Tondo come il mondo, il
pianeta blu, l’arancia azzurra. Il mondo è il pianeta, noi siamo il mondo. Il
mondo è la nostra casa comune, una casa instabile, di tempeste, terremoti,
vulcani in eruzione, mari agitati, nuvole in corsa, una casa che non governiamo
ma che ci illudiamo di avere domato. Perché abbiamo dato un nome a tutte le
cose, ma il nome da solo non basta, non bastano le sillabe e le singole
lettere. Non basta una lingua a dare conto del mondo, né bastano tutte le
lingue per poterlo dire. C’è sempre qualcosa che eccede la nostra capacità di
dirlo in parole. Ma ci resta la contemplazione, ci resta l’ammirazione e il
sogno di vederlo per una volta almeno da lassù, tondo, azzurro di mare e bianco
di nuvole.
Il dolore è il mondo ferito
che entra in noi, la scomparsa di qualcuno che amiamo, un cambiamento
irreversibile, il crollo della speranza, la lontananza di qualcuno che amiamo.
Il dolore ha tanti volti e non li mostra mai tutti insieme. Ci sono dolori che
sono come una buca scavata nel terreno e una bambina rimasta intrappolata che
non ha più neanche la forza di piangere e gridare. I suoi immensi occhi azzurri
continuano a infrangere l’oscurità, ma nessuna mano tesa è abbastanza forte per
poterla tirare su. O forse la bambina neanche ci prova, perché la buca è una
certezza e perché il mondo, lassù, fuori, può causare ancora più dolore.
Il dolore esce da noi con
un grido lacerante, squarcia l’aria, i nostri stessi polmoni. Ma non c’è dolore
che non arrivi dal mondo, non c’è dolore che non sia legato a una relazione
distorta, morta o malata. Il dolore sopravvive alla relazione, tiene in
schiavitù le persone, non le lascia cambiare. Ci sono persone che vivono
crogiolandosi nei dolori e nelle perdite. Anni fa su un treno avevo incontrato
una donna anziana che stava andando a passare una settimana di vita con il
figlio minore, la nuora e il nipotino che vivevano a Riccione. Lei non voleva
trasferirsi da loro perché non avrebbe più potuto andare a trovare tutti i
giorni al cimitero il marito e il figlio primogenito che era morto in un
incidente di moto. A volte i morti prendono il sopravvento sui vivi e li
scalzano dall’amore. È più facile amare chi non c’è più, perché i morti non
cambiano, non cambieranno mai e i vivi cambiano ogni giorno e, nella relazione,
ci portano nel cambiamento nella terra dei vivi.
La terra non è propriamente
il mondo. La terra è più vicina, significa mondo ma anche solo una parte di
esso, la parte che amiamo e conosciamo meglio, spesso quella in cui siamo nati.
Non c’è epoca che non abbia visto una parte dell’umanità doversi staccare dalla
propria terra e iniziare a piangerla non appena partiti.
Prepararsi all’addio
Salutate la
casa, il pozzo
gli ulivi,
mettete delle colline
il profilo
in un’altra quiete che
confonderà
le querce
alle
ciminiere.
Ai treni
consegnate i giochi nei
campi, gli
stornelli dell’estate
lasciateli
all’aia. Della cucina
prendete il
fumo che con altro
fumo
mescolerete.
All’orecchio
non confidate
subito il
segreto dell’oleandro,
lasciate che
le voci barbare
ne violino
la sfera.
Il viaggio
inizia con la terra
che non si
stacca, non si
stacca dalle suole.
La madre, la madre, porta che
dall’infinito ci conduce all’eternità. Non ci sono madri innocenti, non ci sono
madri colpevoli. Diventare madre significa accettare la vita com’è, significa
accettare la sfida dell’essere e farsi carne per un’altra carne, per un altro frammento
di eternità che respirerà qui nel mondo e amerà la terra e forse noi. Se diventare
madre era un destino fino a pochi decenni fa, ora più che mai, almeno in Occidente,
è diventato una scelta, un dono di sé. Come una scelta è il non diventare madri
ed essere comunque donne, essere madri non è solo partorire un bambino, è
prendersi cura. Essere donna implica anche la possibilità di dire di no a tutto
questo e scegliere altro. Ma tutti noi continuiamo a relazionarci con la nostra
di madre. Presente, assente, buona o cattiva, amorevole o indifferente lei è il
primo, vero oggetto d’amore, l’amore che genera gli amori successivi.
Gli uomini sono l’umanità
intera, uomini e donne nascosti nel neutro maschile universale che comprende le
donne e al contempo le cela. Affermare che le donne non sono uomini a partire
proprio dal linguaggio è stata una prima grande rivendicazione. Me nonostante
il Novecento con tutte le guerre, le sconfitte, i lutti, le lotte, il femminismo
e il Sessantotto, la vita delle donne e degli uomini continua a essere divisa
verticalmente dalle responsabilità in seno alla famiglia, dalla divisione del
lavoro, dalle aspettative sociali. Il patriarcato non è morto e la pandemia di
quest’anno ce lo ha dimostrato.
Il deserto è un luogo assoluto
dove i mistici si rifugiano a cercare o a sfuggire da Dio, dove i nomadi
calpestano le proprie impronte secolo dopo secolo, dove l’acqua si nasconde e
la sete non si esaurisce. Dove il caldo soffocante del giorno è gemello del
gelo stellato della notte. Ho conosciuto solo un deserto sinora, quello del
Negev in Israele. Il deserto tutto intorno al Mar Morto, il silenzio, l’acqua
così salata da essere amara, la solitudine che era diventata una cosa viva, l’oasi
di En Gedi e lo Wadi Arugot dove ho sentito Dio e la natura essere tutt’uno e
sento ancora nelle orecchie il vento tra le foglie, il rumore delle cascatelle
d’acqua e il respiro mio e della mia amica Titti che non abbiamo parlato per
ore e ore. Si può fare spazio a un deserto e un’oasi dentro di sé e mettersi in
ascolto. Qualcuno parlerà.
L’onore non è più una parola
molto usata, pertiene all’individuo e alla società. È molto più che rispetto e
implica il riconoscimento di valori e comportamenti comuni che devono essere
preservati e valorizzati. L’onore è il contrario della menzogna e dell’opportunismo
e sono poche le persone di questo scorcio di secolo che potrei affiancare alla
parola onore.
Anche la miseria è una parola
desueta pur non essendo la miseria scomparsa. La miseria e l’onore non sempre
abitano nella stessa casa, ma si può essere miseri ma onorevoli. La miseria non
è solo la povertà estrema delle cose, ma soprattutto la povertà estrema dell’anima
e non basterà nessuna ricchezza a colmarne i vuoti e a rammendarne i buchi.
L’estate è la stagione
assoluta, la stagione della terra di Camus, l’epoca delle virtù e della luce,
la stagione che esiste e si rivela come invincibile anche nel cuore di un inverno,
reale o metaforico ha poca importanza.
Il mare non è solo l’acqua che
abbraccia le terre. Il mare è uno stato d’animo, il mare tutto accoglie e tutto
restituisce. I tesori sommersi sono tali solo perché noi possiamo continuare a
cercarli. Il mare accompagna il pensiero e il respiro, ci fa tornare bambini e
gioiosi.
Come questo mare dalle rive di
sabbia e pochi scogli dove stiamo leggendo questa nuova lista di parole
preferite che è quella di Albert Camus.
“Le mie dieci parole preferite:
il mondo, il dolore, la terra, la madre, gli uomini, il deserto, l’onore, la
miseria, l’estate, il mare”.
"Mes dix mots préférés: le monde, la douleur, la terre, la mère, les
hommes, le désert, l'honneur, la misère, l'été, la mer".
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