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sabato 3 maggio 2014

Ma vedere non è la parola

APPARIZIONI


II

Se il cielo grida e senti che ti chiama
con un grido d’abisso, se ti attira
in alto, nel profondo, dov’è più oscura
la chioma di neve degli astri o il gelo
a squame della notte, o se tu stesso
gridi ancora più forte e non ti stanchi
d’ascoltare la tua voce, sgradevole
come all’udito debole di un sordo,
o insidiosa e nuda come l’acqua
ferita dai bagliori della falce lunare;                                  
se ti chiamano al centro di te stesso
e in quel chiamarti trovi un centro;
se, nodo di luce, appari a te stesso;
se interiore è il richiamo, guardando
in te vedrai il sogno che ho sognato
stanotte? Ma vedere non è la parola.
Non lo vedevo: ero io stesso il sogno.
Non è che mi vedessi, ma era essere
qualcosa che esisteva e che ero io.
Perché il tema delle apparizioni
è il tema dell’io. Però in quel caso
non vedevo una concreta identità:
non m’appariva alcuna immagine.
Non c’era sdoppiamento, né sguardo.
Era la vita in negativo, stato nullo,
il silenzio del fiume disseccato,
la chiarità del cielo che spoglio d’azzurro
è sempre cielo: un fulgore invisibile,
sentito come vuoto di visibilità.
Come il letto di un fiume: terra, pietra,
quiete di devastata aridità,
ramo, verde rancore che è fuggito
dal mondo vegetale, umidità
bevute dal deserto. Cambia la luce
e, guarda, tutto è roccia, polverio
famelico: per questo esiste l’acqua.
È un’assenza, violenta come il sole,
pietrificata, che non scorre, ferro
incrostato d’immobilità, acqua
libera d’acqua che pesa nel letto
del fiume, o il rumore dell’acqua
che non scorre in questo fiume secco.


Pere Gimferrer

da Espejo, espacio y apariciones
Visor Poesia 1988
Questa è la seconda parte del poemetto Apparizioni del 1978, composto di otto parti.
Traduzione di Francesco Dalessandro
dal blog Poesia senza pari



giovedì 10 aprile 2014

Il sentire più profondo si rivela sempre in silenzio

Silenzio


Mio padre era solito dire:
«Una persona superiore non fa mai visite lunghe,
né vuole vedere la tomba di Longfellow
o i fiori di vetro di Harvard.
Sicura di sé come il gatto –
che trascina la preda in un angolo,
la coda del topo gli pende dalla bocca come un laccio 
                                                             da scarpe –
ogni tanto gradisce la solitudine
e può restare senza parole
se ascolta un discorso che gli piace.
Il sentire più profondo si rivela sempre in silenzio;
non in silenzio, ma con discrezione».
E non era meno sincero se diceva: «Fate di questa casa il                                                                      vostro albergo».
Ma non sono residenze, gli alberghi.

Marianne Moore
Complete Poems
Faber and Faber 
London-Boston, 1984
traduzione di Francesco Dalessandro

dal blog Poesia senza pari