lunedì 20 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/134: estate, stagione assoluta del deserto e del mare


Tondo come il mondo, il pianeta blu, l’arancia azzurra. Il mondo è il pianeta, noi siamo il mondo. Il mondo è la nostra casa comune, una casa instabile, di tempeste, terremoti, vulcani in eruzione, mari agitati, nuvole in corsa, una casa che non governiamo ma che ci illudiamo di avere domato. Perché abbiamo dato un nome a tutte le cose, ma il nome da solo non basta, non bastano le sillabe e le singole lettere. Non basta una lingua a dare conto del mondo, né bastano tutte le lingue per poterlo dire. C’è sempre qualcosa che eccede la nostra capacità di dirlo in parole. Ma ci resta la contemplazione, ci resta l’ammirazione e il sogno di vederlo per una volta almeno da lassù, tondo, azzurro di mare e bianco di nuvole.

 

Il dolore è il mondo ferito che entra in noi, la scomparsa di qualcuno che amiamo, un cambiamento irreversibile, il crollo della speranza, la lontananza di qualcuno che amiamo. Il dolore ha tanti volti e non li mostra mai tutti insieme. Ci sono dolori che sono come una buca scavata nel terreno e una bambina rimasta intrappolata che non ha più neanche la forza di piangere e gridare. I suoi immensi occhi azzurri continuano a infrangere l’oscurità, ma nessuna mano tesa è abbastanza forte per poterla tirare su. O forse la bambina neanche ci prova, perché la buca è una certezza e perché il mondo, lassù, fuori, può causare ancora più dolore.

Il dolore esce da noi con un grido lacerante, squarcia l’aria, i nostri stessi polmoni. Ma non c’è dolore che non arrivi dal mondo, non c’è dolore che non sia legato a una relazione distorta, morta o malata. Il dolore sopravvive alla relazione, tiene in schiavitù le persone, non le lascia cambiare. Ci sono persone che vivono crogiolandosi nei dolori e nelle perdite. Anni fa su un treno avevo incontrato una donna anziana che stava andando a passare una settimana di vita con il figlio minore, la nuora e il nipotino che vivevano a Riccione. Lei non voleva trasferirsi da loro perché non avrebbe più potuto andare a trovare tutti i giorni al cimitero il marito e il figlio primogenito che era morto in un incidente di moto. A volte i morti prendono il sopravvento sui vivi e li scalzano dall’amore. È più facile amare chi non c’è più, perché i morti non cambiano, non cambieranno mai e i vivi cambiano ogni giorno e, nella relazione, ci portano nel cambiamento nella terra dei vivi.

 

La terra non è propriamente il mondo. La terra è più vicina, significa mondo ma anche solo una parte di esso, la parte che amiamo e conosciamo meglio, spesso quella in cui siamo nati. Non c’è epoca che non abbia visto una parte dell’umanità doversi staccare dalla propria terra e iniziare a piangerla non appena partiti.

 

 

Prepararsi all’addio


Salutate la casa, il pozzo
gli ulivi, mettete delle colline
il profilo in un’altra quiete che
confonderà le querce
alle ciminiere.

Ai treni consegnate i giochi nei
campi, gli stornelli dell’estate  
lasciateli all’aia. Della cucina
prendete il fumo che con altro
fumo mescolerete.

All’orecchio non confidate
subito il segreto dell’oleandro,
lasciate che le voci barbare
ne violino la sfera.

Il viaggio inizia con la terra
che non si stacca, non si
stacca dalle suole.



La madre, la madre, porta che dall’infinito ci conduce all’eternità. Non ci sono madri innocenti, non ci sono madri colpevoli. Diventare madre significa accettare la vita com’è, significa accettare la sfida dell’essere e farsi carne per un’altra carne, per un altro frammento di eternità che respirerà qui nel mondo e amerà la terra e forse noi. Se diventare madre era un destino fino a pochi decenni fa, ora più che mai, almeno in Occidente, è diventato una scelta, un dono di sé. Come una scelta è il non diventare madri ed essere comunque donne, essere madri non è solo partorire un bambino, è prendersi cura. Essere donna implica anche la possibilità di dire di no a tutto questo e scegliere altro. Ma tutti noi continuiamo a relazionarci con la nostra di madre. Presente, assente, buona o cattiva, amorevole o indifferente lei è il primo, vero oggetto d’amore, l’amore che genera gli amori successivi.

Gli uomini sono l’umanità intera, uomini e donne nascosti nel neutro maschile universale che comprende le donne e al contempo le cela. Affermare che le donne non sono uomini a partire proprio dal linguaggio è stata una prima grande rivendicazione. Me nonostante il Novecento con tutte le guerre, le sconfitte, i lutti, le lotte, il femminismo e il Sessantotto, la vita delle donne e degli uomini continua a essere divisa verticalmente dalle responsabilità in seno alla famiglia, dalla divisione del lavoro, dalle aspettative sociali. Il patriarcato non è morto e la pandemia di quest’anno ce lo ha dimostrato.

Il deserto è un luogo assoluto dove i mistici si rifugiano a cercare o a sfuggire da Dio, dove i nomadi calpestano le proprie impronte secolo dopo secolo, dove l’acqua si nasconde e la sete non si esaurisce. Dove il caldo soffocante del giorno è gemello del gelo stellato della notte. Ho conosciuto solo un deserto sinora, quello del Negev in Israele. Il deserto tutto intorno al Mar Morto, il silenzio, l’acqua così salata da essere amara, la solitudine che era diventata una cosa viva, l’oasi di En Gedi e lo Wadi Arugot dove ho sentito Dio e la natura essere tutt’uno e sento ancora nelle orecchie il vento tra le foglie, il rumore delle cascatelle d’acqua e il respiro mio e della mia amica Titti che non abbiamo parlato per ore e ore. Si può fare spazio a un deserto e un’oasi dentro di sé e mettersi in ascolto. Qualcuno parlerà.

L’onore non è più una parola molto usata, pertiene all’individuo e alla società. È molto più che rispetto e implica il riconoscimento di valori e comportamenti comuni che devono essere preservati e valorizzati. L’onore è il contrario della menzogna e dell’opportunismo e sono poche le persone di questo scorcio di secolo che potrei affiancare alla parola onore.

Anche la miseria è una parola desueta pur non essendo la miseria scomparsa. La miseria e l’onore non sempre abitano nella stessa casa, ma si può essere miseri ma onorevoli. La miseria non è solo la povertà estrema delle cose, ma soprattutto la povertà estrema dell’anima e non basterà nessuna ricchezza a colmarne i vuoti e a rammendarne i buchi.

L’estate è la stagione assoluta, la stagione della terra di Camus, l’epoca delle virtù e della luce, la stagione che esiste e si rivela come invincibile anche nel cuore di un inverno, reale o metaforico ha poca importanza.

Il mare non è solo l’acqua che abbraccia le terre. Il mare è uno stato d’animo, il mare tutto accoglie e tutto restituisce. I tesori sommersi sono tali solo perché noi possiamo continuare a cercarli. Il mare accompagna il pensiero e il respiro, ci fa tornare bambini e gioiosi.

Come questo mare dalle rive di sabbia e pochi scogli dove stiamo leggendo questa nuova lista di parole preferite che è quella di Albert Camus.

“Le mie dieci parole preferite: il mondo, il dolore, la terra, la madre, gli uomini, il deserto, l’onore, la miseria, l’estate, il mare”.

"Mes dix mots préférés: le monde, la douleur, la terre, la mère, les hommes, le désert, l'honneur, la misère, l'été, la mer".

Albert Camus, Carnets III (1951-1959)

 

Prepararsi all’addio è tratto dalla mia prima raccolta Il calvario della rosa, Moretti&Vitali 2004


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