mercoledì 31 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/388. L’arcipelago quotidiano dove le isole sono alberi e libri

 



Il viaggio inizia ogni mattina quando la luce è solo un presentimento. Quando apro gli occhi, si oscura il mondo dei sogni e il corpo ritrova tutto il suo peso, la gravità mi colloca in un sopra e un sotto, l’illuminazione notturna della strada, tinge di colori polverosi tutti gli oggetti intorno.

È un viaggio che non ha una sola meta, la notte che tornerà, è un viaggio indeciso tra i rituali quotidiani, una doccia tiepida, un caffè bollente, il lavoro che è rimasto tutta la notte sulla scrivania e non si è concluso grazie a un miracolo o all’opera dei folletti.

Dall’arcipelago notturno, dove ritorno per qualche istante dopo il caffè, mi strappa la luce che irrompe insieme al canto degli uccellini. Un tempo, nelle vie intorno, era tutto un cantare dalla notte sino a giorno inoltrato, il bosco spontaneo, nato sulle rovine della fabbrica De Angeli – Frua, è stato abbattuto proprio trent’anni fa durante un blitz ferragostano mal riuscito e bloccato grazie a una contessa la cui dimora si affacciava proprio su quel luogo incantato. Il quartiere insorse, il progetto del silos per auto con tre piani interrati e sette piani sopraelevati non andò avanti, ma lo scempio del bosco era compiuto. Gli uccellini erano poi ritornati, insieme a molti piccioni che amavano soggiornare sui davanzali delle finestre. Poi ci furono estati feroci e umide, seguite da inverni spietati e la maggior parte di uccelli sparì dal cielo e dagli alberi. Arrivarono poi le cornacchie, la cui voce mi mette i brividi, ma negli ultimi due anni sono sparite pure loro e prima dell’alba ho ricominciato a sentire canti solitari che mi rallegrano. Un tempo, d’estate, mi sdraiavo sul divano che è davanti alla finestra e aspettavo il sorgere del sole e il soggiorno diventava l’arcipelago diurno dove iniziare a tessere le storie. Al posto del silos, incubo metropolitano, qualche altro costruttore geniale, pensò di costruire, anche in questo caso in agosto durante il periodo di ferie, un palazzotto con grandi lucernari per aprirvi un ristorante. La mala abitudine di iniziare i lavori senza permessi, fece sì che i bei muri di mattoni rossi che erano l’ultima rovina della maestosa fabbrica di filati e tessuti, vennero ridotti di oltre la metà e completati con delle inferriate. Solo la cancellata che segnava l’ingresso degli operai rimase intatta e anche gli alberi pluridecennali che segnavano il confine non vennero più toccati. Alla fine il Comune concesse la costruzione di box sotterranei, non di parcheggi, l’allestimento di un modesto, ma gradevole giardinetto con i giochi per i bambini e, la cosa migliore realizzata, la cessione del palazzotto per farne la biblioteca di quartiere, la Biblioteca Sicilia, dal nome della piazza su cui si affaccia il piccolo giardino. Così non ho più avuto gli alberi e le loro foglie, ma libri e libri da sfogliare e prendere in prestito. Nella piccola biblioteca c’erano anche dei comodi tavoli da lavoro dove ho trascorso tante belle ore a studiare e prendere appunti.

Da quando è scoppiata la pandemia non ci si può più fermare a leggere, ma il luogo è comunque un’isola del mio arcipelago quotidiano dove approdo abbastanza spesso.

Il resto del viaggio, o della navigazione, avviene nelle vie del quartiere, dove i passi si espandono in cerchi concentrici e i particolari architettonici delle case si arricchiscono nella memoria. Quando mi stanco di girovagare tra strade e libri, allora me ne torno nella terra delle Montagne della Nebbia e da lì posso andare dove mi pare.

Ogni giorno diventa così un viaggio più o meno incerto e più o meno riuscito. Quel che non è accaduto oggi, potrà accadere domani o domani l’altro. L’importante è non smettere di viaggiare mai con l’immaginazione.

Oggi è mercoledì 31 marzo del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 388, narrativa e non poetica, perché in certi giorni svagati, come oggi, la poesia va covata e la Musa corteggiata.

martedì 30 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/387. Ricordi di altre vite che non sono la mia

 



La bambina correva ai margini del campo, gli ulivi erano un oceano d’argento e i mandorli bianchi e rosa, soffici e immensi quanto le nuvole nel cielo. Ogni tanto saltava la bambina, e le sembrava di toccare il punto più alto nella volta celeste e saltando perdeva i fiocchi dalle trecce e il piccolo annaffiatoio di metallo smaltato, ruzzolava lungo la discesa verso il canale di irrigazione. Quando arrivò al pozzo lo riempì e tornò indietro fino al piccolo recinto dove aveva trapiantato i garofanini che tanto le piacevano. Finito di innaffiare andò a sedersi sotto un mandorlo e lasciò che l’aria profumata la inebriasse, che il ronzio delle api e dei bombi sovrastasse i pensieri e che il mondo intero andasse a rifugiarsi con lei sotto i rami fioriti. Aprì poi il fazzoletto che le aveva dato mamma e la focaccia con i pomodorini, sfornata quella mattina stessa, sprigionò l’aroma familiare e si fece divorare a bocconi piccoli e sistematici. Sapeva, la bambina, che dopo la bellezza dei fiori ci sarebbe stata la bontà dei frutti, sapeva che avrebbe aiutato a sgusciarli e che l’avrebbero pagata. Ma non c’era niente di più bello della fioritura dei mandorli e così pensando sapeva che avrebbe voluto restare là sotto per sempre, che forse, un giorno, avrebbe raccontato a sua figlia quel momento e allora sarebbero state in due a conoscere quel segreto della fioritura dei mandorli e della bellezza che muore per diventare nutrimento.

 

Il bambino uscì da casa della nonna con il cavalletto in spalla e la cassetta dei colori, enorme e spropositata rispetto alla sua magrezza, salda nella mano. A casa si era esercitato tantissimo, copiava e ricopiava i quadri dello zio Peppe e anche i disegni. Ma era arrivato, finalmente, il momento di una prova dal vero. Lo zio diceva che era divertente ma non necessario. Chi aveva occhio, e un bravo pittore lo aveva, non aveva davvero bisogno di guardare le cose e il mondo in natura, gli bastava guardare attraverso lo sguardo di un altro pittore. Per questo lui era così bravo a copiare Van Gogh e non solo. Ma il bambino, che era quasi un ragazzino ormai, aveva deciso di mettere alla prova le teorie dello zio, l’unico che lo capisse in casa, e andare nel campo di grano a dipingere, non da lontano, ma proprio da dentro. E così fece, e dipinse le spighe come Vincent non le aveva forse mai neanche viste. Ma, mano a mano, che lo sguardo si allontanava e le spighe rimpicciolivano, ecco che il miracolo si compì, quando dei corvi gracchianti spiccarono in volo e sovrastarono ogni altra voce. I grandi corvi erano vasti come le spighe, come il canto delle cicale, come quell’estate che iniziava ogni mattina e non finiva mai. Pensò al campo dipinto dallo zio e a quello dipinto dal pittore famoso ma morto da solo. Guardò il proprio quadro e vide qualcosa di diverso ancora, capì in quel momento la potenza dello sguardo e che il mondo sarebbe cambiato a ogni minima variazione della luce. Così si lasciò andare in mezzo alle spighe alte che lo circondavano e guardò il cielo sino a quando creature velate andarono a occupargli la pupilla e gli sussurrarono la verità del mondo oscuro che risplendeva sotto le spighe. Aveva voce quel mondo e lui rispose con un sussurro e un verso.

 

Un altro bambino smise di copiare le lettere dal sussidiario e sospirò, pensando che la scuola non sarebbe cominciata prima di tre mesi ancora. Mise nella bisaccia una mezza pitta, olive schiacciate condite con finocchio selvatico e peperoncino, formaggio di pecora. I cartoccetti erano nuovi, perché era il primo giorno che sarebbe andato a governare le pecore da solo, ai piedi delle colline e lontano dal fiume, per non rischiare che gli agnelli scivolassero nell’acqua. Sua madre era già fuori che stendeva il bucato insieme alla sua sorellina, gli altri due fratelli si dondolavano sull’altalena e la madre disse loro di andare a raccogliere i pomodori nell’orto, prima che il caldo fosse troppo alto. Gli disse di seguire i fratelli e di scegliersi un paio di pomodori maturi per la giornata. Poi andò al pozzo a riempire la borraccia e gliela porse perché la riponesse insieme al cibo. La bisaccia era più pesante di quanto non sembrasse, ma la madre non sapeva perché, il bambino aveva preso anche il libro di scuola e il lapis, perché voleva continuare gli esercizi di lettura. Si incamminò spingendo le pecorelle insieme al suo cane Nerone e alla giumenta Ofelia che era gravida e forse avrebbe potuto avere un cavallino tutto per sé, se la mamma avesse deciso di non venderlo. Quando arrivò al capanno lasciò che le pecore andassero a brucare dove l’erba era verde grazie all’acqua che sfuggiva alla fontana. Gli sarebbe piaciuto abitare laggiù, vicino all’acqua che scorreva, anziché dover faticare per raccoglierla dal pozzo. Forse un giorno, al posto del capanno, ci sarebbe stata una casa con un grande orto, i campi di grano sul retro, i fichi e le querce tutto intorno. I loro campi sarebbero arrivati sino alla grande quercia, forse anche più in là sino al fiume di cui riusciva a distinguere la voce in quel momento, perché il canto delle cicale era ancora sommesso.

 

Ci sono giorni in cui altre voci arrivano a visitarmi, immagini di paesaggi che non ho mai visto mi si affacciano alla mente, altri desideri e altri sogni, altri ricordi che non mi appartengono, si consegnano alla mia voce e alla mia penna e io li restituisco al mondo in questa Cronaca 387 di martedì 30 marzo 2021, il secondo anno senza Carnevale.

lunedì 29 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/386. Dopo la primavera aspettiamo la seconda primavera, una nuova fioritura

 



Nella penombra la stanza potrebbe essere un giardino, gli scuri lasciano filtrare la luce dorata del mattino, pochi i rumori in strada, per questo sento il canto degli uccellini, ma non quello delle rondini.

Aspetto con più impazienza la primavera ogni anno che passa, forse perché so che sono sempre meno quelle a cui potrò assistere, un pensiero fugace ma presente, non doloroso, perché è una pura constatazione.

Quello che a ogni stagione appena iniziata, tra marzo e aprile, mi fa disperare ogni volta, sono i cambi repentini di tempo, per cui a giornate tiepide e deliziose, punteggiate dai fiori neonati e dai germogli, seguono acquazzoni, tempeste di vento e il risultato è sempre lo stesso: pozzanghere che riflettono il cielo color antracite e i petali strappati che galleggiano nell’acqua e sono riflesso delle speranze cadute una dopo l’altra.

Contemplare la natura è una delle più grandi consolazioni di quest’epoca di pandemia e mi ritrovo a raccogliere foglie e sassi come ho iniziato a fare da bambina, prima ancora di saper leggere e scrivere.

Forse la prima lingua che abbiamo imparato è proprio quella degli alberi e dei rami, del loro netto stagliarsi contro la volta chiara del cielo, dipinti su una carta di riso sottile con pennelli giapponesi, dalla mano invisibile che colora a ogni risveglio il mondo, prima che noi apriamo gli occhi.

La lingua della pioggia è più complicata, perché ha varianti e dialetti che dipendono dall’intreccio con le nuvole, figlie capricciose del vento e del cielo, figlie di due padri celesti e di una madre terra che parla, invece, la lingua scura del fango e del fuoco e svela la sua gemella silenziosa che lavora all’ombra del vulcano sepolto.

Questa mitologia ctonia nasceva nel mio teatro mentale mescolata agli antichi miti greci, la cui narrazione paterna ha accompagnato la mia infanzia.

 

 

Persefone non era figlia unica

 

Gira, sorella il foglio che

hai in mano, lascia che io

guardi il mondo di sopra,

lo sa nostra madre che sono

ancora prigioniera? Che Ade

scherza quando lascia che

tu vada? Ma come potrebbe

lei, la madre, conoscermi

quando sono stata strappata

al suo grembo e condotta

dal vecchio fabbro nel silenzio

delle ancelle e nella rabbia

del re? Lei non ricorda che

siamo due perché non lo ha

mai saputo, non conosce

il patto scellerato che l’ha

orbata di entrambe le figlie.

E ora il re non può rivelare,

pena nuove carestie e siccità,

alla sua amante che il suo

grembo fu fertile due volte,

ma il re degli Inferi ancora

più astuto di tutti gli dei.

Io aspetto solo che tu mi

raggiunga nella stagione

scura, ma se non arrivi

presto, sorella, io fuggirò

e non so cosa accadrà

dopo. Se sarà la primavera

a fiorire due volte, o l’autunno

ancora più gonfio di acque

morte e foglie ingiallite, a

costringere il mondo nei suoi

colori del tempo che è stato.

Ecco che sei partita, principessa

dei germogli, regina di tutte

le rose. Ti seguirò questa volta

perché i tempi hanno bisogno

di una doppia speranza e della

seconda fioritura, gemella di

quella che abbiamo appena

veduto.

 

Così abbiamo scoperto perché la primavera di quest’anno è doppia, doppia la fioritura, doppia la speranza. E anche in cielo pare che siano due gli astri che splendono e i mari si acquietano, accolgono la luna e cullano la luce orfana delle stelle e noi siamo vicini a questa seconda nascita, a questa primavera inarrestabile e invincibile come l’estate che ci portiamo dentro.

Oggi è un lunedì mitologico, il 29 marzo del secondo anno senza Carnevale dove ho conosciuto la gemella di Persefone ma non ho ancora scoperto il suo vero nome. Questa Cronaca 386 è madrina delle gemelle di Demetra, ancora non so quali saranno gli effetti della doppia primavera, forse la pandemia sta scomparendo, forse il virus si sarà stancato e scomparirà, forse domani usciremo e l’aria avrà di nuovo il suo profumo.

domenica 28 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/385. Scrivere prosa con gli strumenti della poesia: Virginia lo sapeva fare

 


 

Impossibile non pensare a Virginia Woolf oggi, sono ottanta anni giusti dal giorno in cui, a 59 anni compiuti da poco più di due mesi, si uccise calandosi nelle acque gelide del fiume Ouse nel Sussex, vicino alla sua residenza di Monk’s House. I suoi ultimi testimoni di questa realtà furono alberi e pietre.

 

Canto dell’albero mutilato

 

Eravamo fermi sulla riva, da anni

nello stesso posto. L’abbiamo

vista scendere, raccogliere pietre,

l’abbiamo vista camminare fino

al centro dell’acqua. I sassi

gridavano, sapevano che li

avrebbero giudicati colpevoli,

come siamo colpevoli noi che

non abbiamo avuto neanche

la forza di cercare un vento così

forte da trascinarla indietro.

Verremo ricordati come i suoi

ultimi testimoni, noi che non

potevamo gridare, vi diciamo

adesso addio e a lei diciamo

grazie per averci resi immortali

nel suo ultimo sguardo terreno.

La volta del cielo l’ha accolta mentre

questo mio canto mutilato nasce

dalla sua grazia e dal suo pensiero.

 

 

In tutto il mondo sono in corso celebrazioni woolfiane, chissà se lei immaginasse l’eco profonda e inarrestabile che i suoi libri avrebbero prodotto nei tempi futuri.

Amo incondizionatamente ogni cosa che ha scritto a partire dal Diario di una scrittrice nell’edizione Oscar Mondadori con la sua più celebre fotografia in copertina. Il libro era di proprietà del dottor Gherardo P., e suo fratello Giorgio me lo prestò, una sera che eravamo a cena a casa dell’incauto dottore che era in viaggio in Medio Oriente, forse in Afghanistan, insieme a Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse. Per vicissitudini estranee a questa Cronaca, i due libri rimasero in mio possesso e lo sono tutt’ora.

Amo la scrittura di Virginia Woolf perché lei è riuscita a scrivere prosa con le tecniche e gli strumenti della poesia. Metafore e similitudini zampillano nei suoi scritti a ogni pagina e da questa forza immaginativa, mi sono sempre lasciata incantare. Non voglio fermarmi a questo triste anniversario, alla sua lapide dove è incisa la frase «Le onde si infrangevano sulla spiaggia» o «le onde si ruppero a riva», come ha scritto Nadia Fusini nella sua nuova traduzione che chiude il suo celebre romanzo. Voglio iniziare a  pensare al 2022, quando saranno trascorsi 140 anni dalla sua nascita, voglio pensare all’incontro con Sigmund Freud, a Londra nel 1939, quando lui le regalò un narciso per accomiatarsi e lei scrisse nel suo diario: «Cominciato a leggere Freud ieri sera; per ampliare la circonferenza: dare al mio cervello un più vasto raggio: renderlo obiettivo: uscire da me stessa. E sconfiggere così il restringimento della vecchiaia»

Così, per chiudere questa breve Cronaca 385 di domenica 28 marzo del secondo anno senza Carnevale, vi invito a leggere anche il profilo biografico di Virginia Woolf che ho scritto per l’Enciclopedia delle donne.

sabato 27 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/384. Non smettere di guardare, il blu è negli occhi prima che nel cielo

 



Per attirare la primavera disegno fiori, per sedurre le rondini continuo a guardare il cielo, per vivere nelle parole e scrivere, vivo nelle parole e leggo.

 

Oggi è stata una giornata molto letteraria, questa mattina ho assistito a una lezione organizzata dalla Scuola del Viaggio con Stefano Faravelli e la sua Via del Taccuino di Viaggio. Un respiro grande e luoghi lontani, il Madagascar, l’Egitto, il Marocco, e frammenti del mondo, intonaco rosso di Marrakech, foglie, buste, antichi manoscritti e pelle di serpente che entrano nei taccuini del viaggiatore insieme ai suoi scritti, ma soprattutto ai suoi disegni. Sono state tre ore di grande bellezza e di incanto che mi hanno portato via dal mio orizzonte domestico che, per quanto amato, è sempre lo stesso da più di un anno.

Il pomeriggio l’ho poi trascorso leggendo il romanzo Blu di Giorgia Tribuiani, or ora pubblicato da Fazi. In questo libro il paesaggio che andiamo scoprendo è quello di una ragazzina alle prese con la sua vocazione d’artista, non scriverò altro per ora, perché voglio farlo con calma. All’inizio della sera Giorgia ha presentato il libro con Simone Salomoni alla Confraternita dell’uva – Libreria Café e Wine Bar. È stato un vero piacere ascoltarli ed entrare con loro nel labirintico andamento di questo bel libro che svela quanto l’ossessione sia una condizione necessaria alla nascita di un’opera d’arte.

 

 

Sii tu stessa la prima opera d’arte

(per Giorgia Tribuiani)

 

Apri la mano, gira il palmo,

arriverà così la rondine? Non

smettere di guardare, il blu

è negli occhi prima che nel

cielo, senti come arrivano

le parole? Ti fidi di questo

flusso che non conosce né

argini né rive? Scegli dove

fermarti, scegli lo strumento,

poi scrivi, dipingi o scolpisci,

entra nella vasca e sii tu

stessa l’opera d’arte che

stavi cercando.

 

 

Com’è ricca la vita trascorsa anche solo nei libri e in mezzo alle parole, com’è ancora più ricca quando possiamo trascorrerla con gli amici e con chi ama i libri e l’arte come noi.

 

Oggi è sabato 27 marzo del secondo anno senza Carnevale. La poesia è nata da pochi minuti proprio per questa Cronaca 384.

venerdì 26 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/383. Ho sentito il profumo dell’erica e della palude, ma ero solo io che attraversavo la piazza per ritornare verso casa

 



Il cielo può essere nero come l’inchiostro, grigio come la noia, azzurro come il mare, rosso come le ciliegie, arancione come le arance, azzurro e verde come i tuoi occhi.

Non essere mai davvero solo chi si è, ma assomigliare a qualcun altro, ricordare qualcosa d’altro. Anche noi creature umane portiamo nei tratti del volto, nei corpi, nei gesti, tracce di chi ci ha preceduto, della nostra stirpe e delle nostre ascendenze. Ed è emozionante quando arriviamo a scoprire a quale antenato assomigliamo: a me è accaduto quando ho ritrovato, grazie a una vecchia fotografia, la forma delle mie mani in quelle di mio nonno materno. E poi il naso di mio padre, la bocca di mia madre, i capelli di mio padre, le spalle di mia madre… tutti noi possiamo fare questi elenchi e ritrovare i frammenti che hanno fatto di noi un intero.

 

Il canto delle ripetizioni

 

Un cielo è memoria di tutti

i cieli che abbiamo veduto,

ogni onda non è che ripetizione

di quelle che l’hanno preceduta,

il vento è una teoria di venti e

le stagioni, imploriamo sempre

che assomiglino a se stesse e

ci rinnovino i fiori in primavera,

i frutti in estate, le castagne

d’autunno e la neve in inverno.

Le ripetizioni sono la certezza

che la vita prosegue, che siamo

tutti insieme in questa tessitura

circolare, dove sopra e sotto

hanno senso solo quando siamo

svegli. Ma è nel mondo molteplice

e capovolto dei sogni che l’acqua

scorrerà all’indietro e il tempo

sarà soltanto quel bambino che

gioca in riva al mare.

 

Siamo abitati dai ricordi e posseduti dalle passioni, siamo mondo in una forma chiusa e siamo sogni non ancora sognati. Oggi il cielo è diventato grigio in una manciata di secondi, qui nella città silenziosa, e io mi sono ritrovata a camminare in una brughiera d’Irlanda, tanti e tanti anni fa. Ho sentito il profumo dell’erica e della palude, ma ero solo io che attraversavo la piazza per ritornare verso casa.

Oggi è venerdì 26 marzo del secondo anno senza Carnevale. Il canto delle ripetizioni è una poesia inedita che ho scritto per questa Cronaca 383.

giovedì 25 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/382. Ogni cammino non è che un ritorno, una brace accesa sotto le ceneri

 



Quello che resta non rappresenta mai l’intenzione del suo creatore. La forma compiuta e l’immortalità sono lo scopo perseguito, ma di rado, molto di rado, qualcosa resterà davvero.

Restano i palazzi, le sculture, i dipinti e gli oggetti, i libri pubblicati. Dei libri non finiti, delle cancellazioni, verremo a conoscenza solo se l’autore avrà pubblicato altro e il suo archivio sarà, così, di interesse comune.

Le storie che noi siamo cercano, giorno dopo giorno, di trovare una direzione e un senso. Viene prima la direzione, l’orizzonte, la stella polare. Il senso, in tutti i sensi, viene dopo ed è frutto della retrospettiva, dello sguardo all’indietro che fu la rovina di Euridice e la gloria di Orfeo. Non scriviamo mai del dolore che stiamo provando, perché l’atto dello scrivere ha già strappato all’oblio quel che abbiamo sentito.

La scrittura muta la percezione del dolore e di ogni ricordo, perché interviene e cesella su ogni istante e offre quella luce e la sua ombra alla nostra tessitura. Negli intrecci non ancora terminati volano le rondini che stanno tornando e così vediamo che ogni cammino non è che un ritorno, una brace accesa sotto le ceneri.

 

Invocazione alla rondine

Apri le ali e segui il vento,

non temere le nuvole, non

tornare indietro, segui ogni

istinto che ti arrovella nel

sangue, segui il caldo che

ti chiama ad alta voce e

ripara il nido, accogli la tua

prole e sii pronta quando

l’estate chiederà il tributo

e l’autunno accorcerà ogni

fiamma e un’altra estate

ti chiamerà al riposo, oltre

quel mare che per noi è

solo un sentimento.

Sono giorni che sto scrutando il cielo, ma le rondini non sono tornate. È ancora troppo fredda la stagione e corta la luce. Se non possono scrivere i nostri cieli, le rondini non torneranno, non ancora. Io ripongo la pagina bianca e aspetto.

Oggi è giovedì 25 marzo del secondo anno senza Carnevale, Invocazione alla rondine l’ho scritta per questa Cronaca 382.

mercoledì 24 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/381. L’intenzione, l’opera, un’immagine e quello che ne rimane



Voglio scegliere una scultura come simbolo di questa pandemia, ci penso, sfoglio vecchi cataloghi e immagini su Internet e poi è la Pietà Rondanini di Michelangelo, conservata a Milano nel Museo del Castello Sforzesco, che mi strappa una volta di più gli occhi e il cuore.

Le figure sono appena accennate, ancora imprigionate nel marmo opaco e niente hanno della magnifica opulenza della ben più nota Pietà conservata in Vaticano, scolpita da Michelangelo tra i ventidue e i ventiquattro anni, l’opera di un genio senza dubbio.

Ma la Pietà Rondanini, frutto dell’opera di un vecchio che ci lavora e lavora sino alla morte, è straziante proprio perché incompiuta, perché il corpo della madre e il corpo del figlio sono ancora un tutt’uno nella stessa materia, come prima della nascita del Cristo.

A partire da quest’opera mi sono chiesta se amo di più l’incompiuto, il mai finito, il frammento incompleto o se mi attraggano di più le rovine, le statue senza braccia, i busti senza testa. Nel primo caso possiamo contemplare soprattutto le intenzioni dell’artista, nel secondo quello che il tempo non ha sbriciolato dell’opera e delle intenzioni. In entrambi i casi possiamo fantasticare intorno alla figura intera che non conosceremo mai.

Il morire, la morte, un verbo e un sostantivo che avevamo espunto dalla nostra lingua quotidiana per relegarli nei film e nei videogiochi, si sono riappropriati della nostra narrazione e ci costringono a fare i conti con la pandemia e con quanto stiamo facendo, o non facendo, delle nostre vite.

A causa del virus si sono ammalate e sono morte moltissime persone che ho conosciuto: ex-colleghi, genitori di amici e conoscenti, amici d’infanzia. Tra loro l’ultimo è stato Don Antonio Attanasio, mio coetaneo; frequentavamo la stessa parrocchia e lo stesso oratorio, le stesse scuole da bambini. Lui aveva cercato di insegnarmi a suonare la chitarra, con scarsi risultati visto il mio orecchio latitante. Me lo ricordo molto bene quando suonava e quando cantava, mi ricordo le conversazioni, la sua profonda spiritualità e la vocazione precoce. Nel tempo ci eravamo persi di vista, come spesso accade, ma il sapere della sua morte mi ha addolorato. Non so se sua madre sia ancora viva, ma posso immaginarla aggrappata a quel figlio non più carne viva, ma simbolo del sacrificio.

In questo momento siamo tutti opere incompiute, opere senza intenzione e senza autore. Alcuni tra noi, quelli che sono già mancati in questi quattordici mesi, quelli che cadranno sotto gli attacchi del virus prima che la campagna vaccinale sia efficace, resteranno tali per sempre. Certo anche prima morivano centinaia di persone al giorno per le più svariate cause, anche oggi non ci sono solo i morti a causa del virus, ma oggi stiamo affrontando un evento collettivo ed epocale, un trauma le cui conseguenze a livello psicologico, emergeranno con il tempo. La maggior parte tra noi ricomincerà a breve a progettare, a costruire la propria vita, a pianificare il futuro, perché questa è la nostra natura, uno slancio continuo verso il futuro.

 

Per noi che siamo forma e spazio

 

Non scegliamo il marmo, non

scegliamo né il basamento, né

lo scalpello, solo la forma e

l’intenzione sono frutto della

nostra volontà e del nostro

ingegno. Per questo vale sempre

la pena di iniziare l’opera, anche

se del marmo fatichiamo a intuire

le venature profonde e una rottura

improvvisa potrebbe impedirci di

terminare e di girare intorno per

guardare e sentire che siamo forma

e spazio, non solo tempo che ci

attraversa e frantuma.

 

Questa poesia inedita e scritta oggi pomeriggio, la dedico al mio amico poeta Danilo Bramati: la preferenza della scultura alla pittura “perché possiamo girarci intorno” è sua. Il suo sguardo mi ha fatto scoprire proprio la consistenza della materia e la consistenza della poesia: un’opera cui possiamo lavorare intorno e sopra e sotto sino a quando non ne potremo più. Come Michelangelo immaginava nel blocco di marmo la statua e poteva affermare che la sua opera avveniva “per forza di levare”, così il poeta immagina nell’invisibile i versi e li trascina in questa realtà per farli risuonare. Ma sempre mi chiedo: viene prima l’immagine o prima il suono? E il ritmo è solo suono o anche perfetta forma geometrica? Penso, ci penserò ancora, e con questi pensieri torno a sedermi davanti al mio camino nella Casa delle Parole, la mia casa.

Questa è la Cronaca 381 di martedì 24 marzo 2021, secondo anno senza Carnevale.


 

martedì 23 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/380. Dacci la meraviglia e una fiamma, alta, chiara

 



E così ha lasciato questa realtà anche uno dei suoi più grandi cantori, il poeta Adam Zagajewski, dopo Jaccottet scompare uno dei grandi poeti, uno dei più importanti nella mia vita da lettrice.

 

Una poesia e una foglia

 

Come foglie d’autunno anche

i poeti, è sempre la stagione che

sceglie il momento, non il desiderio.

Un poeta è solo una foglia che ha

sentito il ramo e la radice con la stessa

intensità. E più felice si è abbandonato

alla caduta. Non sentite come nel vento

stormiscono le foglie, anche se la stagione

non è ancora arrivata?

 

 

Ecco che ho poche parole stasera, ho parlato a lungo delle scrittrici Irène Némirovsky e Agota Kristof per l’ultimo incontro con l’Associazione Apriti Cielo e adesso ho bisogno di stare nelle parole e di non scrivere altro.

 

La fiamma

 Signore Iddio, dacci un lungo inverno,

una musica sommessa, labbra pazienti,

e un po’ d’orgoglio - prima

che finisca il nostro tempo.

Dacci la meraviglia

e una fiamma, alta, chiara.

 

Ho chiuso questa Cronaca 380 di martedì 23 marzo del secondo anno senza Carnevale con una poesia di Adam Zagajewski tratta dalla raccolta Dalla vita degli oggetti, a cura di Krystyna Jaworska, Adelphi 2012. Una poesia e una foglia l’ho scritta in memoria di Zagajewski e Jaccottet.

lunedì 22 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/379. Cantare nell’ombra la vita nuova

 

 


Quando sei una ghianda e rotoli via dalla pianta madre, ancora non sai se diventerai una quercia o mangime per gli animali o farina per gli umani.

Poi dopo un po’ senti le radici che affondano nella terra e i primi minuscoli rami che premono per toccare il cielo. È con le radici che senti, non troppo lontano da te, che un albero gemello sta seguendo il tuo stesso percorso, senti la stessa fretta e la stessa voglia di vivere. Senti gli scoiattoli, il picchio rosso, qualche insetto e i funghi. La quercia tua gemella cresce alla stessa velocità, festina lente, e mentre le stagioni si alternano, il cielo è sempre più vicino e la terra rivela profondità che non immaginavate. Parlate tu e la quercia gemella, parlate nella lingua della linfa e delle foglie, nella lingua del vento e della pioggia. Siete cresciute lontano dalla pianta madre, perché il terreno è scosceso e voi siete arrivate quasi in fondo alla collina.

Intorno a voi sono cresciute altre piante, non solo querce, ma avete permesso a una piccola radura di prosperare alla vostra ombra e con lei tutti gli animali che vivono nel sottobosco. Non sapete quanto tempo è passato da quando avete respirato aria con le prime foglie, non contate il tempo come fanno gli umani, sentite le stagioni, ascoltate le nuvole, giocate con la pioggia che vi solletica e siete felici, come solo le piante sanno esserlo. Poi un giorno, durante un temporale estivo, un fulmine colpisce la tua gemella che si spezza e si schianta al suolo perché era più fragile di te e il tronco era in parte cavo. Quando gli umani passano accanto alla quercia spezzata, portano via un po’ alla volta i rami e buona parte del tronco, ma non quello cavo che resta sul terreno e dà rifugio alla volpe, ai topolini, e anche al serpente.

Hai temuto di essere rimasta sola mia antica quercia che accarezzo anche in sogno. Invece, le radici della tua gemella continuano a parlarti e la solitudine è solo una parola umana, non vegetale. Solo gli umani sanno cosa significhi non avere radici e non avere parole.

 

Sibila il serpente nella mattina chiara

 

Sono seduta sul tronco

spezzato della seconda

quercia che vegliava

il sentiero. Mi fermo a

riposare e chiedo al

vento di portarmi voci

nuove, storie inaudite.

Mi risponde il sussurro dei

rami e sibila il serpente

nella mattina chiara che

mi avvolge i pensieri, chiaro

mantello di giorni in affanno e

desideri non ancora pensati.

Avrei voluto che fossero

ancora due le mie querce,

ma una ha sposato il vento e

freme a ogni sua folata,

mentre l’altra è sposa della

terra umida e nell’ombra canta

e vive la sua vita nuova.

 

Preferisco la terra dell’Altipiano della Luna, i suoi boschi, gli amici che non sono tornati e quelli che non se ne andranno mai, mentre la mia città soffre sotto cieli sempre uguali. Sibila il serpente nella mattina chiara è una poesia che ho scritto oggi pomeriggio per ricordare questa giornata nella Cronaca 379 di lunedì 22 marzo del secondo anno senza Carnevale.

domenica 21 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/378. La primavera prepara i germogli, mentre le api spargono polline e poesia


Oggi è la giornata mondiale della poesia e di poesia mi sono nutrita, ne ho letta tanta, tanta ne ho ascoltata in compagnia di altre persone che l’amano e, in alcuni casi, la scrivono. Leggere poesia, prima ancora che scriverla, significa attingere alle forze primigenie, originarie della vita stessa. Quando sono triste o dubbiosa, apro a caso un libro e leggo, come si fa ancora con la Bibbia, cercando conforto e risposte.

Trovo sempre nella poesia la consolazione che cerco e mi piace pensare che oggi, in tutto il mondo, la poesia si sia sparsa come polline, portata dal vento e dalle api. Sempre qualcuno ne sarà toccato e dopo avere letto una poesia, ecco che il suo sguardo sarà mutato.

Amo le parole, i libri, la poesia e la letteratura, dopo avere letto il libro Poesia e filosofia di Maria Zambrano, mi è piaciuto immaginare i filosofi come avventurosi marinai che solcano mari e oceani nelle loro imbarcazioni di epoche, dimensioni e fogge diverse, e i poeti come audaci nuotatori, o forse solo naufraghi, che stanno immersi nell’acqua e non periscono grazie alla forza delle loro gambe e braccia. Oggi, a questa immagine di tutti i mari, si è aggiunta l’immaginazione dei fiumi e ho capito che, di nuovo, il poeta affronta senza altro strumento che se stesso, la sfida di un’acqua che scorre controsenso.

 

Pescare a mani nude

 

È un fiume l’immaginazione che

scorre dal mare verso i monti,

sono pesci le parole, alghe nella

corrente, sassi e anche detriti.

La memoria è l’acqua dove

lo scrittore pesca a rete, altre

volte con la lenza, e se ne sta

sempre sulla riva o nella stessa

barca di nome Sofia, ma noi

guardiamo il poeta che pesca

sempre a mani nude.

 

Le terre ai piedi delle Montagne della Nebbia, la Casa delle Parole e quella delle Stelle, la città silenziosa, tutto intorno è silenzio, tutto intorno è poesia che risuona e rimbomba.

Insieme aspettiamo il sollievo e la consolazione, insieme varchiamo i giorni e ci chiediamo se il prossimo equinozio, potremo celebrarlo all’ombra di alberi vivi e veri, prima che il nuovo autunno reclami a sé le foglie che ora sono i germogli che ci punteggiano lo sguardo.

Oggi è domenica 21 marzo del secondo anno senza Carnevale, una domenica di poesia e amicizia con Zina, Francesca, Danilo, Luigi, Luciana, Max e Patrizia, Silvana e Giò, Teresa e Ada con Annalisa e tutte le persone che gravitano intorno all’associazione Apriti Cielo e che hanno condiviso un’ora di gioia e di speranza. Pescare a mani nude l’ho scritta dopo il nostro incontro per questa Cronaca 378

sabato 20 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/377. Siamo fermi a metà di un ponte sospeso che unisce due lembi di cielo

 



Noi guardiamo ogni giorno il mondo intorno a noi, lo guardiamo e impariamo, fantastichiamo, immaginiamo.

Ogni giorno il mondo ci guarda e si mette in scena, nulla sfugge alle regole dello sguardo che ci chiedono attenzione e cura.

 

Le declinazioni delle nuvole e della notte

 

Ogni nido cerca l’albero giusto,

ogni respiro il suo cielo, ogni finestra

i suoi palazzi e scorci. Non è il caso a

governare la nostra visione, è l’alfabeto

delle immagini che abbiamo imparato,

quando le parole erano solo suoni, sono

le declinazioni dei voli in picchiata

delle rondini, e quelle imprecise delle

nuvole e della notte. Per questo

lascio che gli occhi vagabondino ancor

più dei miei passi. Perché quando

cammino nei miei mondi immaginari

sono gli occhi e guidarmi e l’eco della

tua voce.

 

Stare chiusi nelle case e nelle botteghe, riparati dai sogni e dalla pioggia, consolati dai libri e dalla scrittura, come torneremo a una vita piena di persone? Lo chiedo ai miei personaggi e le risposte sono vaghe. Quello che abbiamo imparato di noi e del tempo, è fermo a metà di un ponte sospeso che unisce i lembi del cielo, prima ancora di quelli della terra. Anche se guardiamo indietro non possiamo che procedere, nel luogo da dove siamo partiti taglieranno le corde e il futuro è l’unico luogo dove cercare una possibile salvezza.

Per questa Cronaca 377 di sabato 20 marzo, giorno dell’Equinozio di primavera del secondo anno senza Carnevale, ho scritto la poesia Le declinazioni delle nuvole e della notte, che mi sta conducendo verso un lembo di cielo e la sua terra.

venerdì 19 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/376. La rosa di ogni giorno, la rosa immaginata

 


 

Per rendere ogni giornata degna di essere vissuta, ogni mattino al risveglio vanno studiate le strategie più consone all’umore, al tempo, alla dedizione e alla speranza.

Oggi ho deciso di dividere questo giorno in tre momenti e di seguire le tracce che le poesie mi hanno suggerito. Parto dal giardino della Casa delle Parole.

 

 

Mattutino

 

Apre il nuovo giorno la sua

mano e sfoglia come petali

i minuti tondi appena nati.

Li sfioro e li lascio andare,

è questo il miracolo che si

ripete, il miracolo è il tuo

sguardo rinnovato e tonda

sboccia l’aurora dalle dita

rosate e scivolano ridendo

i momenti che fanno ogni

minuto e che mai potremo

contare. La rosa sboccia

anche quando non la

guardiamo.

 

Non ho fatto nulla per tutta la mattina, se non guardare i germogli sui rami, le rose che sbocciano nei vasi al sole protetti dalla serra. Ho ascoltato qualche uccellino, ho ascoltato il vento con gli occhi chiusi.

Poi era già mezzogiorno e prima di tornare a casa, ecco che è arrivata la seconda poesia.

 

L’ora meridiana

 

Il tempo è in piedi accanto

a noi, dritto anche se stanco,

curioso di andare e cambiare.

Lo lascio in fondo al

giardino, ma inesorabile

mi segue e cerca risposte.

Ogni giorno ha un sapore

diverso, oggi sono gli aceri

e le querce a seminare profumi,

non tornerai uguale mio

giorno perduto e sarai solo

un ricordo che non ho smarrito.

 

Dalla terra ai piedi delle Montagne della Nebbia sono tornata nella mia città di silenzio e confusione. I negozi sono gli occhi ciechi dei palazzi, oggi è San Giuseppe ed è la Festa del Papà, e ci sono file davanti alle pasticcerie per comprare le zeppole. Ci sono file anche dai fioristi e mi fermo a guardare e compro una piantina di piccole rose color rosa. Cammino con la spesa e le rose appese al braccio e mi fermo a guardare il cielo e passo nella piazza a salutare le torri e i ragazzini gelsomini e l’albero bellissimo che cattura le voci dei passanti e poi me le fa riascoltare.

Ora è buio, tutto buio, ma non negli occhi, perché la notte è appena iniziata.

 

Notturno

 

Nessuno ti aprirà notte,

nessuno conosce la chiave

per entrare in quello spazio

ricolmo di oscurità dove il tuo

sguardo è un arcipelago e tue

sono tutte le preghiere. Porta

le intenzioni, ma non i rimpianti.

Dai fiducia ai signori del sonno

e chiama i sogni con il loro vero

nome, la lingua arriverà da sola

e tu saprai come rispondere.

 

Oggi è venerdì 19 marzo 2021, il secondo anno senza Carnevale. Mattutino, L’ora meridiana e Notturno, li ho scritti per questa Cronaca 376 dove la poesia sboccia come fanno tutte le rose.