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lunedì 2 novembre 2015

La scrittura e il tempo presente: invisibili tra gli alberi, le onde, i venti e i suoni

Commentando La signora Dalloway, la Woolf disse che "il tempo non esiste": frase che rivela come perfino gli scrittori più intelligenti e coscienti di sé ignorino la natura dei propri libri. In realtà La signora Dalloway restituisce nel modo più grandioso e sottile il tempo, ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, scandito dai pesanti rintocchi dell' orologio. Forse nessuno scrittore ha mai reso così felicemente l'incessante fluidità del tempo: un tempo tutto presente, perché anche il passato è riportato al livello del presente. Non è fatto di eventi, ma di istanti - il fremito, lo slancio dei puledri al galoppo, un giornale che vola in aria, una veletta per signora che fluttua, tende gialle che palpitano, un biroccino che sferraglia per le strade quasi deserte: minuti impalpabili, che nessuno strumento di precisione può registrare, e che pulsano e vibrano e battono come un cuore. Se ascoltiamo più attentamente, ci accorgiamo che questa vibrazione incessante è composta egualmente d'aria e d'acqua. Tutta la sostanza di Londra è ariosa e liquida, liquida e ariosa; e gli uomini sono sparsi dovunque in questa atmosfera, invisibili tra gli alberi, le onde, i venti e i suoni. 

Pietro Citati
I fantasmi di Virginia Woolf
Repubblica 20 gennaio 1999

venerdì 2 ottobre 2015

Scrivere è volgere l'esperienza. con una lenta rotazione, verso la luce

(...) Soprattutto era un'estranea: una straniera, come Kafka. Se voleva scrivere, se cercava di diventare completamente straniera per trovare una patria, - doveva affondare la penna in questa mancanza, in questo lato nudo, misero, spoglio, che giaceva là in fondo, sotto i suoi splendori apparenti e le sue ricchezze da pappagallo. Non era mai esistita una creatura che conoscesse una così ricca mancanza. Portava con sé reti prensili, mobili, onniavvolgenti: le quali coglievano migliaia di impressioni e di sensazioni, e di sottoimpressioni e di sottosensazioni, sempre più impalpabili e molecolari. Esse non restavano mai isolate: perché le reti le stringevano e le fondevano tra loro, formando delle "perle agglutinate", dei "grappoli affascinanti", delle "ghirlande". 
Questa, non altra, era la felicità: perle, grappoli, ghirlande, che, non si sa come, avevano tutti qualcosa di liquido, come se fossero condensazioni della sostanziale liquidità della vita. Oppure la felicità era "un certo splendore nello sguardo", diceva echeggiando forse senza saperlo Tolstoj, quando parlava di Natasa Rostov e di Anna Karenina. 
La felicità è quando, nelle profondità degli occhi, si aprono "delle caverne illuminate", che splendono perfino nei tristi vagoni della metropolitana; e la letteratura è "una caverna illuminata" da una luce che viene contemporaneamente dal di fuori e dal di dentro. Come dice un passo bellissimo della Signora Dalloway, la Woolf aveva appreso l'arte più ardua. 
Teneva l'esperienza, tutta la propria esperienza, anche quella più desolata e terribile, nelle proprie mani: la possedeva; e la "volgeva, con una lenta rotazione, verso la luce".

Pietro Citati
I fantasmi di Virginia Woolf
Repubblica 20 gennaio 1999

venerdì 4 settembre 2015

Tutto doveva essere scrittura

(...) Dietro le lettere, esisteva per la Woolf un secondo livello di scrittura: quello del Diario. La voce spumeggiante della conversazione e della corrispondenza si placava: ora parlava, a bassa voce, quasi in silenzio, con se stessa, qualche volta con la sua anima. Non doveva più sedurre nessuno, né essere sedotta da nessuno. Poteva scrivere sempre sul diario, anche quando era troppo turbata per leggere o comporre romanzi. Era l'assoluto confidente: l'amico col quale poteva aprirsi sempre; sebbene non gli dicesse mai tutto, perché il luogo 
dell'assoluta rivelazione era soltanto la letteratura. Le dava rifugio, riposo, calma, certezza: sopratutto fondamento; senza di esso, si sentiva perduta. Voleva che nella sua vita non ci fossero tempi vuoti: tutto doveva essere scrittura, tranne quel poco che si dissipava nelle parole parlate. 
Così si esercitava: faceva le sue gamme; lavorava a certi effetti, scioglieva e slegava lo stile. Una volta, pose addirittura il diario al di sopra dei romanzi. Pensò a un libro fatto interamente, unicamente e senza riserve di pensieri. "Supponiamo che io possa afferrarli prima che si cambino in opera d' arte. Afferrarli al volo quando ci vengono inopinatamente allo spirito". (...)

Pietro Citati
I fantasmi di Virginia Woolf
Repubblica 20 gennaio 1999

mercoledì 3 giugno 2015

Faccio il mercante persiano, il venditore d’acqua e di fumo, di fumate di zolfo e decotti ipnotici, di lampade magiche e incantesimi

Quando Goffredo Parise giunse a Roma nell'aprile del 1960, a trent'anni, scrisse una bellissima lettera a Giovanni Comisso. «Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la mia fantasia… Mi intano in questa Roma di papi e di topi, mi imbuco nelle baracche e nelle strade, guardo le nuvole che passano sopra alle cupole di questa città di Aladino, rapide e gonfie quasi di sangue, con un leggero ma costante fruscio come di marina. Vivo intensamente ancora i giovani anni che mi restano, nel modo che mi è più congeniale, nell'estro e nel disordine dell’avidità, nel sogno e nell'avventura. Faccio il mercante persiano, il venditore d’acqua e di fumo, di fumate di zolfo e decotti ipnotici, di lampade magiche e incantesimi». Era veloce: supremamente veloce nelle sensazioni, nei sentimenti e nei pensieri: veloce nello slanciare il corpo e l’intelletto in ogni possibile avventura, già annoiato dal successo che lo aveva raggiunto troppo presto e sazio persino del proprio talento di artista.
Aveva conosciuto qualche tempo prima Carlo Emilio Gadda; e fu affascinato da lui come da nessun altro essere umano. Lo ammirava: la sua ammirazione si scioglieva in una sorta di rapida liquidità dell’animo, in una ineffabilità senza precetti. Lo rappresentò in una bellissima prosa, L’ingegnere. «L’ingegnere si fermò sulla porta, interdetto. Iniziò qualche passo verso l’esterno, al passo, senza avanzare, come a preparare l’avvio di un moto a venire: ma subito il pensiero rallentò il ritmo di una tale propulsione e i piedi nelle scarpe si ritrovarono fermi sullo zerbino, più fermi di prima. Sgranò gli occhi chiari e pensosi, come a dire: “E adesso?” Di là, e ancora di là, oltre la grande aiuola deserta, da attraversare per giungere a casa, di là stava l’improbabile, l’esterno: che non aveva voglia di incontrare; con cui non intendeva discutere».


incipit della recensione di Pietro Citati 
all'epistolario di Goffredo Parise e Carlo Emilio Gadda sul Corriere della Sera del 31 maggio 2015
Se mi vede Cecchi, sono fritto
corrispondenza e scritti 1962-1973
Adelphi 2015

sabato 16 maggio 2015

Quando trovo una pagina bianca da scrivere, respiro

Tra il 1955 e il 1990, Elena Croce e Maria Zambrano scambiarono moltissime lettere, che ora vengono raccolte in un bel libro curato da Elena Laurenzi, A presto, dunque, e a sempre (Archinto). 
Erano molto diverse: nella mente, nella cultura, nelle inclinazioni; ma tra loro nacque subito un'amicizia, che affondava nelle regioni più intime e segrete dell'animo. Erano legate, senza che noi possiamo dirne esattamente la ragione. Bastava che l'una pronunciasse una parola, perché nell'altra si risvegliasse un'emozione, a volte quasi estatica, di cui non finiamo di raccogliere gli echi.
Maria Zambrano aveva una geniale immaginazione filosofica, che cominciò a sviluppare all'ombra di Ortega y Gasset, e che si nutriva di una ricca fantasia lirica e ritmica. Per il suo pensiero, la scrittura era essenziale. "Il tono, il ritmo e la melodia e, se la si ottiene, la cadenza - la musica insomma, è essenziale nella comunicazione del pensiero". Le parole scritte si immergevano nella fluida mobilità della vita. "Tu sai - scriveva - quanto mi piace immergermi tra la gente, camminare per le strade, mescolandomi, essere come una spugna che si imbeve di quel che c'è nell'ambiente". "Quanto ho scritto in vita mia! Quando trovo una cartella bianca respiro".

incipit della recensione, pubblicata sul Corriere della Sera di venerdì 8 maggio 2015, che Pietro Citati ha dedicato all'epistolario di Maria Zambrano e Elena Croce.

giovedì 29 gennaio 2015

Con la felicità profondamente addormentata sul tetto

Tu che scrivi ad un piccolo tavolo, io che aggiusto dei fiori e poi mi siedo a scrivere anch'io. Noi che raccogliamo pigne, legni sparsi e brughiera per il nostro fuoco. Ho pensato a che cosa avrei pronto per te, minestra e forse pesce, caffè, pane tostato sulla carbonella, un barattolo di marmellata, e un mazzo di rose. E poi ho pensato a notre bon lit à nous deux tous seuls, tous seuls, caché dans la nuit. Il fuoco che scoppiettava appena, il mormorio del mare..., con la felicità profondamente addormentata sul tetto, la testa sotto l'ala, come una colomba. E poi ho veduto noi svegliarci il mattino e mettere sul fuoco la grande cuccuma e aprire la porta alla domestica, che appende il suo scialle alla porta della cucina: "Vous savez, il fait beau...".

frammento di una lettera di Katherine Mansfield a John Middleton Murry
dicembre 2015

in Pietro Citati
Vita breve di Katherine Mansfield
Rizzoli 1980

domenica 27 luglio 2014

Scrivere per cinquantatré giorni di indemoniata dettatura

Henri Beyle terminò la Vita di Henry Brulard nel marzo 1836, raccontando il suo primo arrivo a Milano nella primavera del 1800, a diciassette anni. Era una giornata di maggio. Entrò a cavallo nel magnifico cortile della Casa d’Adda, ammirando tutte le cose. Salì per uno scalone superbo: era la prima volta che l’architettura produceva il suo effetto su di lui. Presto gli portarono delle eccellenti cotolette impanate, che per molti anni gli ricordarono Milano. 
«Dalla fine di maggio al mese di ottobre o di novembre, conobbi un intervallo di felicità celeste, folle e completa».
Il 4 novembre 1838, trentotto anni dopo, Stendhal era a Parigi, nella sua abitazione di Rue Caumartin 8, dove cominciò a dettare La Certosa di Parma ad August Dupont. Non sopportava i progetti, i piani, le lente, sistematiche, faticose costruzioni: progettare un romanzo — diceva — gli «ghiacciava l’ispirazione». Dettare, invece, faceva emergere l’immensa fluidità orale della scrittura: gli dava estro, velocità, felicità, leggerezza, quell'allegro , in cui vedeva l’unico tono possibile della letteratura.

incipit dell'articolo di Pietro Citati

La Certosa di Parma. Quei cinquantatré giorni di indemoniata dettatura
Corriere della Sera domenica 15 giugno 2014

sabato 8 marzo 2014

Qualunque cosa sembrava all'improvviso materia per la poesia

"Caro Robert, se sapessi quante conversazioni immaginarie faccio con te tutto il tempo".
"Quando penso a come mi sembrerebbe il mondo e la mia vita se tu non fossi presente in tutti e due - mi sembrerebbe molto vuoto, credo".
"Da quando ho visto alcune delle tue poesie ho sentito un meraviglioso senso di sollievo, come se le avessi scritte io".
"Tutte hanno quella presa sicura, come se tu avessi attraversato un periodo in cui qualunque cosa sembrava all'improvviso materia per la poesia - neanche materia, sembravano essere poesia, e tutto il passato era illuminato qua e là da lunghi raggi, come l'alba lungamente attesa".
(...)
Elizabeth Bishop parlava molto meno volentieri di se stessa di quanto lo faceva Lowell: un vero poeta, pensava, doveva nascondere l'ego e le sue, quasi sempre infelici vicissitudini. 

frammenti della recensione che Pietro Citati ha pubblicato sul Corriere della Sera di martedì 25 febbraio 2014, dedicata all'epistolario di

Elizabeth Lowell e Robert Bishop
Scrivere lettere è sempre pericoloso
Corrispondenza 1947-1977
Adelphi 2014


sabato 5 ottobre 2013

Guardare e scrivere

Una finestra è un punto di osservazione da cui guardare il mondo esterno, che fluisce sbadato e insondabile, ed è insieme uno squarcio attraverso il quale spiare la vita, sempre misteriosa e inafferrabile, che scorre e si consuma in stanze sconosciute, ma è anche uno specchio in cui il flâneur, l'uomo che vagabonda per la strada cercando di cogliere il segreto e l'essenza di una città, scorge insieme l'interno di una casa e il riflesso del suo volto, scopre se stesso immerso nel fluire delle cose e indistinguibile, nel suo essere più profondo e ignoto, da esse. Così accade ad Antonio Muñoz Molina, famoso scrittore che camminando per New York diviene un passante anonimo e sconosciuto non solo agli altri ma pure a se stesso, in quel vero capolavoro che è il suo libro Finestre di Manhattan, uscito alcuni anni fa e splendidamente tradotto da Maria Nicola. Pochi libri dimostrano con altrettanta forza poetica la verità di quella parabola di Borges che narra di un pittore, il quale dipinge paesaggi - alberi, città, montagne, fiumi - e alla fine si accorge di aver dipinto il proprio autoritratto, non perché abbia alterato soggettivamente la realtà, ma perché la sua identità - come quella di ognuno di noi - consiste nel modo in cui vede, sente, coglie, ama o respinge il mondo, le persone e le cose. 

Pietro Citati
incipit della recensione pubblicata sul Corriere della Sera il 27 maggio 2013

venerdì 14 giugno 2013

Quel gioco leggero di scrivere romanzi

Durante tutta la vita, Kawabata ha pensato che lo scrittore e il pittore non nascono in una sola generazione: essi sbocciano dopo che il sangue degli antenati ha attraversato molte generazioni. Le virtù artistiche si trasmettono col tempo. 
Soltanto quando il sangue delle antiche generazioni perde vigore e sta per estinguersi, il grande scrittore e il grande pittore vengono alla luce, come l'ultimo bagliore di una fiammata. 
La letteratura e la pittura sono dunque arti della decadenza: fiori del tramonto di una cultura.

Pietro Citati su Yasunari Kawabata
incipit della recensione pubblicata su Repubblica
del 30 maggio 2003

giovedì 12 luglio 2012

La conversazione è il più accessibile fra tutti i piaceri

Credo che questa terra gli sembrasse, nell' insieme, un luogo piacevole e frequentabile: c'era ancora mare, dove immergersi; boschi, da percorrere; città antiche da visitare; persone intelligenti e divertenti, con cui discorrere. Senza dirlo a nessuno, si era scelto una parte: quella di smussare gli angoli, di levigare le asperità, di correggere le traiettorie sbagliate, di armonizzare le note del confuso concerto umano, di sciogliere i nodi, di conciliare e, come diceva Henry James, di connettere, connettere... Discorreva volentieri. Come dice Stevenson, pensava che "il primo dovere di un uomo è quello di parlare. Quaggiù è la nostra principale occupazione, e la conversazione è il più accessibile fra tutti i piaceri. Non costa nulla, è tutto beneficio, completa la nostra educazione, sigilla e intrattiene le nostre amicizie... L' eccitazione di una buona conversazione dura a lungo nel sangue, e si ha il cuore che continua ad ardere, il cervello che bolle, mentre la terra danza intorno a te, negli ori del tramonto...".


Pietro Citati 
Una vita all'ombra di Picasso
in ricordo di Piero Crommelinck,
incisore e collaboratore di Picasso
la Repubblica 06/07/2001

venerdì 25 maggio 2012

Lo scrittore si trasforma in una vasca di pietra

Kundera avrebbe voluto abbandonare silenziosamente la creazione trasformandosi "in una fontana, in una vasca di pietra, nella quale l'universo cade come una tiepida pioggia".


Pietro Citati su Milan Kundera
La Repubblica del 5 febbraio 2002

giovedì 31 marzo 2011

Katherine Mansfield a Bandol

Quando arrivò a Bandol, dopo tre giorni di viaggio, era spossata. Si sentiva come una mosca, caduta nel latte e ripescata, ma con le zampe e le ali ancora troppo bagnate per potersi muovere. Bandol la incantò di nuovo: smagliante di luce, con le splendide palme e le montagne violette nell'ombra e verdi di giada nel sole. Il mare era così trasparente che si poteva vedere, come in una carta geografica distesa sotto le onde, un paese sconosciuto con laghi e baie e foreste. La costa era rosa come la polpa di una pesca. Gli uomini stavano al largo a pescare: o riparavano e incatramavano le barche sotto le sue finestre; e lei sentiva i colpi ripetuti dei piccoli martelli, e qualche zaffata di catrame irrompeva attraverso i rami della mimosa. I vecchi dipingevano le barche, le vecchie filavano la lana o rammendavano le reti, le ragazze facevano ghirlande di fiori gialli. Vide una farfalla, maldestra sulle ali, che barcollando si godeva il sole; e le sembrò di scorgere una sorella. Così, barcollando e maldestra anche lei, tornò nei luoghi che avevano conosciuto il suo amore. Qui c'era il campo dove avevano contemplato gli anemoni: qui il muro dove le lucertole prendevano il sole; qui i mandorli fitti di boccioli bianchi e rosa. Poi ritornò a Villa Pauline. "Quando sono arrivata alla veranda," scrisse a Middleton Murry "e ho guardato di nuovo il mandorlo, il piccolo giardino, la tavola rotonda di pietra, il sedile intagliato nella pietra, gli scalini che scendono nella cantina, e poi ho guardato in su, la nostra casa rosa con le conchiglie dipinte sulle finestre e le persiane di uno strano blu grigio, ho pensato che non ne avevo mai, nei miei più felici ricordi, afferrato tutta la bellezza". Entrò nella casa, e vide la padrona con lo stesso scialletto nero di una volta, magra e grigia come allora. "Vous désirez, Madame?" disse. La Mansfield riuscì appena a dire: "Bonjour, Madame, Vous m'avez oubliée?". "Ah" gridò lei "riconosco la vostra voce, entrate, entrate, Madame..." Le due donne sedettero attorno alla tavola da prazo: madame Allègre al posto di Middleton Murry, lei con la schiena al fuoco, nel suo posto di allora, e discorsero a lungo. La Mansfield sentiva sé stessa rispondere, sorridere e lisciare il manicotto, discuterela mancanza di carne, l'orrido pane e i prezzi proibitivi e "cette guerre": intanto le pareva che da qualche parte, al piano di sopra, Middleton Murry e lei fossero distesi, simili ai due piccoli figli di Clarence nel Riccardo III, soffocati e uccisi sotto i guanciali, e la padrona e lei facessero la guardia come due vecchie rugose. Poteva a stento guardare la stanza. Quando scorse la propria fotografia sulla parete la fotografia che Middleton Murry aveva lasciato, non riuscì più a resistere. Lasciò Villa Pauline, e rimase a lungo appoggiata al muro, al fondo della piccola strada, guardando il mare violetto che batteva forte contro uno strano e scuro raggrumarsi di alghe. Mentre scendeva le scale, cominciò a piovere. Grandi e riluttanti gocce le caddero sulle mani e sul viso. La luce del faro lampeggiava nel buio, mentre un brulichio di soldati di colore prendeva a calci qualcosa nella sabbia tra le palme - forse un cane morto o un gattino legato: certo una parte del suo cuore. Comprese che la felicità di Bandol era perduta per sempre, sepolta nel pozzo di solitudine dove aveva delirato sognando di vergare le pagine dell' "Aloe" con la mano del fratello morto. Tutto, a Bandol, era mutato, come lei era mutata. Tutto era degradato, sciupato, tumefatto. Nel giardino di Villa Pauline non c'era un solo fiore: non una giunchiglia, non una rosa, non un arancio. I bei gerani dell'albergo erano diventati ispidi cespugli in mezzo a bottiglie rotte e a pezzi di tubo di piombo. La tabaccaia era cambiata. La macellaia era cambiata. La pasticceria era chiusa, con grandi manifesti tristi incollati alle finestre. Nessuno nel paese si ricordava di lei. Anche il tempo cambiò all'improvviso: il mare si sollevò e fumò come una mandria di mostri impazziti, le anime perdute passarono in cielo turbinando, il vento ululava, le persiane cigolavano, e il vecchio albergo deserto pareva su un isola - lontana, molto lontana. Brano tratto da Vita breve di Katherine Mansfield di Pietro Citati