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mercoledì 11 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/521. Favola della rondine senza nido e del vento senza casa

 

 


 

Mi ha sempre colpito la dichiarazione di Michelangelo, di voler andare a cercare nella pietra le figure che erano vi erano nascoste, imprigionate. È proprio vero, è una qualità della materia tenere in sé altre forme, altri stati, altre possibilità di esistenza.

Il fiore in boccio tiene in sé il ricordo del seme, la foglia l’ombra dell’estate precedente e anche la nuvola nasconde la pioggia caduta giorni fa. Dunque l’unica verità di questa dimensione è l’eterno mutamento, le forme che cambiano con il cambiare della luce solare e della stagione.

È ancora la pietra che sembra poter essere uguale a se stessa, ma non è così, prima o poi il vento ne avrà ragione o Michelangelo che vuole scolpire lo schiavo che regge il mondo sulle spalle. È il nostro destino tenere il mondo sulle spalle, inutile cercare di sottrarsi perché ciascuno di noi è responsabile di quel che accade. Lottiamo contro la forza di gravità e contro il tempo per portare nel futuro la bellezza che abbiamo incontrato. Impariamo sin da piccoli ad avere cura delle persone e delle cose, le donne più degli uomini per via del retaggio culturale, ma ciascuno di noi ha un senso della cura e della gioia nel praticarla, metterla in atto. Non fosse che il curare delle piante o un gatto anziano. Siamo portati dall’istinto ad avere cura delle creature più giovani, più piccole o più anziane, indifese. Perché sappiamo di dover contrastare il male che abita il cuore degli uomini tanto quanto il bene e molto spesso è più forte. È difficile parlare ad alta voce di fronte alla sofferenza, e allora sussurriamo e facciamo ciò che va fatto. Anche di fronte al male estremo e assoluto del nazismo ci furono donne e uomini che dissero no, si opposero, salvarono vite ed ebbero cura del mondo. Avere cura è sempre un atto rivoluzionario, perché si oppone alla distruzione e si preoccupa e occupa in concreto delle creature e del pianeta a partire da chi e cosa ci è più vicino. Nell’astrazione e nella distanza non c’è cura ma solo fredde intenzioni e proclami. Nella strada dove abito c’era una signora, si chiamava Maria, non sapeva che ogni gesto fosse un gesto d’amore, ma bagnava i cespugli in giardino ogni mattina molto presto, prima che potesse il sole bruciare le foglie giovani, sfamava i gatti randagi del quartiere, lavorava ai ferri quadrati di lana per farne coperte,

leggeva favole ai bambini, chiacchierava con le vicine di casa e sorrideva ai negozianti. Era molto anziana e non so altro di lei, se non che un giorno ho smesso di incontrarla e i gatti hanno smesso di venire a cercarla e alle sue finestre non c’erano più i panni bianchi stesi, ma

vasi moderni con piante sempreverdi. Cosa è rimasto di lei se non questo ricordo, queste poche parole? È vero, ma il ricordo è potente e i gesti sono stati imparati. Ci sono altre mani che innaffiano i cespugli e la gente sorride quando si incrocia per strada, anche quelli che sono stati bambini e hanno ascoltato le favole lette da lei nei pomeriggi d’estate. Non hanno bisogno di leggerle, perché le hanno imparate a memoria e uno di loro stava con i suoi figli, sulle panchine nuove e recitava la storia della rondine senza nido e del vento senza casa che si incontravano ogni anno sotto lo stesso angolo di tetto.

Qualcosa rimane sempre e per sempre, anche se oggi non ci sembra che sia così. Ho innaffiato le rose e il basilico questa mattina, e poi sono andata a camminare e mi è sembrato di averla vista china con un ciotola di cibo in mano e un gatto rosso che la stava salutando.

 

Questa è la Cronaca 521 di mercoledì 11 agosto del secondo anno senza Carnevale, e Milano risplende nel silenzio e nella solitudine delle strade che hanno riscoperto le gioie della contemplazione.

giovedì 10 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/459. Dove la gioia irradia luce mentre passeggiamo in riva ai Navigli.

 



Veniamo al mondo nudi, indifesi e ciechi, senza poter parlare. Piangiamo tantissimo per farci capire, sorridiamo e lalliamo. Resteremo a lungo affidati alle cure degli adulti, soprattutto a quelle materne. Portiamo in noi un’eredità genetica di cui non siamo né consapevoli, né responsabili. Intrecciamo relazioni, assorbiamo l’ambiente che ci circonda, impariamo in ogni istante. Il tempo è infinito durante l’infanzia, ma è l’unica fase della nostra vita in cui siamo esseri fuori dal tempo. Per ciascuno di noi è molto diverso il momento in cui entriamo nel tempo, diventiamo, cioè, consapevoli che il tempo esiste e ci governa. Forse è il corpo il primo a saperlo, quando inizia a cambiare grazie alle tempeste ormonali che si scatenano nella pre-adolescenza. Ma il nostro essere nel tempo, quando siamo adolescenti, non è ancora il momento della consapevolezza della nostra finitudine. Gli adolescenti sono eterni, eterna è la giovinezza, la maturità è la vecchiaia sono eventi che accadono agli altri, non a noi. In queste prime e brevissime fasi della vita, ogni giorno erigiamo palazzi, seminiamo campi e attraversiamo terre sconosciute. Gli unici a capirci sono i nostri coetanei e qualche adulto illuminato che non ha dimenticato la propria adolescenza. Oltre agli adulti della propria cerchia familiare, sono soprattutto gli insegnanti che ci insegnano a stare nelle relazioni, che ci offrono competenze, risposte e molte nuove domande da esplorare insieme. Continuiamo a imparare ogni giorno cose nuove senza neanche accorgercene. Impariamo l’alfabeto delle emozioni e quello del corpo, che parla una lingua universale. Il futuro è vasto e meraviglioso, anzi è infinito e pieno di gioia. Poi finiscono le scuole superiori, i più fortunati, dotati e volenterosi vanno all’università, gli altri a lavorare. Questo è quello che accadeva nelle vite di noi baby boomer, la generazione più fortunata della storia dell’umanità, almeno così ci piace pensare, quelli che hanno avuto tutte le opportunità e le hanno sfruttate: studiare, viaggiare, lavorare e smettere quando se ne aveva voglia, andare a vivere da soli ancora molto giovani. Ricordo che quando ho trascorso un’estate in Svizzera a studiare letteratura francese all’università di Losanna, ero l’unica poco più che ventenne che viveva ancora in casa con la famiglia d’origine e tutti i miei nuovi amici e amiche se ne stupivano. E poi? Come accade che si entri nella maturità e si inizi a guardare il mondo con occhi diversi? Parto di nuovo dalla mia esperienza individuale per cercare di trarne ispirazione per formulare leggi “universali”. Si entra nella maturità quando ai guadagni e all’espansione del respiro verso il futuro, si affiancano le perdite: il proprio corpo che inizia ad avere i segni del tempo, la scomparsa di persone care, di solito i nonni e gli anziani della famiglia, quando si affievoliscono i legami con i compagni di scuola. Nessuno di noi è veramente preparato alle perdite che la vita ci infliggerà, all’inesorabile trascorrere delle giornate che si faranno tutte molto simili e poco avvincenti. Il lavoro, soprattutto se sarà un lavoro non molto interessante e non molto amato, sarà causa di grande afflizione. Ma anche a questa afflizione esiste un rimedio che è frutto della maturità e della consapevolezza, cioè la capacità di prenderci cura delle persone, dei luoghi e degli oggetti. Se è intuitivo pensare alla cura degli oggetti, mantenerli in buone condizioni d’uso, preservarne la bellezza e la trasmissione alle generazioni future, avere cura del paesaggio e dei luoghi è ancor più complesso e difficile. Se riusciamo a curare la nostra casa, per avere cura dei luoghi e dei paesaggi bisogna che entrino in gioco forze e intelligenze collettive che abbiamo una visione d’insieme. E qui entra in gioco la dimensione politica della vita, dove sono necessarie persone appassionate e competenti. Abbiamo visto in anni recenti i disastri fatti da politici improvvisati. Per quanto riguarda la cura delle persone, a partire da noi stessi, dei corpi e delle anime, il processo è delicato, continuo e necessita di passione e di compassione, di capacità di ascoltare e di donare, di amore per le persone a partire da quelle più vicine a noi, di amore per le loro storie, perché dare un senso al nostro vissuto attraverso la narrazione della nostra vita, soprattutto in forma scritta, può diventare anche un percorso di terapia e di auto-terapia. Declinando il nostro personale Alfabeto della Cura impariamo ad accettare le perdite, che sono inevitabili e fanno parte della nostra natura umana, e costruiamo giorno per giorno quella ricchezza che trasmette gioia irradiata da noi stessi e che su noi stessi ritorna. Così perdite e guadagni, anche se non mi piace molto questa contabilizzazione dei sentimenti, scorrono in noi e attraverso noi e ci permettono di guardare al passato senza nostalgie e rimpianti e ci aiutano a stare nel tempo presente, quello che smette di essere tale respiro dopo respiro, parola dopo parola. Oggi è stata una bella giornata estiva anche nella mia amata città non più silenziosa, in questo giovedì 10 giugno del secondo anno senza Carnevale, dove ho condiviso il tempo con la mia adorata amica Rossana, a zonzo sui Navigli, come amiamo fare d’estate e come anche questa Cronaca 459 ricorderà.

martedì 20 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/408. Essere in sintonia con l’organismo: osservare e respirare

 


Ricominciare ogni giorno dalla foglia più piccola, che non sempre è la più giovane. Guardiamola a lungo, impariamo a riconoscere ogni singola nervatura, ogni sfumatura di verde, ricordiamo la sintesi clorofilliana, sfioriamo la superficie liscia da un lato e più ruvida dall’altro, respiriamone il profumo. Lo sguardo che avremo prodigato, uno a uno sul tutto, alla fine sarà un solo sguardo, uno sguardo, il nostro sguardo.

Sappiamo che il movimento delle particelle subatomiche cambia a seconda della presenza di un osservatore, così come conosciamo, grazie al premio Nobel per la medicina Barbara McClintock e alla fisica e filosofa Evelyn Fox Keller che la intervistò a lungo e che ha scritto una magnifica biografia – In sintonia con l’organismo - prima della vittoria del Nobel, che “ciò che per gli altri è frutto di interpretazione, o di speculazione, per lei è questione di allenamento alla percezione diretta”. Entrare in sintonia con l’organismo per la McClintock significava davvero osservare per ore la stessa pianta, o foglia, soprattutto di granoturco perché non esistono due piante uguali e lei seguiva la stessa piantina sin dal momento in cui sbucava dal terreno, la contemplava per ore prima di passare all’utilizzo del microscopio. Così questa sera mi lascio ispirare da queste scienziate per declinare altre lettere dell’Alfabeto della Cura e aggiungere altre parole al suo Vocabolario. Alla lettera A aggiungiamo “Attenzione”,  alla lettera O “Osservazione”, alla lettera P “Percezione”, alla lettera S “Sguardo”, alla lettera V “Vista”.

Percepiamo il mondo con 5 sensi, ma è soprattutto grazie alla vista che il mondo fuori di noi diventa mondo dentro di noi e per questo noi possiamo evocarlo, costruirlo, ricostruirlo e restituirlo.

Ma come allenarsi allo sguardo nella frenesia delle nostre vite? Come evitare che le preoccupazioni ci sovrastino e ci impediscano di agire?

Credo sia meglio iniziare dal molto vicino e, forse, dal molto piccolo, da una pianta o un cespuglio che facilmente possiamo osservare ogni mattino appena svegli, ma anche più volte nel corso della giornata. Io lo faccio con l’albero bellissimo che cresce davanti alle mie finestre, lo faccio da anni quando sono nella città silenziosa. Quando sono nella Casa delle Parole, la scelta è molto più ampia e quasi sempre scelgo una rosa.

 

 

Ode alla mia piccola rosa

 

Ti ho già vista l’anno passato e

quello prima ancora, mi sembra

di conoscerti, ti saluto. Poi

sfioro i tuoi petali con la punta

delle dita. La tua bellezza mi

sovrasta e mi rallegra, ma

è il tuo profumo, quello che non

posso descrivere, a fare la differenza.

Travolta dai miei sensi, posso

però ritrarti e descriverti, raccontare

come muta il tuo colore al

variare della luce. Siamo solo io

e te nel tempo. In apparenza ogni

anno uguali, in sostanza a ogni

istante diverse, mia piccola, nuova

rosa che fiorisci senza chiederti

mai perché.

 

 

Ecco, la cura del mondo arriva anche attraverso lo sguardo, l’osservazione e la percezione. Adesso posso scrivere questa Cronaca 408 di martedì 20 aprile del secondo anno senza Carnevale, un giorno speciale come ogni giorno.

domenica 18 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/406. La grazia del sonno e il canto della notte

 


 

Imparare la notte non è semplice, è un impegno il cui esito non è scontato. Da bambini conosciamo la notte, abbiamo paura del buio, ma sappiamo abbandonarci al sonno come solo i gatti sanno fare allo stesso modo. La notte e il sogno coincidono, se arrivano gli incubi ci si risveglia di colpo, ma qualcuno si prenderà cura di noi e dei nostri incubi. Le minacce svaniscono con la luce, gli abbracci e le parole dolci confortano. Nei casi più seri occorre un bicchiere di latte tiepido e qualcuno che ci tenga abbracciati per farci riaddormentare.

Nel sonno ridiventiamo tutti vulnerabili come bambini, per questo ci rassicura sapere che qualcuno veglierà su di noi se ne avremo bisogno. Quando ero bambina e vivevo con i miei genitori, era mio padre ad accorrere in caso di incubi, aveva il sonno leggero e arrivava fulmineo a rassicurare. Ricordo i suoi interventi soprattutto perché sono stati rari, il sonno e i sogni erano un momento fondamentale della giornata, non tempo perso o non vissuto, ma tempo denso di significato che ravvivava la vita da svegli, come quando si passa una pennellata supplementare di olio su un dipinto già iniziato. Ricordo dormite fenomenali nell’infanzia e nell’adolescenza, anche dodici ore di fila, ma non ho ne ho nostalgia. Ogni età ha bisogno del suo sonno, così da adulta ho iniziato ad andare a letto sempre più tardi per poter leggere, scrivere e studiare, cosa che faccio ancora oggi. I piccoli riti per convocare il sonno sono sempre gli stessi: una tisana, le ultime chiacchiere con le persone che amo, un profumo gentile di lavanda sul cuscino, un libro che mi piace abbastanza ma non mi appassiona, così non sono costretta a restare sveglia per finirlo. La cura del sonno inizia così, anche quando mi occupo del sonno di altre creature. Penso ai gatti, che dormono anche di giorno con le zampine che gli proteggono gli occhi, che di notte vengono a dormire appollaiati sulla nostra spalla con il musino incollato alla nostra guancia. Dovrei aprire una grandissima digressione adesso, per parlare del sonno degli amanti e degli amati, ma è una dimensione sacra e anche segreta. Mi fermo quindi sulla soglia della camera da letto.

 

 

Quando dormi accanto a me

 

Il tuo sonno è la prima

stella che brilla sull’orizzonte,

una guida sicura per

continuare e non avere paura.

Attraversare la notte e scrivere

parole con la mano sinistra,

appartengono al dominio dei

sogni. Non si può eludere questo

brusco richiamo che ci stacca

dalla nostra veglia. Nostra e di

nessun altro, perché ciascuno

sta sveglio a modo suo e

ciascuno si lascia rapire dal

mondo dei sogni, quel mondo

dove spesso ho avuto la percezione

che quella fosse la vita vera e

l’altra solo una pallida imitazione.

Mentre dormi ti guardo

dormire, respiro il profumo

della tua tempia, sento

il sangue che circola lento, non

occorre l’affanno del mattino

per compiere il proprio dovere.

Dormi allora, amore mio, lascia

che l’Angelo scuota le ali e che

le piume siano soffici e che

il canto della notte sia dolce

quando dormi accanto a me.

 

 

Questa è la Cronaca 406 di domenica 18 aprile del secondo anno senza Carnevale, la sera ha lasciato il passo alla notte e io strofino fiori di lavanda tra le dita e sogno sogni mai sognati.


sabato 17 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/405. Buona notte dolce principe…

Ci sono eventi epocali, che riguardano persone ricche e potenti, che segnano il nostro immaginario e diventano iconiche. Accadde per il matrimonio della giovanissima Diana e poi per la sua morte, è accaduto anche oggi con le esequie del principe Filippo, dove l’immagine della regina seduta da sola e lontana da tutti, una volta di più danno testimonianza e salutano anche la fine di un’epoca, di quel Novecento infinito che solo la pandemia ha spezzato e spinto fuori dalla scena. La fine di un sodalizio, di una vicinanza, di una complicità segnano qualunque essere umano, perché la vita cambia per sempre quando muore qualcuno che amiamo, finiscono le parole, il calore umano, la presenza fisica. Salutare i propri morti con i rituali che appartengono alla religione e alle nostre credenze, è uno dei modi dell’avere cura dell’altro. Per questo è stato straziante l’anno scorso non poter dare degna sepoltura alle centinaia di morti da virus, accade ancora oggi anche se in misura minore. Quando le esequie mancate sono state sostituite dalle file di camion militari che partivano da Bergamo per raggiungere diverse destinazioni, ecco che lo scandalo di queste morti solitarie ci ha investito in tutta la sua drammaticità. Solo i riti collettivi danno un senso al tempo che passa, alle nascite, come alle morti, alla creazione di nuove famiglie, al passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Per questo gli esami di maturità e quelli di laurea hanno ancora senso, perché dichiarano il passaggio di condizione tra un’età e quella successiva. Per questo ci mancano Carnevale, Natale, Pasqua e Capodanno, le vacanze estive, le gite fuori porta nei fine settimana. Ci mancano addirittura anche i piccoli rituali dell’ufficio, dalla pausa caffè alla pausa pranzo, che hanno la loro importanza nella vita quotidiana e che la pandemia ci ha strappato, dandoci nostalgia anche di questi banali momenti della vita quotidiana di cui ci siamo accorti solo non potendoli più praticare.

Oggi che il principe Filippo ha chiuso il cerchio della sua vita terrena, non possiamo che recitare L’eterno riposo, come già facciamo per onorare la morte e la vita di chiunque. Lui ha avuto una vita lunghissima e fortunata, di certo più facile e allegra di miliardi di creature sulla terra. Ma ora è entrato nell’eternità e i suoi cari ne piangeranno l’assenza, e i sudditi britannici la mancanza del simbolo prima ancora che dell’uomo. Ci sarà anche chi ne avrà gioito, come sempre accade quando muore qualcuno di famoso, ma la verità è che tutti vorremo avere una vita così lunga e piena di significato.

Avere cura della vita vuol dire anche avere cura degli anni della vecchiaia, imparare a invecchiare con grazia è una disciplina difficilissima, significa accettare che dietro di noi abbiamo la maggior parte del tempo, significa accettare che siamo creature simili ai fiori, che nascono e muoiono lasciando tracce minimali, significa accettare che la morte e la vita corrono insieme da sempre sul carro del tempo, ma significa anche sentire che la vita è più forte, perché è composta sempre da più attimi e momenti, mentre la morte si esprime una sola volta e poi non esiste più, soppiantata dall’eternità. 

Anche le esequie di mio padre sono state celebrate un 17 aprile come oggi e ogni anno io lo ricordo in maniera particolare. E anche per lui scrivo:

Good night sweet prince, in questa Cronaca 405 di sabato 17 aprile del secondo anno senza Carnevale.
 

venerdì 16 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/404. Cercare la gioia nell’alfabeto del mondo

  


La gioia dei bambini fuori da scuola è un termometro della normalità. Più implacabili di una sveglia, già dalle otto del mattino si affollano davanti all’ingresso e ridono, scherzano, si inseguono. I genitori hanno sempre visi tirati, vanno di fretta, si fermano solo nei bar a prendere un caffè nei tristi bicchierini di carta, in piedi davanti ai negozi, abbastanza distanziati. Le prove di vita quotidiana scivolano in un binario dove tutti vorremmo camminare, macché cambiati per sempre, tutti moriamo di tornare alla vita che facevamo prima della pandemia. O no? Il secondo binario è quello del virus che continua a fare il virus, cioè infettare il più alto numero di ospiti, replicarsi e mutare. Gli ospiti continuano a morire a centinaia ogni giorno qui da noi, a migliaia in altri paesi, come in Brasile. I numeri che ci vengono sciorinati ogni giorno soffrono di una distorsione temporale, e qualche volta anche con lo zampino degli umani che decidono di spalmare i deceduti per fare vedere che le cose stiano andando meglio di quanto non sia in realtà. Il terzo binario è quello dei vaccini, delle case farmaceutiche e dei piani vaccinali che non decollano. Terrore degli effetti collaterali, impegni presi maggiori rispetto alle effettive capacità di produzione, centinaia di migliaia di persone che non si prenotano o rimandano la vaccinazione perché non vogliono fare il vaccino che, sinora, ha avuto il più alto tasso di mortalità. I binari che ho brevemente descritto, ma ce ne sarebbero altri, corrono paralleli e risentono delle narrazioni mediatiche che ce li raccontano come se le cose fossero scollegate tra loro. La verità è il caos cui non riusciamo a dare né ordine né nome, e tutti continuiamo a navigare a vista. Ci sono poi persone come Natalia Aspesi, che sanno vivere nel presente e riescono a goderne anche se ha 92 anni e non sa quanto tempo le resti. È una donna formidabile lei ed è un esempio, per quanto mi riguarda, della capacità di avere cura di se stessi, un altro cammino all’interno dell’Alfabeto della Cura che tutti dovremmo intraprendere. Ha ragione lei, i tempi passati sono passati e lei non li rimpiange “perché non li ho perduti, li ho avuti. Non li ricordo ma ci sono stati e fanno parte anche del mio presente, di quello che sono”, come racconta a Mario Calabresi nell’intervista pubblicata oggi nel podcast Altre/Storie. Il tema della cura di sé è ancora più difficile da trattare di quello della cura degli altri e del mondo. Forse perché ci hanno insegnato, chi ha avuto un’educazione religiosa, che l’abnegazione e gli altri sono dei dettati morali che vengono prima di noi e delle nostre esigenze. Ma dimenticarsi di se stessi è nocivo quanto pensare solo a se stessi. Trovare l’equilibrio tra noi e il mondo è molto difficile, ma è anche il primo passo per imparare ad avere cura di noi stessi, anche con piccoli gesti e azioni nella vita quotidiana che diano un senso al nostro essere al mondo.

 

L’alfabeto del mondo parte con la lettera G

 

Raccolgo una piuma

azzurra, sembra che

il cielo sia stato strappato

e lasciato cadere proprio

per noi. Ritorno a casa,

preparo il caffè, scorro

l’alfabeto del mondo,

sfoglio la lettera G che

inizia con Gioia, la piuma

si agita, è passato quel

vento primaverile che

soffia da lontano, io

resto sospesa tra gli

spazi di questo mattino

e scrivo a voce bassa

queste parole.

 

 

Primo suggerimento dell’Alfabeto della Cura, che è strettamente connesso all’Alfabeto del Mondo: il mattino presto uscire a fare una passeggiata, raccogliere una piuma o un sasso o una foglia. Preparare il caffè, scrivere una poesia, un pensiero o una preghiera.

 

Questa è la Cronaca 404 di venerdì 16 aprile del secondo anno senza Carnevale, un giorno iniziato con gioia, termina con una gioia distesa che ci prepara al sonno notturno.

giovedì 15 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/403. La cura del mondo è un cerchio che danza

 

Cosa significa avere cura del mondo? In parte è impedire che l’azione del tempo offenda la bellezza delle cose e il nostro agire è tutto centrato su questo. Perché noi sentiamo le lacrime delle cose, ne percepiamo il dispiacere quando la bellezza originaria svanisce e, soprattutto, è difficile recuperarla. Io amo molto le cose già usate, quelle che hanno una storia, un passato, che altre mani hanno tenuto, usato e conservato. Amo anche le cose scompagnate, non ho servizi di posate ma quartetti di forchette, coltello, cucchiaio e cucchiaino che arrivano dagli ormai lontani anni Cinquanta del secolo scorso. Erano il campionario di una sorta di cugino calabrese che faceva il rappresentante di casalinghi e, quando aveva cambiato lavoro, aveva lasciato il suo baule in deposito a casa di mia nonna. Mia zia Maria, che detestava le cose vecchie, voleva buttare tutto, ma mia madre e mia nonna paterna salvarono tutto. Insieme a questi quartetti di posate, ce ne sono alcune trafugate dalla casa dei miei genitori e altre comprate nei mercatini. Anche per i piatti e i bicchieri ho partecipato al salvataggio di parecchi oggetti dimenticati e insieme a porcellane di fattura recente, ho piatti bellissimi del servizio buono dei miei genitori, bordato di oro zecchino. Ma non volevo parlare delle mie collezioni incompiute, che vanno a braccetto con la mia passione dei frammenti poetici e letterari, stasera volevo scrivere del senso della cura. Buona parte del lavoro quotidiano, soprattutto quello dedicato alla casa, serve a tenere gli oggetti in buone condizioni e gradevoli all’uso. In una casa curata possiamo vivere meglio, rilassarci, godere della piccola bellezza delle cose di uso quotidiano. Abbiamo poi cura dei giardini, delle piante sui balconi, degli alberi che fiancheggiano le nostre strade, dei monumenti, dei palazzi a partire dalle loro facciate. Il nostro manutenere fa parte di un senso più ampio della cura. Ma la dimensione che più interessa questa cura è quella del tempo, delle azioni e dei pensieri che dedichiamo ai nostri simili. Non sono solo i gesti dedicati alla vita materiale, cucinare, pulire, vestire che pure sono fondamentali, ma soprattutto i gesti e i pensieri che sostengono e accarezzano la fioritura di chi ci sta accanto. Ascoltare, sostenere, incitare, ispirare sono azioni che fanno bene al prossimo e a noi che le compiamo. Si parte sempre in concreto da chi ci sta vicino e poi, per cerchi concentrici, allarghiamo le nostre azioni agli altri ambiti della nostra vita. Il tempo della cura è un tempo donato che viene ripagato, nella cerchia di parenti e amici, con cure contraccambiate e con la gioia della condivisione. L’espressione della cura negli ambiti lavorativi è un'altra dimensione importante della nostra esperienza di vita, un’esperienza orbata e forse cambiata per sempre a causa della pandemia. La vita d’ufficio, l’unica esperienza lavorativa significativa e ormai lunghissima che mi appartiene, nonostante i molti lavori diversi che ho fatto, è una dimensione dove la cura si è espressa attraverso l’arredamento degli spazi con piante e quadri, prima ancora che lo facessero le aziende, ninnoli, libri e penne colorate sulle scrivanie. Piccole attenzioni nei confronti dei colleghi: invitarli a prendere il caffè, uno dei pochi momenti rituali della vita d’ufficio, insieme alla convocazione delle riunioni, che permetteva di scambiare opinioni fuori onda e ridere insieme. Pochi minuti al giorno, ma che facevano bene. Le pause sulle varie piattaforme sono, come dire carine, ma non possono sostituire la ritualità e il profumo di numerosi caffè che si espandeva nell’aria intorno. Avere cura in ufficio significava anche portare brioche per merenda di metà mattina, mele e arance in stagione, bottiglie d’acqua quando i distributori automatici non erano frequenti. E poi il regalo di piante grasse da mettere accanto al computer, di piccoli oggetti di cancelleria e di tazze colorate per il tè. La parte immateriale stava nell’aiutare chi era indietro nella consegna del lavoro, chi era in difficoltà con la tecnologia – mi viene in mente Nicoletta S., una collega talmente maldestra da essere riuscita a far saltare la scheda video del suo pc e la cui caratteristica principale stava nel lamentarsi in continuazione e in continuazione chiedere aiuto per fare qualunque cosa. Se lei è stata l’estremo dell’esperienza della cura, questa dimensione dell’aiuto e dell’ascolto, della solidarietà è fondamentale per rendere piacevole e per dare un senso all’agire quotidiano, anche se tutti, ormai, conosciamo benissimo l’insensatezza della burocrazia e la pesantezza che scarica ogni giorno sia sugli utenti che sui lavoratori. Esserci per gli altri è l’unica cosa che fa la differenza al lavoro, l’unica cosa che dà senso e piacere nel lavorare. Diversissime dalle mie esperienze impiegatizie sono quelle di amici e conoscenti che lavorano nel campo della produzione di beni e servizi e, in questa fase storica, il lavoro durissimo di medici, infermieri e paramedici e di insegnanti e dirigenti scolastici, di psicologi, psicoterapeuti e assistenti sociali. Avere cura degli altri, dei corpi malati, degli spiriti sconfortati, delle giovani menti in formazione di bambini e ragazzi, è l’attività fondamentale che garantisce la continuità della società e il legame sociale. Il legame è la condizione che favorisce le attività di cura e ne è anche una conseguenza. Oltre ai geni e all’ambiente in cui cresciamo, sono i legami e le relazioni che possono rendere la nostra vita un viaggio appassionante o l’anticamera dell’inferno. Chi fa politica, chi fa volontariato, va oltre la dimensione affettiva e lavorativa, perché si occupa e si preoccupa della vasta cerchia degli sconosciuti che compone il resto dell’umanità. Ma non ci si improvvisa in nessuna attività, vanno acquisite le competenze tecniche per ben espletare le attività di cura, di qualunque attività che va riconosciuta e ricompensata se coincide con l’attività lavorativa prevalente. Riconoscere la cura e la dimensione relazionale, ci porta a riconoscere la nostra dipendenza gli uni dagli altri, a rispettare le nostre fragilità e bisogni e sottolinea come la fiducia sia l’altra faccia della cura, un’altra condizione essenziale delle nostre vite.

È un cerchio che danza la cura, un bisogno e un effetto della vita, bisognerà che continui a rifletterci.

Questa Cronaca 403 di giovedì 15 aprile del secondo anno senza Carnevale, è la prima Cronaca della cura, penso che ne seguiranno altre, che altre poesie verranno a prendersi cura delle nostre anime inquiete di giorno e di notte.

giovedì 7 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/60: nessuno, neanche la pioggia ha cosi piccole mani


Desidero la pioggia nelle giornate di sole, anelo la luce quando sulla terra è ombra, le nuvole mi chiamano con la mia stessa voce, come se della medesima materia fossimo impastate.

Vago tra le stanze della casa affollata, sono sola questo pomeriggio perché tutti gli altri avevano da fare in altri luoghi.

I lupi come sempre a correre nella brughiera, a giocare, a rotolarsi tra i fiori.
Il poeta ha trovato un bar aperto nella città silenziosa e si è seduto a scrivere all'unico tavolino, con il sole in faccia e un taccuino nuovo che chiama poesie.

Il re sta cercando la sua regina ai piedi delle Montagne della Nebbia, anche se sa che sarà lei a trovarlo e solo lei potrà tessere quel legame che li ha resi ciò che sono.

La sacerdotessa si occupa dell’anima del mondo, ferito come un animale antico che non ha più la forza di rialzarsi e proseguire.

Stamane mi diceva che ha l’impressione che parte della stampa sia delusa dalla disciplinata paura che le persone mostrano, soprattutto nelle città.

Chi non è obbligato non esce, ma tra quelli che escono e sono costretti a farlo per motivi economici, alcuni aggrediscono altri lavoratori e disprezzano, sputano, strattonano. Come fare per calmarli?

Ci sono altre questioni che gridano scandalo, spietati pluriomicidi scarcerati, i contagi e i morti che non scendono. Perché nemmeno ora, dopo 2 mesi di chiusure e distanziamento sociale sappiamo dove le persone si ammalano, il lavoro che facevano, quanto tempo ci hanno messo a morire? Perché ancora non si riescono a fare tamponi e test per sapere se siamo stati contagiati e non lo sappiamo?

A parte la paura per la nostra stessa morte, che resta sempre un pensiero remoto perché in fondo non ci crediamo che questa realtà sia solo una stanza di passaggio nel Grand Hotel Universo, abbiamo paura per quelli che amiamo.

Si resta orbati e schiantati dal dolore, soprattutto se neanche una semplice cerimonia ci ha permesso un saluto.

La mente ha bisogno di ritmo e forme chiuse, non solo della possibilità di vagare come un dente di leone, ma il nome inglese dandelion è più evocativo perché evoca l’oscillazione del seme prima che il vento lo distacchi dalla pianta madre, una forma chiusa è un saluto in un tempo che ha un inizio e una fine. Quando perdiamo qualcuno che amiamo, parte della nostra anima se ne va insieme a lui o a lei.

In questa infinita clausura possiamo piangere anche persone che non abbiamo mai incontrato, come mi accade per la gentile dottoressa piemontese Riccarda Miriam Giraudi che più volte al giorno postava bellissime poesie tradotte accanto ai testi originali, fotografie di fiori, gatti e mare della Grecia. Se il diabolico algoritmo di Facebook non mi proponeva i suoi post era diventata un’abitudine andare a cercarli sulla sua pagina. E poi, lunedì nello sgomento di chi le voleva bene, lei è mancata all’improvviso. In centinaia abbiamo scritto qualche parola di dolore e rimpianto nei commenti e sempre il diabolico algoritmo adesso mi propone post che non avevo “mipiacciato”.

Così continuo il mio vagabondaggio e le mie litanie interiori, le mie preghiere che prendono forma di poesie e vorrei che qualche piccola ferita dell’anima del mondo piano piano cominciasse a guarire.

Non posso dire a nessuno vieni, non temere andrà tutto bene, non lo so proprio come andrà, ma il bene ha bisogno dell’impegno di ciascuno, non può accadere così come accade il male, per malvagità o disattenzione.

Il bene ha bisogno della grazia e dell’attenzione così come scrive, dopo averlo detto in una bellissima conferenza, l’amico poeta Lorenzo Gobbi:

“Grazia: mistero di benevolenza, sorriso del mondo nella concretezza dei giorni, gratuità immeritata di cui essere grati, cortesia dell’essere, mondo che non usa con noi il potere (che conserva intatto) ma la gentilezza. Il poeta che si trova ad essere letto e amato, ad esempio, sa perfettamente, se è attento, di essere bravo e di avere molto lavorato e sacrificato, di avere molto pagato per ogni parola che ha scritto; ma sa anche, sempre se è attento, che nulla gli era dovuto, e che la stima e l’amore non si possono conquistare ma solo ricevere in dono, perché dipendono dalla libera volontà - e che non c’è forza alcuna che li possa carpire, neanche quando nulla sarebbe più giusto di quella stima e di quell'amore, che sempre possono essere
negati. Ne nasce una libertà interiore inestimabile: nessun rancore per chi non ama e non stima; nessuna smania di essere stimato e amato; stupore e gratitudine per il fatto di esserlo; gioia pienamente assaporata”.

Grazia, gioia, attenzione, gentilezza sono parole che fanno parte dell’Alfabeto della Cura.

Lunga o breve che sia la strada che ci è stata destinata, possiamo scegliere di essere parte del bene del mondo, di essere un’anima ferita che dal proprio dolore può curare altri dolori.

Ascolto ancora un po’ la sacerdotessa che canta in una lingua che non conosco.

Pare che nessuno abbia voglia di rientrare in casa, la giornata è troppo bella per non respirare ogni aroma e ogni alito di vento.

Così posso rientrare, godere del silenzio, della solitudine, aspettare con trepidazione che gli ospiti rientrino e scegliere una poesia d’amore per congedarmi.

L’amore ha sempre tante domande per gli esseri amati.

Ma l’amore sa di essere l’unica risposta.


Il tuo più tenue sguardo
Il tuo più tenue sguardo
facilmente
mi aprirà
benché abbia chiuso me stesso
come dita sempre mi apri
petalo per petalo
come la primavera fa
toccando accortamente
misteriosamente
la sua prima rosa
e io non so
quello che c’è in te
che chiude e apre
solo qualcosa in me
comprende
che è più profonda
la voce dei tuoi occhi
di tutte le rose
nessuno
neanche la pioggia
ha così piccole mani.


Questa traduzione ridotta è tratta dal film di Woody Allen Hannah e le sue sorelle, che è il mio preferito in assoluto.

Di seguito la traduzione completa e la versione originale.


Là dove non sono mai stato, piacevolmente oltre

là dove non sono mai stato, piacevolmente oltre
ogni esperienza, i tuoi occhi hanno il loro silenzio:
nel tuo gesto più delicato ci sono cose che m’imprigionano,
o che non posso toccare perché mi sono troppo vicine
il tuo sguardo più insignificante facilmente mi schiude
sebbene io mi sia chiuso come le dita di una mano,
tu mi apri sempre facilmente petalo per petalo come la Primavera apre
(sfiorando abilmente, misteriosamente) la sua prima rosa
o se il tuo desiderio sia chiudermi, io e
la mia vita ci chiuderemo di scatto meravigliosamente, improvvisamente,
come quando il cuore di questo fiore s’immagina
la neve scendere con cautela ovunque;
niente di tutto ciò che sperimenteremo in questo mondo è pari
alla forza della tua intensa delicatezza: la cui trama
mi costringe nel colore delle sue terre,
rendendo omaggio alla morte e al per sempre ad ogni fiato
(non so cosa sia di te che chiude
e apre; solo qualcosa mi dice
che la voce dei tuoi occhi è più profonda di tutte le rose)
nessuno, nemmeno la pioggia, ha mani tanto piccole
(trad. L. D’Incà)

Somewhere I have never travelled, gladly beyond
somewhere I have never travelled, gladly beyond
any experience, your eyes have their silence:
in your most frail gesture are things which enclose me,
or which I cannot touch because they are too near
your slightest look will easily unclose me
though I have closed myself as fingers,
you open always petal by petal myself as Spring opens
(touching skilfully, mysteriously) her first rose
or if your wish be to close me, I and
my life will shut very beautifully, suddenly,
as when the heart of this flower imagines
the snow carefully everywhere descending;
nothing which we are to perceive in this world equals
the power of your intense fragility: whose texture
compels me with the color of its countries,
rendering death and forever with each breathing
(I do not know what it is about you that closes
and opens; only something in me understands
the voice of your eyes is deeper than all roses)
nobody, not even the rain, has such small hands
Edward Estlin Cummings
From Complete Poems: 1904-1962, edited by George J. Firmage