quaderno e un lapis.

“Ho visto anche oggi la prima stella della sera, ne conservo tante in queste pagine. Quando saranno abbastanza disegnerò la mia costellazione e potrò guardarla anche di giorno se ne avrò voglia. La costellazione che sta sopra il mio capanno è molto bella, ma la mia costellazione avrà molte più stelle”.

Il giovane pastore chiude il quaderno, sono passate almeno dieci estati da quando lo abbiamo incontrato la prima volta. Ora sta aiutando il misterioso architetto che costruisce la sua casa infinita ai piedi delle Montagne della Nebbia e ha idee molto precise su come disporre le stelle della sua costellazione sul soffitto della grande stanza decorata con le stelle binarie. Lasciamo il giovane pastore che si chiama Marius a lavorare insieme ad Alexandre, il nostro misterioso architetto.

Il cammino tra la Casa delle Stelle e la Casa delle Parole è piacevole, un po’ in discesa e attraversa parti del bosco che sono ancora spoglie, ma che già portano i segni della primavera imminente su ogni ramo.

Quando entro in casa una visita inaspettata mi sorprende e mi riempie di gioia. Roxanne è venuta a trovarmi. È impetuosa e sorridente. Non ci mette molto ad arrivare al motivo principale della sua visita improvvisa. Nei suoi numerosi bagagli spicca un bauletto di ciliegio intarsiato. Lo apre ed estrae fasci e fasci di fogli. “Sto mettendo a posto i miei manoscritti, stavo pensando di smettere di scrivere. Sono bloccata mia cara amica, continuo a essere una grande lettrice, ma forse sbagliavo nel credere di essere una scrittrice. Ti consegno tutte queste carte, fanne ciò che vuoi”. Le sue affermazioni mi stupiscono, mai avrei pensato che un giorno l’avrei sentita pronunciare simili parole. Allora la invito a sedersi accanto a me sul divano, prendo un fascio di fogli tenuti insieme da una molletta di legno chiaro e inizio a leggere.

“Cadeva la neve ed era quasi sera, le betulle risplendevano nella luce fioca del giorno e accoglievano i fiocchi come fossero stati piccoli gioielli. Brillavano anche alla luce delle lampade sulle slitte le betulle, e io sapevo che tutta quella luce sarebbe rimasta nella loro corteccia e che, con l’arrivo dell’estate, l’avrebbero restituita allo splendore del mondo”.

Dal suo viso capii che, pur conoscendo quel brano avendolo scritto, risentirlo le dava quel senso di estraniamento che prende gli scrittori quando hanno lasciato andare le proprio parole a collocarsi proprio dove dovevano andare. Mi sorrise: “Capisco dove vuoi arrivare. Dai, mangiamo e poi ti racconto meglio”.

Così questa sera la Cronaca 353 è una storia delle Montagne della Nebbia e le amicizie risplendono come quelle betulle che stanno aspettando la primavera. Oggi è mercoledì 24 febbraio del secondo anno senza Carnevale.

martedì 23 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/352: dormi, dormi perché un sogno è meglio di questa solitudine

 


 

Ha un cuore di ghiaccio la regina, e mani di ghiaccio, e occhi di ghiaccio. Dorme anche se dovrebbe essere sveglia in questa stagione. Dorme perché ovunque vada, le persone sono chiuse in casa e neanche il suo gelido richiamo riesce a riportarle fuori. La stagione ormai sta finendo e perché dovrebbe continuare a preoccuparsi quando dovrà aspettare ancora mesi e mesi per ritornare a splendere?

Tutto è azzurro intorno a lei, anche la neve e il ghiaccio hanno preso quella sfumatura che il cielo rilascia quando il sole si allontana dalla terra. L’unica situazione in cui è la lontananza a rendere evidente l’amore tra la stella e il suo pianeta.

La guardo a lungo, continua a dormire tra le rocce e i pini dove ha stabilito la sua residenza terrestre. Quando il calore inizierà a spezzare il ghiaccio sulla sua pelle e sul fiume, allora si alzerà, richiamerà il carro trainato da quei cavalli argentei che rispondono solo al suo richiamo e, accompagnata dai fedeli lupi, tornerà nel suo regno, quello dove passa la maggior parte del tempo e noi creature umane possiamo visitare solo per andare a cercare storie e a portarle un dono dalle stagioni che lei non potrà mai vedere.

Le stagioni sono quattro sorelle nate dall’amore di un astro, il sole, con un pianeta, la terra. Ognuna di esse può visitare la realtà terrestre solo una volta all’anno e rifugiarsi per il resto del tempo nella nostra immaginazione, di sicuro, o in un altro piano della realtà, dove tutto è trasfigurato e noi possiamo raggiungerle sia in veglia che in sonno.

Continua a dormire la regina delle nevi e dei ghiacciai, i lupi la vegliano e mi portano sue notizie, soprattutto quando lei sogna e loro condividono quel sogno e sono gli animali-guida, quelli che sanno sempre riconoscere la strada per il ritorno.

Ha uno sposo la nostra regina addormentata? I lupi dicono di sì, che l’hanno visto, è un antico sapiente dalla barba d’argento e dagli occhi chiari. Anche lui condivide i sogni e insieme scrivono quelle favole che i bambini umani amano leggere di notte, quando tutte le luci sono spente.

 

Ninna nanna del bambino insonne

 

Dormi, dormi mio bel bambino,

dormi sino a che non sarà giorno e

l’oscurità trascinerà altrove il suo

mantello. Dormi, dormi amore mio,

dormi tutte le notti che avremo insieme,

dormi perché un sogno è meglio di questa

solitudine. Dormi, dormi mio bel

bambino, dormi sino a quando il sogno

non sarà compiuto e una sola aria avremo

respirato. Dormi, dormi e lasciami passare

tra le porte tra i mondi che appena conosco,

dormi e sogna il gatto accanto al focolare.

Dormi, dormi, mia creatura della notte,

dormi tutto il buio, dormi le ombre e poi

dormi la luce. Dormi e svegliati ancora

accanto a me.

 

Saluto la regina addormentata, forse tornerò a trovarla. Torno sui miei passi, calpesto le mie orme che affondano ancor di più nella neve. Sveglia, sono sveglia, ma la ninna nanna mi spinge piano verso il focolare, dove dorme il gatto e dove le creature del sogno si scaldano le mani.

Questa è la Cronaca 352 di martedì 23 febbraio del secondo anno senza Carnevale. La ninna nanna mi è venuta in mente laggiù nella radura, forse è solo un sogno della regina addormentata.

lunedì 22 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/351: ci sferza quest’aria fuggiasca, ci chiama il vento con la nostra voce

 



Gli alberi hanno sempre esercitato un fascino particolare su di me. Li osservo, li contemplo, ne accarezzo la corteccia, raccolgo le foglie cadute, mi fermo alla loro ombra, ci giro intorno.

Dell’albero bellissimo, un acero riccio alto dodici metri, ho già scritto tante volte in queste Cronache, così come ho scritto della quercia monumentale che era dietro la casa di mia nonna in Calabria. Sono meravigliosi anche la quercia rossa di piazzale XXIV Maggio e il platano di Affori che pare venne fatto piantare da Napoleone in omaggio a una sua amante.

Quando scrivo degli alberi mi viene spesso in mente la teoria della ghianda che James Hillmann riprende da Platone: “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro… La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce”.

Se accettiamo questa idea – o immaginazione – tutto di noi è già dentro il seme da cui siamo sbocciati, così come la ghianda contiene la futura gigantesca quercia.

Leggendo gli anelli nel tronco di un albero abbattuto, misurando la circonferenza di un albero vivo, riusciamo a farci un’idea della sua età. Anche quando guardiamo una persona, soprattutto dal suo viso, riusciamo a farci un’idea della sua età.

Oggi, però, passeggiando, mi chiedevo dove fossero gli alberi-bambini che hanno preceduto gli alberi decennali che popolano la mia via. E dove sono i volti e i corpi di noi stessi neonati, bambini, adolescenti, giovani, maturi e infine vecchi?

Ogni volto custodisce tutti i volti che l’hanno preceduto, basta guardare la linea della bocca, il profilo del naso e, soprattutto, il guizzo negli occhi che scintilla come un pesce argentato nel fiume. Così io non sono solo io, ma il frutto del lento accumularsi di materia e immagini, del tempo e dello spazio, delle relazioni che abbiamo intrecciato. Noi siamo il frutto di tutti gli amori e gli sguardi, del mare che abbiamo respirato, del cielo che abbiamo attraversato aggrappati alle nuvole in fuga. La pioggia ha nutrito la nostra pelle, il vento molato la nostra voce sino a che anche noi non abbiamo accettato di entrare nel suo coro.

 

 

Un gesto d’amore sfiorato dal silenzio

 

Una voce è un coro al singolare,

due voci sono un coro diacronico,

il madrigale inizia ad assomigliare

al coro del vento. Ci sferza quest’aria

fuggiasca, ci impregna la pioggia, ci

scuote il mare, ma è sempre il vento

a pronunciare il nostro nome a voce

alta. Così lo sguardo dei bambini che

eravamo, ritorna negli occhi del nostro

oggi e restiamo incantati e pronti a

cantare questo nuovo canto, un gesto

d’amore sfiorato dal silenzio.

 

Così me ne torno a casa con negli occhi alberi invernali, rami spogli, gemme che si stanno gonfiando e nuvole che trascinano la primavera.

Oggi è lunedì 22 febbraio del secondo anno senza Carnevale. Un gesto d’amore sfiorato dal silenzio l’ho scritta per questa Cronaca che sente l’arrivo della stagione chiara.

domenica 21 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/350: una stagione breve all’ombra del vulcano

 



I vulcani esercitano un’irresistibile attrazione su noi umani, soprattutto se sono in piena eruzione e zampillano lava e lingue di fuoco. Una potenza ctonia, primigenia, che ci riporta al nostro stato selvaggio quando la terra, gli animali e gli eventi naturali erano dèi che dominavano il mondo. Un vulcano inattivo lo immaginiamo come se fosse un drago addormentato. Se un vulcano si risveglia, ecco che pensiamo a una punizione divina o a una vendetta della natura. Balliamo come baccanti sulla bocca del vulcano, ci innamoriamo alla sua ombra, andiamo alla ricerca delle tracce di Empedocle che la leggenda vuole si sia suicidato nel cratere.

La “Montagna” o “Idda” come la chiamano i catanesi, esercita un fascino irresistibile anche sui non indigeni. Sulle falde dell’Etna si può sciare mentre si guarda il mare, i paesini della cinta etnea offrono paesaggi mozzafiato, boschi profumati, cibi deliziosi.

Ho visto l’Etna per la prima volta alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Ero ubriaca d’amore e meraviglia, e la Sicilia mi aveva accolta come se il mio fosse stato un ritorno. Gli eucalipti e le zagare in fiore inondavano l’aria di un profumo che dava alla testa. Tutto era esondante, sopra le righe, gli alberi, il cibo, le persone, la musica jazz suonata in piccoli locali catanesi. Le notti infinite di primavera erano inframmezzate da soste nei chioschi a bere limonata, i forni aperti, gli arancini bollenti, i cannoli appena riempiti, la colazione all’alba con una brioche calda e una granita alla mandorla macchiata di granita al caffè.

I profumi e i sapori sono tra i ricordi più intensi di quella prima visita. Ricordo la gentilezza dei catanesi, una vecchia signora che abitava in uno dei paesini etnei che dormiva con una valigetta sotto il letto: la collana di perle di sua madre, un po’ di denaro, le fotografie di famiglia e un ricambio di biancheria. Se la Montagna si fosse infiammata era pronta alla fuga con l’auto sempre in posizione sul viale della sua villa circondata da una pineta e da un bosco di eucalipti.

Dopo il primo impatto da Catania, potei ammirare l’Etna dal Teatro Greco di Taormina, uno dei paesaggi più belli del mondo. La Montagna era lassù e sembrava chiamasse. Trascorse ancora un po’ di tempo e finalmente decidemmo di salire verso la cima. Si poteva arrivare in macchina sino a un certo punto, poi in funivia e ancora qualche tratto a piedi. Non erano passati molti mesi dall’ultima eruzione, la nuova colata di lava non si era ancora del tutto raffreddata. Io non avevo voluto mettere gli scarponi protettivi e così avevo condannato le mie Reebok nere, comprate a New York, a un triste destino: le suole di gomma si sciolsero e quando tornai giù sembrava che avessi le zampe di Paperino anziché i miei piedi. La guida che ci aveva accompagnati era sopravvissuta all’eruzione che falcidiò numerosi turisti alla fine degli anni Settanta. Si premurò di raccontarci i dettagli più orribili di quella giornata, ma mai, mai per un istante, nessuno dei presenti pensò che potesse capitare anche a noi. Quando arrivammo nel punto più alto, l’aria era rarefatta, il calore saliva dalla lava con un’energia che impregnava tutto e tutti. La costa calabrese era visibile e così vicina che sembrava di poter allungare una mano per raggiungerla. Scilla e Cariddi emersero dalle acque e i Ciclopi uscirono dai loro antri, mentre Polifemo urlava il proprio dolore contro quel Nessuno che lo aveva beffato.

Forse tutti quelli che vivono sulle pendici di un vulcano sono convinti che niente di male potrà accadere loro, devoti a una divinità benevola che regna dalla terra al cielo.

Ho sempre associato l’attività vulcanica alla creatività poetica e letteraria, perché come la lava, la parola sgorga da profondità sconosciute, rossa, veloce, incandescente, si poserà da qualche parte, si raffredderà e sedimenterà. Ho un minuscolo frammento della Montagna sulla mia scrivania, un frammento raccolto in quel giorno lontano e che, quando lo tocco, ho sempre l’impressione di sentire le grida dei mostri e il canto del vulcano. Un canto che è possibile sentire di notte, quando il cielo è sereno e le stelle brillano per salvare Empedocle dalla sua morte e Polifemo dalla cecità.

 

Una stagione breve all’ombra della Montagna

 

Parla una lingua di fiamma questo

vulcano, dorme e si sveglia quando

ne ha voglia, si scuote di dosso

il tempo e tutta la città è costretta

a danzare al suo ritmo e a ricordare

chi comanda lassù. Il suo cuore nero

è diventato una strada, la sua cenere

feconda ha impregnato i campi, e

profumano le zagare, sbocciano tutte

le mimose quando nella mia terra è

ancora il gelo a dirigere l’orchestra

dei giorni. Quanto profumano i ricordi,

quanto erano belli quei volti giovani

che si sono amati per una stagione breve.

 

Torno a guardare i video più recenti delle nuove eruzioni e consegno di nuovo al passato quei giorni incantati, proprio ai piedi della Montagna, guardando il mare. La poesia che accompagna questa Cronaca 350 è inedita e l’ho scritta oggi, domenica 21 febbraio del secondo anno senza Carnevale.

sabato 20 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/349: il dilemma dei triangoli, equilatero, isoscele o scaleno?

 


Ero molto piccola, andavo alle elementari, seconda o terza non saprei, un tardo pomeriggio d’inverno ero rimasta incastrata su un esercizio di geometria che non riuscivo a capire. Il protagonista era un triangolo isoscele, ma avrebbe potuto anche essere una forma della sesta dimensione per quanto io non riuscissi a capirne l’essenza. Mia madre era in cucina con il fratellino nel seggiolone, artista della fuga, veniva tenuto fermo con una piccola cinghia. Sorrideva, mi sorrideva, io espressi a mia madre il mio dilemma, la mia incapacità di arrivare a capire il mistero del triangolo isoscele, lungo e allampanato, possedeva una grazia che, ai miei occhi bambini, il triangolo equilatero e lo scaleno non possedevano. Mia madre mi ascoltò e mi diede un consiglio: “Vai a fare una passeggiata e vedrai che quando torni, capirai”. Decisi di seguire il suo consiglio e mi offrii anche di andare al supermercato a comperare il latte. Quando fui davanti al banco refrigerato e presi in mano il cartone della Centrale del Latte, la forma di un triangolo equilatero si espanse nelle tre dimensioni e io vidi la differenza con lo scaleno e quello che mi interessava di più, il triangolo isoscele. Tornai a casa di corsa, dissi trafelata che avevo capito e che dovevo finire l’esercizio. E così feci, l’esercizio era finito in un attimo e tutta trionfante ero tornata in cucina a raccontare a mia madre e al fratellino, che mi ascoltava come fossi un oracolo, cosa avevo scoperto. Mia madre aveva un golfino turchese e quello di mio fratello era blu. Io indossavo un vestitino scozzese con il fondo grigio e le linee blu e arancioni. Fuori faceva freddo, ma era stato bello uscire, perché imparai quel giorno che se un’idea non ti arriva, se non capisci, ci sono due strade per sbloccare la situazione. Camminare è la prima, è come se i passi richiamassero il mondo a darci una risposta, come se le cose del mondo facessero a gare per venirci incontro e offrirci il metodo per svelare i loro misteri e le intuizioni, per acchiapparli mentre vagano nell’etere come farfalle. La seconda strada è quella del sonno, del riposino diurno, o dell’abbandono al mondo dei sogni notturni. Anche lì i misteri fluttuano, sebbene non rispondano alle leggi della veglia. Ma anche quel mondo esiste, quella dimensione così rarefatta ma, a volte, più concreta di questo mondo che definiamo reale.

 

La terra inesplorata che chiamavamo infanzia

 

Mi vengono incontro piccoli angoli

ottusi e ridanciani, so che sto

sognando, perché cammino a testa

in giù e guardo la terra come fosse

un cielo e i miei piedi affondano

nelle nuvole soffici di quando

ero bambina, non so se schiuma

o panna montata. Tutte le geometrie

cadono nella loro forma e noi vediamo

un tulipano che custodisce al centro

un triangolo isoscele perfetto e altero,

stupito come lo ero io nella terra

inesplorata che chiamavamo infanzia.

 

È tempo di uscire a camminare adesso, un nuovo triangolo sta aspettando di svelarmi il suo mistero.

Oggi è sabato 20 febbraio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 349 è tutta angoli e poesia. La terra inesplorata che chiamavamo infanzia è inedita e l’ho appena scritta.

venerdì 19 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/348: gli occhi non riflettono le immagini, gli occhi sono le immagini

 


I misteri della geometria, la rappresentazione del mondo in forme nette e riconoscibili, mi hanno affascinata sin da bambina (e tornerò su questo tema). Ieri ne ho sentito parlare con ardore e passione dal mio amico pittore Roberto Plevano, che conosco da oltre vent’anni e con cui ho collaborato molte volte, scrivendo poesie e prose poetiche a partire dalle sue opere che continuano a riempirmi di meraviglia e di stupore. In questi ultimi due anni Roberto ha lavorato a una monumentale autobiografia che intreccia vita privata, vita pubblica e opere. Compiuti i 70 anni, Roberto ha deciso che doveva e voleva raccontare se stesso e la sua pittura. Il tempo, le delusioni e le sconfitte non hanno mai fatto venire meno la sua passione, perché la sua è un’arte necessaria che dal mondo arriva nei suoi occhi e ne esce trasfigurata. Le forme geometriche che tanto gli sono care, popolano i suoi quadri e ritornano a noi accompagnate dai paesaggi che lo hanno colpito nel corso degli anni. Dopo il periodo figurativo, che segna gli esordi della sua carriera, dove sono protagoniste la casa natale e le montagne di Chiavenna, sono i Navigli milanesi, colti nella loro dimensione metafisica, a segnare il suo percorso negli anni Settanta del secolo scorso. E poi arriva la libertà delle vele dispiegate nelle sue “Regate veliche”, un’armonia di forme e di colori che mi ha suscitato uno dei miei racconti giovanili che più amo, “La città di vetro”. Negli anni Ottanta sono state le rocce della Gallura e quel mare dove lui ha nuotato sin quasi a smarrirsi per poi ritornare a riva e dipingere. Una collaborazione significativa tra di noi arriva a fine anni Novanta, inizio degli anni Duemila, quando ho scritto una poesia per ciascuna delle sue “Donne allo specchio” e insieme al compianto Mario Galzigna, abbiamo presentato le sue opere e le mie poesie alla Libreria Bocca di Milano, in Galleria Vittorio Emanuele.


Anche i “Big Bang” hanno caratterizzato le sue creazioni degli anni Novanta, insieme agli “Alberi della vita”. Una fase successiva, quella del “Tempo e le tracce” gli suggerirà anche il titolo per l’autobiografia, mentre andavano crescendo le collaborazioni con jazzisti del calibro di Guido Manusardi, Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia, con i quali anch’io partecipai a una serata fantastica in quel di Corsico. Nella sua vulcanica vitalità Roberto è stato anche direttore della rivista della Libreria Bocca e ha organizzato incontri con alcuni dei più importanti intellettuali italiani, tra cui Giulio Giorello. Il periodo delle “Crocefissioni” è stato un altro momento fecondo della nostra collaborazione, ma stare dietro all’evoluzione e alla ricerca di Roberto, al suo lavorare caparbiamente a prescindere dai riscontri della macchina economica e culturale che ruota intorno al mondo dell’arte, non è facile, bisogna avere buone gambe, risoluzione e fiato, proprio com’è lui. La “Route des serres” provenzale è una delle altre fasi della vita pittorica e personale di Roberto, un uomo in cui la bellezza del mondo e la gioia di vivere riverberano l’una nell’altra. “Anatomia del tempo, dello spazio e della materia” è un’altra delle fasi esplosive dell’opera di Plevano e poi, dato che il mondo lo permea, la pandemia ancora in corso non poteva non entrare nei suoi dipinti. Non sappiamo ancora quando il libro uscirà, ma speriamo molto presto. Roberto, per me, è il simbolo della resistenza umana e artistica, un uomo che ha molto vissuto, sofferto e amato, un artista che vive non solo in questo mondo, ma anche in quello che ha creato nei suoi quadri. Concordo con Danilo Bramati, grande amico e grande poeta, che così scrive in una poesia che fa parte della raccolta L’ultima promessa, di prossima pubblicazione nella collana Il passo di Efesto di Atì editore.

 

Sul margine

 

Sul margine del taccuino

trascrivo questo proverbio:

“Gli occhi non riflettono le immagini,

gli occhi sono le immagini”.

 

Per questo un artista e la sua opera sono un tutt’uno, per queste le forme e l’architettura dell’opera sono fondamentali, derivano dal nostro occhio e, a loro volta, lo plasmano, lo modellano.

Questa è la Cronaca 348 di venerdì 19 febbraio del secondo anno senza Carnevale ed è figlia di riflessioni, letture e sguardi che si perdono nel tempo, e che ascoltare Roberto ieri pomeriggio e leggere le poesie di Danilo questa mattina, hanno generato.

giovedì 18 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/347: per arrivare al centro e poi tornare indietro, bisogna disegnare la mappa del nostro labirinto

 



Possiamo camminare e camminare, creare la nostra mappa della città o del giardino, ma sarà una mappa racchiusa nei nostri occhi che non potrà contemplare tutti i labirinti che i luoghi custodiscono e, spesso, tengono nascosti.

Se cerchiamo di comporre una mappa delle stelle il percorso sarà ancora più arduo perché il nostro occhio non sa riprodurre la vastità del cielo e la numerosità delle stelle.

Le mappe sono per la terra e i labirinti segnano l’indicazione di una via. Entriamo in un labirinto non tanto quando iniziamo un percorso o un cammino. Al labirinto si accede quando una frattura ha intaccato il tempo umano, quando una relazione, d’amore, di parentela o d’amicizia, finisce e noi portiamo via la maggior parte di ciò che siamo e solo un po’ di ciò che siamo stati in quella relazione. La memoria condivisa non resta tutta con noi, noi sapremo solo una parte della storia, rivedremo e sentiremo in noi solo frammenti e mai più l’intero.

 

Il cammino è un madrigale che ha parole d’aria

 

Ecco ho imboccato il labirinto già

molto tempo fa, ho intravisto da

che parte era l’uscita, ma sono

tornata sui miei passi perché ancora

non avevo finito di graffiarmi le braccia

contro i rami e ferire i piedi sulle pietre

affilate che segnano il cammino. Devo

arrivare al centro e poi tornare indietro,

là dove regna l’ombra più splendente e

dove la luce è nera per non trarci in

inganno. Il centro sembra vuoto

quando si inizia, ma è solo l’angolo

distorto della nostra abitudine a rendere

reale questo primo inganno. A volte sembra

che nel centro si possa trovare un labirinto

di minori dimensioni, a volte stracci e

foglie cadute. A volte un canto che sale

dal cielo e scende dalla pietra. A volte

è uno sguardo amato che ci indica questa

nuova direzione e soffiano i venti, soffia

un madrigale che ha parole d’aria e

ancora, molti pensieri. Quella tristezza

d’acqua giacerà nella fontana e noi gireremo

intorno alla sfera che è il centro dove

siamo diretti e il luogo che crea l’uscita

dal labirinto. Invisibile agli occhi, ma

non ai nostri passi.

 

Immagini opera dell’ingegno umano, la natura che offre spunti per rinforzare le nostre intuizioni, le parole degli altri che diventano frecce e creano simboli che ci guideranno. Oggi ringrazio le persone che ho incrociato in questo attraversamento e Chiara Mirabelli, Ivan Carlot e Marialuisa Damini per essere stati sempre con noi in tutto il tempo del nostro percorso.

Oggi è giovedì 18 febbraio del secondo anno senza Carnevale. Il cammino è un madrigale che ha parole d’aria è inedita e l’ho scritta questa sera per la Cronaca 347.

mercoledì 17 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/346: dove il vento regna e si riposa, anche la betulla e la rosa guardano a occidente

 



Spazio dopo spazio, vento dopo vento e sillaba dopo sillaba, un’altra giornata sta arrivando al suo compimento. Cosa abbiamo lasciato di noi nel tempo, cosa il tempo ci ha donato?

È sempre un movimento minimo, un sussurro, una lingua di fuoco che ci fa spostare dal luogo di sosta che avevamo scelto.

Quando la primavera si affaccia nel mondo e sfiora tutte le creature, non ci sono distinzioni tra noi e gli altri. Godiamo del sole, dell’aria chiara, del canto degli uccellini e respiriamo sotto un cielo sollevato che si rispecchia nel mare come nei nostri occhi.

La passeggiata odierna è stata lunghissima e, nonostante l’acqua sia ancora fredda, ho camminato sul bagnasciuga e lasciato che il sale impregnasse vestiti, capelli e viso. Sono passata dalla Casa delle Tre Sorelle che erano in veranda a prendere il sole. A occhi chiusi sembravano tre divinità sul loro altare, e i gabbiani devoti arrivavano a inchinarsi e le onde, a ogni giro, erano un po’ più alte e rumorose.

 

Sapere sulla pelle dove la stagione chiara arriverà per prima

 

Solo noi sappiamo che ogni devozione

è figlia del vento. Senza la sua spinta

non ci sarebbero inchini e piroette,

non potrebbe la rosa chinare il capo e

la betulla piegarsi a occidente, dove

il vento regna e si riposa. Così accetto

la spinta lieve che mi riporta nel tuo

giardino e sorrido all’oleandro e al

melograno, solo noi sappiamo dove

la stagione chiara arriverà per prima

e siamo pronti a festeggiare questo

nuovo inizio.

 

Il mare e il suo profumo salato, le alghe e le onde. La sabbia e l’acqua, i pini in lontananza, i limoni sul tavolo, un bicchiere vuoto. Poche parole nell’aria perché le divinità non devono essere disturbate.

Rientro prima dell’imbrunire e sorrido ai gatti e al fuoco che li riscalda. Preparo il tè, sbuccio un’arancia, apro il quaderno e inizio a scrivere della devozione di questa giornata, del tempo che non è reale oltre la nostra pelle, delle immagini che danzano nel fuoco, delle ore serali tonde e arruffate, delle parole che diremo e ascolteremo.

Questa è la Cronaca 346 di mercoledì 17 febbraio del 2021, il secondo anno senza Carnevale. Sapere sulla pelle dove la stagione chiara arriverà per prima, è il frutto inedito delle onde che ancora risuonano in me.

martedì 16 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/345: la neve muta i contorni delle betulle, solo il silenzio è sempre lo stesso

 


Facciamo sempre le stesse cose, eppure ogni giorno è diverso, eppure ogni giorno è uguale. Non siamo noi a stabilire l’ordito, è l’ordine del tempo a plasmarlo. Ma la trama è nostra, nostra la tessitura. Anche in spazi minimi e senza cielo, possiamo definire come saranno le ore del giorno e tirare i fili quando la sera sarà arrivata.

 

La stagione chiara che sta arrivando

 

Cosa potremmo offrire a questo giorno

che ancora non abbiamo dato? Sue

sono le tre sillabe d’argento portate

dal mattino, sue sono le pietre che

ho deposto sulla riva del fiume e

suo è il vento che ci sfiora nel nostro

solito cammino. Ora che è sera è tempo

del fuoco diventare dono insieme alle

arance che risplendono sul tavolo, si

sentono i canti degli uccellini in fondo

al giardino. Ma forse è solo un sogno,

un desiderio per la stagione chiara che

sta arrivando.

 

La sera è l’ora dei libri, si accendono le luci nei punti migliori per leggere, la casa ripiega le ali e si prepara alla notte. Non sempre è un uccello migratore la mia casa. A volte è un veliero alla ricerca di un nuovo approdo, a volte è una slitta che attraversa la tundra siberiana mentre la neve cade e muta i contorni alle betulle. Solo il silenzio è sempre lo stesso, sfiora il capo di ciascuno e dormono i pesci sul fondo del mare e il gelo è una coperta ricamata, una quiete altissima avvolge ogni cosa, e noi possiamo scendere in un libro e iniziare una vita diversa e nuova.

Oggi è martedì 16 febbraio del secondo anno senza Carnevale. La stagione chiara che sta arrivando è inedita e l’ho scritta per questa Cronaca 345.

lunedì 15 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/344: tutto è mare intorno e mare dentro, tornerà l'estate anche fuori dal nostro cuore



 

Entriamo e usciamo, varchiamo le soglie delle porte tra i mondi. E da ogni viaggio portiamo frammenti di ciò che è stato.

Oh mia giovinezza aspra e curiosa, porto ancora con me le foglie e le pietre che mi hai donato. Mi ricordo di te, mi ricordo la tua fede e così ancora oggi posso credere che la memoria sia lo scriba dell’anima.

È vasta l’anima tanto quanto la memoria e il mio cranio si espande a ogni pensiero. Respirano anche nell’acqua i pensieri, e tornano con una tristezza occidentale che non placa i dormienti. I sogni arrivano a soccorrere gli inquieti e strappano all’oceano della memoria nuove immagini che torneranno. Quanti pesci addormentati sui fondali, prigionieri delle alghe e della nostra nostalgia. Tutto è mare intorno e mare dentro, tornerà l'estate anche fuori dal nostro cuore.

Sento le mani respirare dove la stella marina ha illuminato la stella cadente che l’ha preceduta. In che lingua conversano le stelle? Riuscirò ad avvicinarmi abbastanza per decifrare il loro sussurrio?

Ma la stella tace ed è l’aria che sostiene il mondo a suggerire che è tempo di mutare, di muoverci in quell’eterno mutamento che chiamiamo vita.

 

Mentre il fuoco ama le foglie

 

Tutte le vostre voci camminano nel

vento, i vostri volti raddoppiano le nuvole,

chiare su un  lato, nere nell'altro.

Il mare è caduto nel cielo, tutti gli sguardi

cercano la terra mentre il fuoco ama

le foglie e la pagina bianca è un campo

non ancora arato.

 

 

Solo le parole sono specchio di quel che sentiamo e le due ossa del braccio si separano e sfiorano l’aria intorno al tuo volto. Ritornano nel loro guscio le mani e l’ombra decide l’ora del ritorno. Addio, vorrei dirti, ma il tuo grido è ancora intatto tra le labbra. Così mi siedo e ascolto, ti guardo negli occhi e ascolto i millenni di parole che non hai detto mai.


Oggi è lunedì 15 febbraio del secondo anno senza Carnevale dalle cui cure sguscia questa Cronaca 344. Mentre il fuoco ama le foglie è una poesia che ho scritto nel tardo pomeriggio quando ero con persone speciali che hanno toccato la terra e l’acqua è subito sgorgata.

 

domenica 14 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/343: la quiete che placa lo sguardo e disseta il respiro

 


 

Paesaggio dopo paesaggio, sento che il mio sguardo ha trovato la sua dimora e mi sdraio a guardare il cielo, e mi sdraio a cercare nelle nuvole forme animali, e mi sdraio a contare le stelle.

Niente fermerà questa sosta, niente verrà a interrompere questa fusione. Nessuna voce coprirà il mio silenzio, nessuna voce consiglierà un movimento.

 

Questa profondissima quiete

 

Non ci sono barriere o confini

in questa terra imbevuta di

luce. I bambini giocano nei

campi e si nascondono in

quell’ombra liquida che disseta

i girasoli. Il canto delle cicale

copre ogni pensiero, apro gli

occhi e intorno solo il gelo di

una domenica infinita e il tuo

sguardo che domina questa

profondissima quiete.

 

 

Vite su vite si affastellano, come quando si impasta la farina con l’acqua e poi si ritorna, movimento dopo movimento, a una nuova forma, a un diverso spessore.

E ho impastato così tanto che non vedo più il confine tra il tuo paesaggio e il mio. Tutto il mondo visto e quello sognato, stanno nel nostro sguardo.

Così le immagini si sfilano e, nitide come fotografie, vanno a popolare il mondo intorno e noi sappiamo che ci sarà una mattina in cui ti vedrò attraversare il prato e sorridere, senza bisogno di aggiungere nulla alla voce del vento che soffia sull’altipiano.

Oggi è domenica 14 febbraio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 343 ruota intorno alla poesia come il sole fa con la terra. Questa profondissima quiete è nata dal silenzio della sera.

sabato 13 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/342: se l’alfabeto del giorno è anche alfabeto della neve

 

 


Nevica da molte parti in Italia, qui nella città silenziosa abbiamo sentito la voce del ghiaccio e non la voce dell’alba. L’alfabeto della neve ha sillabato tutto il giorno sulla Casa delle Parole e non mi è rimasto che guardare la neve fioccare.

 

Due alfabeti, non so ancora quante sillabe

 

Ha lettere infinite la neve e, così

infinite sono pure le sillabe. Posso

mettere in campo tutta la mia arte

combinatoria, ma non otterrò mai

due parole simili, due sillabe che

portino sino a te questa mia lingua

che sente il ghiaccio, questa mia

lingua che cerca il fuoco.

 

Sì, febbraio è proprio il mese che cerca di liberarsi dall’abbraccio assopito dell’inverno. I cavalli stanno correndo sulla spiaggia e, lontano, sull’isola i mandorli sono già in fiore.

Tutti si comportano come se la pandemia fosse quasi finita, come se questo nuovo governo, per pura forza di volontà, riuscirà a fare cose mai fatte prima.

Le metafore della neve sono neve non ancora caduta, le metafore della luce, sono le ombre rimaste impigliate nella rete dei sogni della notte prima di questa.

Vediamo nel nostro teatro interiore muoversi le creature vive che di qua chiamiamo personaggi, i nostri ricordi sono le loro intenzioni, le parole sono comuni, conosciamo quella lingua aspra che leviga la roccia, quel miele salato che cola dai favi e permette al sole di riflettersi sulle nostre dita.

Saranno madri e padri a reclamare giustizia, saranno amori non vissuti, parole non pronunciate e tutto si compirà tra pagine che, oggi, sono ancora chiuse tra corteccia e rami.

Questa è la Cronaca 342 di sabato 13 febbraio 2021, il secondo anno senza Carnevale. Un sabato che ha sprizzato parole e magia nella nostra stanza e che mi ha fatto scoprire come tutte noi e Simone, risplendiamo di echi e risonanze. La poesia Due alfabeti, non so ancora quante sillabe, è inedita e l’ho scritta stasera, mentre sentivo i rumori scemare e acquattarsi nei nidi, coprirsi il capo con quel che è rimasto del giorno, del suo alfabeto.