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martedì 26 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/779. A passeggio per le vie silenziose della mia città

 

 


 

Quando chiudono negozi vari, bar e ristoranti, nel giro di poco tempo non riesco a ricordare cosa ci fosse prima, a meno che non si trattasse di un posto che frequentavo con continuità. Qui nel mio vecchio borgo, sì mi piace pensare a questo quartiere come al vecchio borgo della Maddalena come si chiamava sino a pochi decenni fa, i cambiamenti sono stati tanti e anche veloci. Un tempo c’erano solo negozietti di quartiere, almeno quattro panettieri, due fruttivendoli, un ciabattino, un negozio di mobili rustici, un paio di bar, un paio di pizzerie e una gelateria soltanto, un negozio di intimo femminile, un negozio di giochi e uno di mobili e arredi etnici. Nella stazione del metro c’erano un acquario, un noleggio di VHS e un negozio di giocattoli, l’edicola era ancora aperta e gestita da una famiglia con tre figli. Poi il quartiere è diventato un posto alla moda, e lo è ancor di più dopo i vari lockdown degli ultimi tre anni, tutti i bar e ristoranti hanno piazzato dehors più o meno belli, c’è sempre gente ai tavoli, ma non dopo il venti del mese, lo noto da sempre che il traffico si dirada e c’è meno gente in giro, lo stipendio è finito, bisogna aspettare la fine del mese. Poi hanno chiuso anche la Mondadori e Photo discount, due pietre miliari, e il cinema Zenit, ma questo da più tempo ancora, dove avevo visto tutta la serie degli 007 con Sean Connery da ragazzina. La cosa che più mi è mancato negli anni è il bosco spontaneo che sorgeva sulle rovine della fabbrica De Angeli Frua, certo, ora c’è una bella biblioteca di quartiere, ma il bosco aveva un fascino tutto suo. Ma basta alle inutili comparazioni tra il paesaggio passato e quello contemporaneo, tutto passa, tutto muta, tutto cambia. Mi chiedo se la sensazione che il mondo fosse un posto più interessante e misterioso prima dell’avvento di Internet sia legato alla mia età che avanza e a quella deformazione dello sguardo che ci fa pensare al passato, spesso anche se non sempre, come a un luogo migliore, o se davvero un tempo fosse meglio. Intanto è di questi giorni che il geniale Elon Musk abbia fatto un’offerta non rifiutabile a Twitter che a breve sarà tutta sua. L’intero mondo si chiede come la gestirà, si interroga sui rischi di un unico proprietario per il social più importante per il mondo delle notizie e dei commenti. Confesso che ho sognato che quest’uomo avesse deciso di comprarsi questo costoso giocattolino per chiuderlo definitivamente. Così come ogni tanto sogno che quell’altro sogni di portare la gente a vivere in un mondo virtuale finisca in un flop colossale. Dopo due anni di pandemia, con la guerra in corso che non sappiamo se, come e quando finirà, chi ha voglia di stare ancora appiccicato a uno schermo? Io proprio no, per questo le lunghe passeggiate mattutine prima del lavoro sono un dono di cui apprezzo ogni istante. A dire il vero le passeggiate sono belle anche al tramonto, ma questa Cronaca 779 di martedì 26 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra mi ha confidato che le piace di più uscire il mattino presto.

domenica 24 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/777. Dove lo specchio di Alice si è rovesciato nel mondo di qua

 


 


Anche oggi sono stata indaffarata con i soliti infiniti e sfibranti lavori di selezione di oggetti, libri e vestiti, così anche oggi non sono riuscita a partecipare al laboratorio con Fiammetta sul sublime contemporaneo. Cercherò di recuperare con le registrazioni, anche se non è mai la stessa cosa. Sto scrivendo qualcosa in merito al mio giardino ideale, un giardino che è fatto dei giardini che ho amato o anche solo immaginato, come il giardino che circonda la Casa delle Parole nella terra delle Montagne della Nebbia che, purtroppo, non frequento tanto spesso come durante il primo anno della Cronache, durante l’eterno lockdown, quando pensavamo che sarebbero bastate quelle poche settimane chiusi in casa per debellare il maledetto virus che ci aveva presi di sprovvista poche settimane prima e che ancora impazza per il mondo. Ormai è certo che la variante Omicron, nelle sue svariate manifestazioni oltrepassa la barriera anche della tripla vaccinazione. Sono sempre più amici e conoscenti che si chiudono in casa perché scoprono di essere positivi anche con sintomi molto lievi, febbriciattola, raffreddore, un po’ di ossa rotte. Tra i contagiati che sono sempre nell’ordine delle decine di migliaia, spicca il numero dei morti che si aggira più o meno, ogni giorno, intorno ai duecento. Intanto, mentre la Cina segrega milioni e milioni di persone a Shangai e Pechino, nel resto del mondo le misure di prevenzione e contenimento vengono via via revocate. Lasciando così orfani di argomentazioni i no-vax nostrani che in moltissimi giustificano ora l’invasione dell’Ucraina e in ancor di più hanno trovato in questa guerra una fonte di ispirazione per una nuova battaglia anti-governativa, anti-sistema, anti-tutto. Sarebbe interessante andare a vedere le reali motivazioni di ciascuno, a capire quali siano le ragioni profonde di queste prese di posizione estreme. Forse un giorno lo faranno psicologi, psichiatri e storici, oggi dobbiamo fare ipotesi basate sulla conoscenza diretta di alcuni di questi individui. Avrei cose da scrivere su alcuni amici perduti nei loro deliri complottisti e no-vax, così qualcosa la scrivo, a futura memoria. Di una di loro so che appoggia l’operazione speciale del dittatore russo. Ma che tristezza mi fanno queste persone che pure, in un tempo lontano, erano amici e amiche con cui ho condiviso molto. Erano diversi quando eravamo giovani? Erano più razionali? L’unica cosa che mi sento di dire è che si tratta di persone irrisolte che nella vita non hanno trovato, almeno da giovani, un reale interesse, una passione da coltivare e che quando sono stati illuminati dalla pandemia, magicamente hanno capito tutto del grande complotto in corso contro l’umanità di cui noi poveri sciocchi siamo vittime e neanche ce ne accorgiamo. Eppure sono certa che si tratti di persone che amano leggere, alla signora ho regalato decine di libri quando eravamo giovani e poi quando ha pubblicato lei il suo primo libro per mandarmelo mi ha chiesto il prezzo di copertina più le spese di spedizione, l’altro amico è anche laureato, ma insegue da anni teorie e corsi delle più esoteriche discipline che ho fatto sempre più fatica a seguirlo nelle sue peregrinazioni. E ricordo anche che da giovani erano di sinistra e uno discendente di un ombroso partigiano di cui credo di non avere mai sentito la voce quando andavo a casa loro a studiare. Ecco, il mondo è diventato come se lo specchio di Alice si fosse rovesciato da questa parte, perché tutto è scombussolato e i punti fermi sono pochi, le informazioni arrivano a ondate e ci lasciano storditi e spaventati, con la bocca e il naso pieni di acqua e sale. Ma non siamo ancora affogati, meglio tenersi un po’ alla larga dalla riva e andare a pescare nei laghi interni del pensiero e dei libri.

Un ultimo pensiero lo dedico alla mia amica del cuore dell’adolescenza: oggi avrebbe compiuto un altro decennio tondo. Cara Antonia ti penso con affetto e nostalgia per quei pomeriggi trascorsi a raccontarci i nostri sogni e a imbastire racconti epici con protagonisti i due fratelli di cui eravamo cotte all’epoca.

Oggi è domenica 24 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 777 continua a girare e rigirare lo specchio, cercando il verso giusto.

venerdì 15 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/768. Siamo ancora immersi nel nostro confortevole e immobile mondo di ieri

 


 

Idee per un venerdì mattina, come se non ci fosse la pandemia, come se non ci fosse una guerra in Europa. Un mucchio di cose da fare, molte distrazioni, il sole, le magnolie fiorite, un pranzo con i nipoti. Scelgo le distrazioni, esco a passeggio, vedo nipoti e famiglia a pranzo, mangiamo bene nella solita trattoria a Baggio vecchia. Mi chiedo ogni giorno quanto durerà questa Drôle de guerre qui dalle nostre parti: perché sono convinta che la Terza guerra mondiale sia di fatto iniziata? Lo credo perché gli interessi economici sono enormi, l’intero assetto mondiale ne risentirà. Forse è davvero la fine della globalizzazione e del mondo come lo abbiamo conosciuto, come preconizza Domenico Quirico sulla Stampa del 13 aprile? L’articolo inizia così:

“Mi faccio volontario per una constatazione sgradevole, sommamente impopolare: in Italia non abbiamo ancora preso coscienza della gravità di quanto sta accadendo in Ucraina e delle conseguenze «globali», si dice così, sul mondo che verrà. Siamo immersi, dopo quaranta giorni di guerra furibonda, ancora nel nostro confortevole e immobile mondo di ieri. Che è già defunto, sconvolto da ininterrotte scosse vulcaniche proprio in questa terra europea, murato nelle tenebre”. [...]

Eppure ogni giorno abbiamo davanti le immagini per comprendere, basta aggiungere le didascalie. [...] Il mondo che verrà sarà feroce, coperto di ferro, diviso da muri di avversioni profonde, l’Asia russo cinese contro l’Occidente americano, con le rispettive dipendenze [...]

Eravamo il posto in cui rifugiarsi, eravamo la pace conquistata. Ebbene non sarà più così. Non saremo più il mondo della sicurezza. Prima parlavamo di pace e di guerra ma molti non sapevano di cosa stessero parlando. La pace con la globalizzazione e la cultura senza frontiere era una abitudine, era l’aria che ognuno respirava senza pensarci. La guerra era una parola, un concetto puramente teorico. Ora affrontiamo lo choc di questa rivelazione, apertamente”.

Di solito nessuno di noi ha la sfera di cristallo e vorrei tanto che questo grande giornalista avesse torto ma ho paura di no. Affrontare questa rivelazione come se fosse certa? E cosa possiamo fare noi semplici cittadini? L’immaginazione vacilla, ma non la speranza. Rileggo per intero l’articolo, ci rifletterò ancora.

Così è in questo venerdì 15 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e in questa Cronaca 768, ancora immersa nel nostro confortevole e immobile mondo di ieri.

giovedì 14 aprile 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/767. Pensieri a zonzo sulla guerra e sulla violenza

 


 

Gli oggetti sono la prova che abbiamo vissuto, che in un tempo passato abbiamo compiuto azioni, condiviso il tempo con altre persone, che abbiamo amato e abbiamo sperato nel futuro. Ci penso di continuo mentre seleziono e ripongo oggetti personali che sono appartenuti ai miei genitori - vestiti, cappelli, maglioni – e oggetti di uso comune come piatti, bicchieri e tovaglie. Lavo, asciugo, stiro e ripongo. Poi mi vengono in mente tutti gli esuli dalle guerre, i rifugiati, i sopravvissuti, quelli che non hanno più nulla, che sono ancora rifugiati in fabbriche, scuole e ospedali, in Ucraina e non solo. Ma l’Ucraina è una ferita aperto sul fianco dell’Europa, una terra offesa dalla menzogna e dalla violenza, le migliaia e migliaia di morti, le violenze, la perdita della speranza e le migliaia di giovani soldati russi costretti a diventare assassini, partite per la guerra senza neanche sapere cosa stavano per fare. Mi fermo sulla soglia dei miei ragionamenti, già fatti migliaia di volte sui social da persone ben più competenti di me. Mi fermo sulla soglia con una vecchia fotografia di famiglia in mano e sento quanto anche un piccolo oggetto porti in sé il tempo prezioso che abbiamo vissuto con i nostri cari. Quel che accade oggi in Ucraina in Europa è già successo, è successo con la disgregazione della Jugoslavia, è successo con la Prima e con la Seconda guerra mondiale e credevamo che non sarebbe accaduto mai più. Lo credevamo noi baby boomer, la generazione più fortunata della storia. È difficile trovare una forma nuova in questi tempi nuovi e al contempo vecchissimi. Di veramente nuovo c’è che vediamo immagini della guerra pressoché in diretta. Ma la guerra è vecchia, vecchia come l’umanità. Forse è arrivato il momento di ammettere con noi stessi che la nostra specie si fa la guerra non solo per necessità o per difesa, ma perché fare la guerra agli esseri umani piace. Forse sarebbe meglio ammettere che il male è parte di noi, è la nostra natura profonda e che il bene è una conquista quotidiana. Forse sarebbe meglio ammettere che il male vince comunque: vince se non ci difendiamo, vince se ci difendiamo perché la violenza esploderà in noi. È compito comune dell’umanità imparare a contrastare le nostre pulsioni profonde, a riconoscere tutte le emozioni, anche quelle negative, e a dare loro il giusto nome. Ci sono persone che per istinto, fede o decisione si votano al bene con la stessa forza con cui altre si votano al male, mentre nella massa oscilliamo tra indifferenza, piccole malvagità e piccoli beni quotidiani. Sentire il male che gli altri patiscono, sentirlo nella propria carne è il primo passo per contrastarlo questo male e smettere di farlo. Siamo tutti in balia delle stesse pulsioni e degli stessi istinti, non è un caso che della quindicina di specie di ominidi vissuti sulla terra siamo rimasto soltanto noi, i più efferati, i più violenti, forse i più forti, quelli che comunque si sono affermati nella conquista di risorse alimentari quando eravamo cacciatori raccoglitori e in quelle delle terre quando siamo diventati creature più stanziali, anche se il movimento e la scoperta fanno parte della nostra natura profonda tanto quanto la violenza. Credo che sia arrivato il tempo giusto per rileggere un libro interessantissimo di Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, un libro che spiega perché l’occidente bianco ha conquistato e dominato il mondo per qualche secolo. E racconta come anche gli altri popoli non bianchi e non occidentali erano, sono stati, popoli guerrieri e violenti. E dopo Diamond ho deciso che leggerò anche il nuovo libro di Federico Rampini Suicidio Occidentale, ne ho già lette alcune parti e credo sia un libro importante. Per oggi è tutto da giovedì 14 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 767, da brava studiosa, è già a capo chino sui libri.

giovedì 10 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/459. Dove la gioia irradia luce mentre passeggiamo in riva ai Navigli.

 



Veniamo al mondo nudi, indifesi e ciechi, senza poter parlare. Piangiamo tantissimo per farci capire, sorridiamo e lalliamo. Resteremo a lungo affidati alle cure degli adulti, soprattutto a quelle materne. Portiamo in noi un’eredità genetica di cui non siamo né consapevoli, né responsabili. Intrecciamo relazioni, assorbiamo l’ambiente che ci circonda, impariamo in ogni istante. Il tempo è infinito durante l’infanzia, ma è l’unica fase della nostra vita in cui siamo esseri fuori dal tempo. Per ciascuno di noi è molto diverso il momento in cui entriamo nel tempo, diventiamo, cioè, consapevoli che il tempo esiste e ci governa. Forse è il corpo il primo a saperlo, quando inizia a cambiare grazie alle tempeste ormonali che si scatenano nella pre-adolescenza. Ma il nostro essere nel tempo, quando siamo adolescenti, non è ancora il momento della consapevolezza della nostra finitudine. Gli adolescenti sono eterni, eterna è la giovinezza, la maturità è la vecchiaia sono eventi che accadono agli altri, non a noi. In queste prime e brevissime fasi della vita, ogni giorno erigiamo palazzi, seminiamo campi e attraversiamo terre sconosciute. Gli unici a capirci sono i nostri coetanei e qualche adulto illuminato che non ha dimenticato la propria adolescenza. Oltre agli adulti della propria cerchia familiare, sono soprattutto gli insegnanti che ci insegnano a stare nelle relazioni, che ci offrono competenze, risposte e molte nuove domande da esplorare insieme. Continuiamo a imparare ogni giorno cose nuove senza neanche accorgercene. Impariamo l’alfabeto delle emozioni e quello del corpo, che parla una lingua universale. Il futuro è vasto e meraviglioso, anzi è infinito e pieno di gioia. Poi finiscono le scuole superiori, i più fortunati, dotati e volenterosi vanno all’università, gli altri a lavorare. Questo è quello che accadeva nelle vite di noi baby boomer, la generazione più fortunata della storia dell’umanità, almeno così ci piace pensare, quelli che hanno avuto tutte le opportunità e le hanno sfruttate: studiare, viaggiare, lavorare e smettere quando se ne aveva voglia, andare a vivere da soli ancora molto giovani. Ricordo che quando ho trascorso un’estate in Svizzera a studiare letteratura francese all’università di Losanna, ero l’unica poco più che ventenne che viveva ancora in casa con la famiglia d’origine e tutti i miei nuovi amici e amiche se ne stupivano. E poi? Come accade che si entri nella maturità e si inizi a guardare il mondo con occhi diversi? Parto di nuovo dalla mia esperienza individuale per cercare di trarne ispirazione per formulare leggi “universali”. Si entra nella maturità quando ai guadagni e all’espansione del respiro verso il futuro, si affiancano le perdite: il proprio corpo che inizia ad avere i segni del tempo, la scomparsa di persone care, di solito i nonni e gli anziani della famiglia, quando si affievoliscono i legami con i compagni di scuola. Nessuno di noi è veramente preparato alle perdite che la vita ci infliggerà, all’inesorabile trascorrere delle giornate che si faranno tutte molto simili e poco avvincenti. Il lavoro, soprattutto se sarà un lavoro non molto interessante e non molto amato, sarà causa di grande afflizione. Ma anche a questa afflizione esiste un rimedio che è frutto della maturità e della consapevolezza, cioè la capacità di prenderci cura delle persone, dei luoghi e degli oggetti. Se è intuitivo pensare alla cura degli oggetti, mantenerli in buone condizioni d’uso, preservarne la bellezza e la trasmissione alle generazioni future, avere cura del paesaggio e dei luoghi è ancor più complesso e difficile. Se riusciamo a curare la nostra casa, per avere cura dei luoghi e dei paesaggi bisogna che entrino in gioco forze e intelligenze collettive che abbiamo una visione d’insieme. E qui entra in gioco la dimensione politica della vita, dove sono necessarie persone appassionate e competenti. Abbiamo visto in anni recenti i disastri fatti da politici improvvisati. Per quanto riguarda la cura delle persone, a partire da noi stessi, dei corpi e delle anime, il processo è delicato, continuo e necessita di passione e di compassione, di capacità di ascoltare e di donare, di amore per le persone a partire da quelle più vicine a noi, di amore per le loro storie, perché dare un senso al nostro vissuto attraverso la narrazione della nostra vita, soprattutto in forma scritta, può diventare anche un percorso di terapia e di auto-terapia. Declinando il nostro personale Alfabeto della Cura impariamo ad accettare le perdite, che sono inevitabili e fanno parte della nostra natura umana, e costruiamo giorno per giorno quella ricchezza che trasmette gioia irradiata da noi stessi e che su noi stessi ritorna. Così perdite e guadagni, anche se non mi piace molto questa contabilizzazione dei sentimenti, scorrono in noi e attraverso noi e ci permettono di guardare al passato senza nostalgie e rimpianti e ci aiutano a stare nel tempo presente, quello che smette di essere tale respiro dopo respiro, parola dopo parola. Oggi è stata una bella giornata estiva anche nella mia amata città non più silenziosa, in questo giovedì 10 giugno del secondo anno senza Carnevale, dove ho condiviso il tempo con la mia adorata amica Rossana, a zonzo sui Navigli, come amiamo fare d’estate e come anche questa Cronaca 459 ricorderà.

lunedì 25 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/78: lingua innamorata che ci fai innamorare

L’esperienza del buio e l’esperienza della notte non sono la stessa cosa. 

Possiamo creare il buio anche nel pieno di una giornata estiva, anche solo per qualche istante quando entriamo in una stanza in penombra dopo avere corso nel sole. Com'è fresca la stanza, com'è buona l’acqua che ci aspettava nell'orcio di terracotta. Il buio si imprime nell'occhio, da questi ricordi e da questa nuova esperienza nasce una poesia, metà fuoco, metà brace. 

L’esperienza della notte non è solo la mancanza della luce, quel che fa della notte una notte è la mancanza di suoni, soprattutto umani.

Quando mancano i suoni umani che giungono dall'esterno è la casa che parla con noi. Lo scricchiolio del pavimento in legno, il vento che si insinua nelle fessure tra il muro e la finestra, i libri si sussurrano l’un l’altro le loro storie anche se spesso conversano in lingue diverse.

Mentre nella casa tutti dormono, le lingue diverse mi colpiscono con un’improvvisa rivelazione.

Qui parliamo ciascuno nella propria lingua madre e ci capiamo, una Babele all'incontrario rende superflui traduttori e traduzioni. Ma quando guardo la sacerdotessa e il guerriero, il poeta e il re, quando guardo  il mio stesso volto allo specchio io so esattamente da dove provengono. E ho capito che il nostro riconoscere i volti e dirci è italiano, è francese, è americano o britannico, svizzero o tedesco dipende da una cosa cui prima di oggi non avevo mai pensato. 

Sono le lingue a costruire il nostro viso, i muscoli facciali si piegano alle esigenze di ogni lingua, ai vocalizzi, si piegano alle sillabe, alle nasali, alle dentali, alle labiali, alle gutturali, alle aspirate. 

Così la lingua ci scolpisce giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo. 

La sapienza di una lingua si scolpisce in un volto umano in pochissimi anni. 

La lingua della madre è respirata dalla figlia e dal figlio, le future rughe d’espressione prenotano i loro spazi su questi visi intatti.

Lingua nata dal paesaggio, dal cibo dal sole, dal mare e della pioggia, dagli alberi e dai fiori, lingua innamorata che ci fai innamorare, tutte le storie riposano nelle tue sillabe, noi ti sveliamo e riveliamo noi stessi con le tue parole, con il nostro viso.



Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra 
ma guerra – in un tempo assetato.
 
Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.

                          ***

C’è una finestra nella notte
con due sagome scure addormentate
brune come gli uccelli
il cui corpo indietreggia contro il cielo.
 
Scrivo con pazienza
all'eternità non credo
la lentezza mi viene dal silenzio
e da una libertà – invisibile -
che il Continente non conosce
l’isola di un pensiero che mi spinge
a restringere il tempo
a dargli spazio
inventando per quella lingua il suo deserto.

La parola si spacca come legno
come un legno crepita di lato
per metà fuoco
per metà abbandono.


Antonella Anedda
Notti di pace occidentale
Donzelli editore 2001 

venerdì 22 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/75: non esistono persone silenziose, ma solo persone che dialogano con l’invisibile


La casa ha fondamenta nelle nuvole per questo non la si trova mai nello stesso posto.

Ridiamo insieme quando ciò accade e tu mi dici che la tua casa ora è dove noi siamo insieme.

Le nuvole sono molto solide e possono contare sulla complicità del vento.

La sacerdotessa governa entrambi i mondi e spinge la tempesta nel passato dove il re ancora non aveva conosciuto la sua regina.

Chiamo la casa che appare in cima alle Montagne della Nebbia e un attimo dopo le aquile la portano dove noi siamo insieme.

Non è questo il regno dei tuoi libri, poesie millenarie corrono di bocca in bocca e tu ti ostini a volerle trascrivere nei tuoi taccuini che poi conservi per me.

Il giardino non è completo – mi dici – non basteranno gli arbusti e il gelsomino di Spagna per confinare il labirinto nella sua giusta dimora.

Qui tutti hanno un palazzo dell’immaginazione, niente può fermare questo desiderio.

Tracci i primi passi del labirinto in modo tale che ogni uscita mi porti da te.

I poeti hanno voci oblique che cercano spazio dove solo il tempo continua a regnare.

Ti ascolto e vedo, anziché sentire, il nitore di ogni tua parola.

Il re chiama a raccolta i lupi che non tornano, sono già chiusi nella loro tana.

Solo le aquile eleganti e silenziose si aggrappano alle braccia regali.

È proprio del silenzio che volevo parlarti – ti dico –, ho capito solo oggi che non esistono persone silenziose, ma solo persone che dialogano con l’invisibile.

Così se siamo lontani e tu parli con gli alberi dalle radici profonde e trai linfa vitale da tutta quella vita sotterranea che a poco a poco si rivela, tu potrai scrivere quelle parole necessarie in un taccuino intonso che un giorno leggerò.

La muta rivoluzione delle stelle evoca una danza notturna che danzerò per te con la sacerdotessa.

Tutto diventa notte se le stelle aspettano il primo passo, anche i pescatori si vestono di nero e portano le lucciole al posto delle lampare.

Che la sfida abbia inizio, proclama il re!

Ma questo regno non gli appartiene, lui regna sulla luce e sull’oro che discende dal sole.

Senti come profumano i gelsomini?

Le luci danzanti fanno a gara per mettersi in mostra e io non so se brillino di più le lucciole, le stelle o le lingue di fuoco che incendiano anche le tue parole.

Così non è mai stato prima, così sarà per sempre, eternamente, vaticina la sacerdotessa.

Entro nella casa che è tornata sull’altipiano e ha preso radici nelle radici degli alberi, ultima sapienza cui pochi possono accedere.

La quarta fiamma che danza nell’oscurità è quella della candela che contende la mia attenzione a quel silenzio popolato di assenti.

Io pure trascorro molto del mio tempo a conversare con chi era e con chi un giorno sarà.

Tra questi due lembi del tempo che diciamo eterno, stanno le nostre vite, più splendenti ancora nelle parole che scriviamo e che sappiamo troveranno la loro eco in altre parole gemelle che da sempre si stavano cercando.

Quoi? L’éternité.

Questo suggerì il poeta e la scrittrice accolse nelle mani queste poche sillabe a raccontare una vita.

L’eternità non arriva e non parte, siamo noi a uscirne per una manciata di scintille che chiamiamo giorni.

Abbiamo solo bisogno di un miracolo domestico che segni i confini perché ogni anima ne possiede molti, molto più di tutta la terra.

I confini non escludono, i confini proteggono quel germoglio appena sbocciato che splenderà nel tempo e che ci chiamerà per nome.


Quoi? L’éternité è un verso di Arthur Rimbaud da cui Marguerite Yourcenar ha tratto il titolo per il terzo volume dei suoi romanzi autobiografici.


giovedì 21 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/74: felici gli amati e gli amanti, felici i felici


Ci fu un giorno in cui tutti si svegliarono parlando una lingua diversa.

I papaveri gorgheggiavano un canto d’usignolo.

Il vento pioveva acqua che non era sua, ma solo un prestito del fiume.

Gli uccellini sui rami dell’albero bellissimo cantavano in greco.

Lo scrittore scriveva tracciando segni sull'asfalto, un passo dopo l’altro, usando il piede come un pennino.

I lupi cinguettavano parole d’amore nella lingua di Borges.

La sacerdotessa lasciava code di fuoco sorgere nell'aria e il cielo la capiva.

Il re regnava nel suo giardino sognando ribes e fichi maturi, una lingua dolce che mitigava il ricordo della regina ancora lontana.

Le aquile declinavano le nuvole con le ali spiegate senza muoversi dal nido.

Il poeta tracciava simboli con fumo e caffè, una lingua nasceva sul suo taccuino, una lingua moriva nelle sue intenzioni.

Le stelle scesero dal carro e si sparpagliarono per la brughiera ridendo.

Furono le nuvole a gridare per prime: avevano la mia voce che solo tu hai riconosciuto.

Il vento le seguì nel canto per pronunciare quel nome caro e misterioso che io sola conosco.

Mentre balbettavo le prime sillabe di una lingua a me ignota.

Mentre compitavo con mano incerta l’alfabeto su un quaderno nuovo, un gatto rosso attraversò il sentiero e sussurrò: “il grande segreto è proprio questo: il pensiero si crea nella bocca”.

Solo la poetessa si girò a guardarci, era in piena fioritura come un gelsomino di Spagna.

Lanciò verso di noi una manciata di fiori ubriachi di luce e desiderio e ogni fiore era universo.

Parlarono tutti insieme cantando le lodi dei poeti e degli innamorati.

Felici gli amati e gli amanti.

Felici i felici.

Questa è la lingua nuova, questa è una poesia antica.




il titolo è un frammento dei Frammenti di un Vangelo Apocrifo di J. L. Borges in Elogio dell'ombra
Gli uccellini che cantavano in greco sono un'allucinazione di Virginia Woolf.
Le parole del gatto rosso sono di Tristan Tzara Sept manifestes Dada : Lampisteries 

Le grand secret est là:
La pensée se fait dans la bouche.






mercoledì 20 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/73: scrivere è la musica del corpo


Mi duole la città oggi, mi duole a causa del rumore, dell’aria calda della tarda primavera già vestita d’estate. Mi dolgono gli uccellini che cantano nelle gabbie e anche quelli nei nidi sull'albero bellissimo. I pioppi hanno ripreso la fioritura dove l’avevano interrotta prima delle piogge, il gelsomino impregna ogni refolo di vento e io non so proprio cosa scrivere oggi se non di questa sensazione di non conoscere più la mia città e i suoi abitanti.

Il quaderno delle citazioni me ne offre una interessante di Amal Hanano, blogger e scrittrice siriana che scrive sotto pseudonimo:

“Ogni città è sospesa tra realtà e immaginazione, governata da leggi assurde, con l'effetto di ricordare al lettore che una città può essere assorbita solo attraverso brevi sguardi, ciascuno dei quali si fissa a un oggetto, una storia o un ricordo”.

Brevi sguardi, un oggetto, una storia o un ricordo, una città sospesa tra realtà e immaginazione, sembra proprio che queste parole siano state scritte per me che vago tra almeno due mondi e due dimensioni. So che da qualche parte ai piedi delle Montagne della Nebbia c’è una città che non ho ancora visitato, so che anche in cima alle Montagne c’è una città fortificata. E un’altra città si apre sul mare proprio oltre il giardino della Casa delle Parole.
Non ho che l’imbarazzo della scelta e prima o poi andrò a consultare Italo Calvino e le sue città invisibili.

Ma oggi l’unico rimedio a questa inquietudine è camminare, perché l’idea di dover restare intrappolata nei confini della Lombardia comincia a essere più che un pensiero ma una probabilità, con i numeri di nuovi contagi e decessi chi mai dovrebbe volere noi lombardi in giro per il proprio territorio? Tutto quello che posso fare è andare a zonzo con Paul Auster e così esco di casa:

“Per fare quello che fai hai bisogno di camminare. È camminare che ti porta le parole, che ti permette di sentire il ritmo delle parole mentre le scrivi nella tua mente. Un piede avanti, poi l’altro piede, il doppio battito di tamburo del tuo cuore. Due occhi, due orecchie, due braccia, due gambe, due piedi. Questo, e poi quello. Quello, e poi questo. Scrivere incomincia nel corpo, è la musica del corpo, e anche se le parole hanno significato, possono a volte avere significato, è nella musica delle parole che i significati hanno inizio. Siedi alla tua scrivania per scrivere le parole, ma nella mente stai ancora camminando, sempre camminando, e quello che senti è il ritmo del tuo cuore, il battito del tuo cuore. Mandel'štam: “Mi chiedo quante paia di sandali avrà consumato Dante mentre lavorava alla Commedia”. Scrivere come forma minore di danza”.

Cammino, mi fermo, cerco una panchina, leggo un paio di pagine, mi distraggo ricomincio a camminare. Quanti passi per arrivare sino a casa tua? Quanti passi per vedere le tue piante e il tuo giardino? I tuoi occhi diventano l’approdo ai miei e mi distraggo dalla passeggiata e torno a casa per scrivere, ma il cammino e quei passi che non posso contare mi danno la direzione per questa Cronaca recalcitrante. Cerco una poesia per congedarmi e continuare a pensare ai tuoi occhi che la realtà tiene lontano dai miei.

Una poesia è sempre una risposta anche se nessuno ha ancora formulato la domanda.


Il mondo è come appare
dinanzi ai miei cinque sensi,
e dinanzi ai tuoi che sono
come l'approdo dei miei.
Nostro non è il mondo
degli altri: non è lo stesso.
Letto dell'acqua ch'io sono,
tu, noi due, siamo il fiume
che laddove è più profondo
più lento e limpido appare.
Immagini della vita:
via via che le riceviamo,
ci accolgono consegnate
più strettamente a un ritmo.
Ma le cose si formano
coi nostri stessi deliri.
L'aria ha la dimensione
del cuore che io respiro
e il sole è come la luce
con la quale io lo sfido.
Agli occhi degli altri, ciechi,
oscuri, sempre deboli,
guardiamo all'interno sempre,
vediamo dal più intimo.
Fatica e amore mi costa
così con me, con te vedere;
apparire, come l'acqua
con la sabbia, sempre uniti.
Nessuno mi vedrà intero,
nessuno è come lo guardo.
Siamo più di ciò che vediamo,
meno di ciò che indaghiamo.
Qualche vicenda di tutti
inavvertita trascorre.
Nessuno ci ha veduti.
Ciechi di tanto vedere,
nessuno abbiamo veduto.

Miguel Hernandez


El mundo es como aparece
ante mis cinco sentidos,
y ante los tuyos que son
las orillas de los míos.
El mundo de los demás
no es el nuestro: no es el mismo.
Lecho del agua que soy,
tú, los dos, somos el río
donde cuanto más profundo
se ve más despacio y límpido.
Imágenes de la vida:
cada vez las recibimos,
nos reciben entregados
más unidamente a un ritmo.
Pero las cosas se forman
con nuestros propios delirios.
El aire tiene el tamaño
del corazón que respiro
y el sol es como la luz
con que yo le desafío.
Ciegos para los demás,
oscuros, siempre remisos,
miramos siempre hacia adentro,
vemos desde lo más íntimo.
Trabajo y amor me cuesta
conmigo así, ver contigo:
aparecer, como el agua
con la arena, siempre unidos.
Nadie me verá del todo
ni es nadie como lo miro.
Somos algo más que vemos,
algo menos que inquirimos.
Algún suceso de todos
pasa desapercibido.
Nadie nos ha visto. A nadie
ciegos de ver, hemos visto.


Le prime due citazioni sono tratte da

Amal Hanano 
Aleppo città invisibile
su Internazionale 980 del 21 dicembre 2012

Paul Auster 
Diario d'inverno
traduzione di Massimo Bocchiola
Einaudi 2012

martedì 19 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/72: alla fine di questa frase, comincerà la pioggia


Nei giorni nuvolosi l’aria è pensosa, invita a rinchiudersi nelle case, a scrutare il cielo in cerca di una schiarita.

Poi di nuovo si sente in cortile il canto degli uccellini e le rondini ricominciano la danza infinita con nuvole e vento.

Le giornate scorrono uguali una dietro l’altra, lavoro a casa chi ce l’ha, problemi per la riapertura, timore che i contagi ricomincino a salire dopo questi giorni dove si sta tornando a una sorta di normalità. Eppure è viva in tutti la sensazione che le settimane di lockdown siano lo spartiacque tra la vita di prima e quella di dopo, la nuova normalità come la chiamano ormai soprattutto i giornalisti. Ma andare in giro con mascherine e guanti monouso non è una cosa “normale”, come non è normale che non ci siano protocolli condivisi per la rilevazione di contagiati e di guariti. L’impressione complessiva che ne ho è che la riapertura sia una scelta obbligata per motivi economici e che si procederà per tentavi, errori e nuove chiusure.

Intanto, nel mio angolino di mondo, qui a Milano, ieri le strade e i bar aperti erano pieni di gente giovane che beveva spritz e chiacchierava a meno di metro di distanza uno dall'altro e con le mascherine appese al collo o sulla fronte. Le persone più anziane erano più che altro in coda per il supermercato o dal panettiere. Molti ristoranti, bar e pizzerie erano comunque chiusi e non davano l’idea di stare per riaprire. Per inciso: andare in giro con la mascherina non è una bella esperienza, oltre al respiro più difficile, si somma anche la difficoltà nel riconoscere le persone, anche quelle che incrociamo magari da decenni come i vicini e i negozianti di quartiere, per riconoscersi e salutarsi ci vuole quella manciata in più di secondi che fa rallentare il passo. Le ambulanze continuano a passare a sirene spiegate anche se molte meno che in marzo, nel pieno dell’emergenza.

Questo angolo di mondo non può certo esaurire le esperienze e le riflessioni, né tanto meno il desiderio feroce di poesia che mi attanaglia sempre, per questo oscillo tra la mia casa e la Casa delle Parole che sta ai piedi delle Montagne della Nebbia.

Per questo motivo chiedo sempre agli altri poeti parole che siano un segno e oggi a rispondermi è stato Derek Walcott:


Amore dopo amore

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

Love after love

The time will come
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at the other's welcome,

and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you

all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf,

the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.



La tripla vita che conduco, tra Milano, le poesie e l’Altipiano della Luna, mi offre squarci di verità e di amore che una sola dimensione non potrebbe offrirmi.

Vedo due giovani al loro primo amore che la pandemia ha bloccato, posso immaginare l’emozione del primo bacio dopo oltre due mesi, la gioia dei corpi che si avvicinano di nuovo.

Vedo un uomo che ha lasciato il suo tavolo di studio e lavoro e in giardino sta trapiantando cespugli di ribes nero e intanto continua a scrivere nel suo cuore una nuova aubade per la donna che ama.

Vedo una donna che fa fatica a infilare i giorni, si preoccupa per un figlio e una madre tristi, si arrende alla propria tristezza di cui è stanca e decide di chiedere aiuto.

Vedo un poeta devoto che ogni giorno compie la sua passeggiata solitaria e cerca un tavolino vuoto dove fermarsi a scrivere e quando lo trova è l’intero universo a concentrarsi in un quell'angolo proprio sotto ai suoi occhi.

Vedo persone che hanno ricominciato a vivere su Instagram e postano fotografie della loro vita esclusiva e meravigliosa.

Vedo persone che su Facebook si denudano, anima e corpo, come mai potrebbero fare nella vita reale. Ma in quel teatro artificiale il pubblico è invisibile ed è più facile pensare che un corpo nudo dica la verità, ancor più che una poesia o una dichiarazione d’amore.

Vedo i miei animali totemici affaccendati nella loro sacra animalità, i lupi corrono nella brughiera, le aquile scendono in picchiata incontro alla sacerdotessa, il puledro e la giovane volpe chiacchierano all'ombra di una quercia.

Vedo persone che cercano forza nella poesia e nello studio, alcuni hanno amato il silenzio e la concentrazione dei giorni di isolamento forzato. Io sono tra questi, alcune delle giornate più intense della mia vita le ho trascorse chiusa in casa a lavorare, leggere e scrivere, avendo come unici contatti con il mondo un po’ di Facebook e il telefono. Ma ricordate quante cose passano attraverso la voce? Spesso è la voce senza il volto, che magari pure conosciamo, a farci cogliere l’essenza della persona con cui parliamo. Arriviamo a cogliere ogni minima sfumatura e variazione e intuire lo stato d’animo, la tristezza o l’allegria anche senza risate improvvise che aprono il cuore.

Tutte le storie, d’amore e di vita, nascono, crescono e si diffondono da un unico punto.

Prima la vita nel suo nudo manifestarsi, poi un racconto che la diffonde, un altro racconto ancora, qualcun altro che ripete, qualcuno che inizia a scrivere, poi quelli che leggono e raccontano ancora. Così gli amori diventano immortali e alcune vite sono leggende che le generazioni si passano come un’eredità forte tanto quella dei geni e del DNA. Perché noi siamo fatti di storie, non solo di materia cieca che sa pensarsi. E quasi tutte le storie narrano l’amore, ricordato, perduto, vissuto, nascente, sperato. Un amore che non è solo quello tra due persone che si sono riconosciute all'improvviso, è amore per questa terra ferita, per questa vita che sfugge, per i sogni che restano tali, per i desideri che assillano la carne, per i baci che non abbiamo ancora dato, per quelli che ci sono stati negati.

Oscillo tra i miei tre mondi che in realtà non sono solo tre, ma molti di più. La memoria  e l’immaginazione sono le mie guide, le stelle mi accompagnano di notte, i poeti mi accompagnano sempre.



Arcipelaghi

Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All'orlo della pioggia una vela.

Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un'intera razza.

La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.

Il gocciolio si tende come le corde di un'arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia

e pizzica il primo verso dell'Odissea.


Archipelagoes

At the end of this sentence, rain will begin.
At the rain’s edge, a sail.

Slowly the sail will lose sight of islands;
into a mist will go the belief in harbours
of an entire race.

The ten-years war is finished.
Helen’s hair, a grey cloud.
Troy, a white ashpit
by the drizzling sea

The drizzle tighten like the strings of a harp.
A man with clouded eyes picks up the rain
and plucks the first line of the Odyssey.



Entrambe le poesie sono di Derek Walcott
Mappa del Nuovo Mondo
Traduzione di Barbara Bianchi, Gilberto Forti, Roberto Mussapi
Adelphi 1992