Visualizzazione post con etichetta Gianna Manzini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Gianna Manzini. Mostra tutti i post

domenica 10 maggio 2015

Ognuno ha il suo arco d'orizzonte. Ad alcuni basta per abbracciare un po' di mondo. A lui per escluderlo

(...)
Quasi in coro, gesto e voce: « I padroni non aprono, non aprono mai ».
Una selva di « no », un intrigo di « ma », uno stillicidio di « è inutile », « è impossibile ». Ma il silenzio, che si risaldava rapidamente fra una frase e l'altra, inquietava di più. « Chi ha insegnato la musica a questi morti? » aveva gridato il poeta.
L'aria diventava stregata. SI aggravava la sera insieme col nostro turbamento. Di fianco a « l'arida schiena del formidabile monte », spuntò la luna. Al piede del colle, luccicava il mare.
Per qualche minuto la villa fu ancora un blocco d'ostilità.
Poi la porta si aperse. Due figure si profilarono. Il conte da Gavardo, la duchessa Carafa d'Andria. Si scusarono amabilmente di averci fatto aspettare. A nostra volta ci scusammo. Soli, in tanta rovina, essi, ospiti d'uno spettro, s'erano forse persuasi  di dover rifiutare tutto, anche il paesaggio, cui chiudevano in faccia le finestre.
La scala, la saletta centrale e, di fronte alla scala, la porta che ammetteva alla camera del poeta. La visitammo al lume di candela: il lume che ne rischiarò le lunghe veglie.
Un letto stretto; il modesto tavolino da lavoro al lato della finestra; il calamaio, l'asticciuola. In un angolo, il lavabo. Chiusa la persiana che un tempo si aprì sul balconcino. Su un cassettone, qualche cimelio e i calchi della maschera funebre; fotografie di famiglia alle pareti; l'atto di morte. Lo lesse uno di noi, a bassa voce, avvicinando la testa e la candela al documento sottovetro.
Aveva raccontato, l'amico Ranieri: « Aperti più dell'usato gli occhi, mi guardò fisso più che mai. Poscia "Io non ti veggo più", mi disse sospirando. E cessò di respirare ».
Soggezione, fascino, il senso annichilente di quella grandezza: di quel dolore: una profonda angoscia piegava le ginocchia.
Quanti persuasivi archi disegnavano i lumi, laggiù, nella città adagiata in faccia al mare.
Lo sguardo del poeta li avrebbe esclusi. Immaginarne il giro, sentirvisi sollevati, percorrerlo, fu un approdo fuggitivo in uno spazio straniero, dove il cuore vacillava. Ognuno ha il suo arco d'orizzonte. Ad alcuni basta per abbracciare un po' di mondo. A lui per escluderlo.

Gianna Manzini
Album di ritratti
La Villa delle ginestre

Mondadori 1964

ancora un frammento dedicato a Giacomo Leopardi.

sabato 9 maggio 2015

Scrivere poesia è sentire la nuca dolente per un continuo sciogliersi e serrarsi nodi d'energia

Con la palpebra abbassata, pesante, il suo viso esprimeva sdegnosa fierezza; e trapelava un rapporto inafferrabile, ma non per questo meno certo, fra quella palpebra immensa e la spalla sinistra alta, portata in avanti: quasi un modo di ricusare distanziando. Se invece guardava intorno, quel suo veder poco illudeva di un'indulgente premura che dava agli zigomi alti una dolcezza come di sorriso.
Ma il suo vero sguardo lo trovava allorché fissava alto e lontano. E come, alzando gli occhi, alzava anche la testa, lo sforzo di tenere eretto il capo, quel sentirsi la nuca dolente per un continuo sciogliersi e serrarsi nodi d'energia, quello squilibrio fra la persona portata a piegarsi e il gesto volitivo, quasi di protesta: tutto ciò, oltre a rendere più acute le pupille, rivelava una straziante contraddizione; ma anche un vittorioso fuoco dell'anima.
Volto e atteggiamento senza carità, né speranza.
Così mi rappresentavo Giacomo Leopardi, quando, da Napoli, decidemmo di andare alla Villa delle ginestre.
(...)

Gianna Manzini
Album di ritratti
La Villa delle ginestre

Mondadori 1964

giovedì 7 maggio 2015

Un album di ritratti che è il ritratto di Gianna Manzini

Quando scopro o riscopro una scrittrice o uno scrittore che mi catturano divento ossessiva e non ho pace sino a quando non avrò letto la sua opera completa. Posso fermarmi, tornare indietro, appassionarmi e pentirmi, ma non cedo fino all'ultima parola. Poi è la volta delle biografie e autobiografie, dei diari, degli epistolari, dei profili critici. E tutto questo paesaggio di libri va poi a popolare un ripiano della libreria perché i libri di uno scrittore amato sono un mondo che deve essere contiguo e completo. Ora compiere questa operazione, che ha una sua logica e un suo intrinseco piacere, diventa sempre più difficile perché nel tempo gli scrittori e le scrittrici che mi accompagnano sono diventati via via più numerosi ma oggi ho la necessità di trovare spazio per un'autrice "totale" che mi sta incantando e che in passato ho un po' snobbato ma che ho deciso di riprendere in mano leggendo il profilo che le ha dedicato Grazia Livi nel bellissimo Le lettere del mio nome. Così ho iniziato a comprare vecchie edizioni - cosa c'è di più bello di una vecchia edizione? - dei libri di Gianna Manzini su Maremagnum, che è una libreria di librerie dove si trova l'introvabile, avendo una smodata passione per i libri di carta, soprattutto se stampati nel secolo scorso. Così ho iniziato a leggere il suo Album di ritratti che è un capolavoro ricchissimo, strabordante di riflessioni sulla scrittura e sul mestiere di scrivere e una galleria di ritratti degli scrittori e delle scrittrici amate che spesso furono anche suoi amici nella prima parte e di persone qualunque nella seconda e "parole povere" sulla "diciamo vocazione", "diciamo mestiere" della terza. Gli scrittori di cui uno scrittore scrive entrano a far parte della sua biografia, della sua opera e di quel canto e controcanto che rimanda da un'opera all'altra, di quel dialogo che varca il tempo e lo spazio e che è una delle esperienze più ricche che la vita ci offre. Così la Manzini sta ora con Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Grazia Livi, Agota Kristof, Simone de Beauvoir, Marie Cardinal, e la Plath e la Sexton e Janet Frame e qui mi fermo per non rendere infinita la mia lista che è comunque desumibile dalle "etichette" di questo blog. Amo e ho bisogno di parole scontornate e pesanti come cose, di raccogliermi l'anima e di tenerla in fronte come la lampada dei minatori, per poter entrare nel cerchio di chiarità che la vita ci offre anche quando leggiamo e quando scriviamo. Così andrò avanti e, mano a mano che entrerò in questo libro della Manzini e delle sue parole, a copiarne frammenti per questo blog che è diventato come uno scrigno dei pirati, pieno di tesori che scelgo e getto nell'oceano come un messaggio in bottiglia, perché raggiungano altri lidi e altri lettori.

E.P.

Le parole scontornate, imperfette, pesanti come cose che permettono al silenzio di filtrare in esse o di circondarle

(...)
E Giovanna non è soltanto l'innamorante compagna di scuola, che " così Giovanna, col suo passo, le sue gambe, la sua nuca, il suo verde e il suo azzurro; così Giovanna", e neppure è la magia d'un nome, ma anche il senso di "una immensa bontà di perdono".
Le parole hanno per Vittorini un'attirante necessità d'imperfezione. Egli le vuole imperfette, scontornate, improprie nel senso di essere aperte all'umano; d'indurre in esse, mutevolmente, l'umano. E al tempo stesso pesanti come cose, da usare come cose, cariche d'una loro potenza affermativa. Risulteranno dunque poche e ripetute col gusto d'una variazione musicale. E dicendo "scontornate", non alludevo a un alone poetico. Tutt'altro. Mi riferivo a una 
non-precisione che permetta al silenzio di filtrare in esse o di circondarle. 
Un silenzio che le renda sospette, che le diffidi, insomma che le rinnovi, togliendole un poco al loro significato originario e alla loro esattezza povera.


Gianna Manzini
Album di ritratti
Vittorini e il Garofano rosso
Mondadori 1964

mercoledì 6 maggio 2015

scrivere è diventare un setaccio che vagli un luminoso delirio, per dare alla vita ciò che ad essa manca di luce per essere più vera

Il garofano rosso di Elio Vittorini ha il fascino dei libri della prima giovinezza, quando il talento è una specie di follia e vivere è come viaggiare in incognito con se stessi. Allora uno non fa che registrare ciò che il suo ospite misterioso gli sussurra all'orecchio. Uno a dettare, l'altro a scrivere: è una corsa gioiosa per tenersi dietro. Da ciò, un Vittorini ansante, trafelato, con i suoi "altro che" come spallate, il suo interrogare tra sbalordito e ossessivo, la sua furiosa vivezza.
E un altro Vittorini attento, attentissimo, alla sospetta naturalezza del suo dettato; a quel flusso di vita incontrollata, eppure dipendente da ragioni d'armonia, da ragioni matematiche e poetiche. Un Vittorini cauto di fronte all'incanto di quella sua immobilità segretamente attiva. 
Fra tanta finta inerzia e tanta focosa attività, Vittorini imparava che scrivere è diventare un setaccio che vagli un luminoso delirio, per dare alla vita ciò che ad essa manca di luce per essere più vera. Imparava che scrivere è essenzialmente non scrivere. Cose, più che parole. E che sfuggano alla prigionia della denominazione esatta, la quale le fisserebbe in un senso avventizio e obbligato al vivere sociale. Per cui "la cava", nel linguaggio dei ragazzi del Garofano rosso, non è soltanto la bottega del fabbro tipografo; è anche "quell'ora speciale di buio e di lumi accesi, tutti quei vicoli là presso in quell'ora, pieni di scalpiti misteriosi di cavalli, e tutte le cose che avevamo da dirci dentro, rosicchiando castagne secche, di donne, di terre, di bastonate, d'aeroplani e d'automobili, di gioco di calcio e libri d'avventure"
(continua)

Gianna Manzini
Album di ritratti
Vittorini e il Garofano rosso
Mondadori 1964

martedì 5 maggio 2015

Un'attenzione non generica, una monacazione non palese, una scabrosa libertà, un cerchio di chiarità: la vocazione alla scrittura secondo Gianna Manzini e Virginia Woolf

(...)
Forse ognuno di noi percepisce la richiesta di un'attenzione non generica, d'un amore non generico, da parte di quest'universo che è così imponente e tuttavia così bisognoso di parole nostre, di nomi, di colori, di forme, di voci, in cui, per merito nostro, essere, di continuo, diversamente vivo, più vivo.
(...)
Sembra di correre un rischio. Ed effettivamente un rischio esiste: quello di diventare un po' stranieri, un po' sospetti per la maggior parte del nostro prossimo, ed anche quello di violare, non si sa con qual diritto, un'intimità, un silenzio geloso delle cose. È un'impressione in cui giuocano pudore, ansietà e orgoglio.
Ma nel momento in cui uno sta per rinunciare a questa specie di mandato, sempre avvertirà qualcosa che somiglia ad un'intimazione o a un gemito, per cui capisce che si tratta d'un appello speciale della vita, d'un suo chiamarci, quasi per nome, con un nome destinato esclusivamente a noi, e che ci appartiene, come non ci appartenne mai nessuno dei nomi che ci fermarono.
Ebbene, in me, il coraggio di non rinunciare si chiama precisamente Virginia Woolf. 
La leggevo e imparavo a raccogliermi l'anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori. Devo a lei questa specie di monacazione non palese: questa sottomissione ad un impegno che è tanto più rigoroso quanto meno precisato, dal quale deriva una scabrosa libertà.
Raccogliermi l'anima e tenerla in fronte come la lampada dei minatori: nient'altro che una particolare attenzione, in virtù della quale le cose escono da un'ombra che le preserva, un'ombra fermentante, faticosa, bruta, l'ombra dell'attimo che precede una nascita, per entrare in un cerchio di chiarità.

Gianna Manzini
Album di ritratti
La lezione della Woolf
Mondadori 1964

martedì 21 aprile 2015

Scrivere è inventare il silenzio e farne una condizione di vita

Organizzai in modo diverso la mia giornata. Non mi era stato forse detto che nella mia scrittura s'intravedeva qualcosa di diverso? 
Era l'altra identità che s'affacciava al reticolato delle parole consumate, piegate a mille usi, e si guardava intorno. 
Era lei che aveva bisogno di essere alimentata. 
Come? Lo capii gradualmente. 
Prima di tutto preparandole un'area di raccoglimento e di piena gratuità. L'unico committente era interno e siccome era molto debole, bastava il minimo pretesto perché si confondesse: una visita, un mal di denti, un litigio, un capriccio, una cattiva lettura, un dovere. 
Dovetti irrobustire la sua voce e cercai di ridurre certe interferenze, anche se questo aumentava la mia cattiva coscienza.
Dovetti inventare il silenzio e farne, in certe ore, la mia condizione di vita.
Nel silenzio mi imposi un lavoro assiduo, come un falegname che pialla il legno. 
Volevo ridestare da quel giacimento di cui ho detto prima - oscuro, grumoso - il maggior numero di parole possibili. E di volta in volta volevo legare quelle parole al bagaglio in trasformazione dei miei pensieri e dei miei sentimenti. 
Col tempo si creò un ricco scambio fra il sentire e le parole che lo avrebbero rivelato: scambio che la scrittura rese visibile.
Non una grande scrittura, una scrittura che faceva il suo tirocinio un po' a sbalzi. Che insisteva, si ripeteva. Che cercava di non disgregarsi nei compiti familiari - spesso noiosi - anzi li teneva insieme con la volontà di viverli fino in fondo.
Imparai che non bisogna scartare nulla di una vita: ogni minima cosa, anche la più trita, è seme per l'esperienza.
A poco a poco la mia identità prese a riconoscersi - e a sfaccettarsi - attraverso le parole scritte e le parole presero a radicarsi nell'identità. 
Il linguaggio - uno scavo nella coscienza - si approfondì e mi promise di diventare il mio fedele specchio. 
Quante severe implicazioni, in questo miraggio!  Quanta concentrazione! 
Ma era finalmente un lavoro rivolto all'interno, è sempre questo che intendo quando dico "scrittrice". 
E quando dico "giornalista" intendo l'opposto: una che si volge impulsivamente ai fatti, e li insegue, e crede di afferrarli al volo, fin quando si trova lontanissima da sé, dispersa e consumata da una vana corsa.
Allora il principale problema - lo fu per me - sarà di rientrare a casa
La casa del linguaggio è approdo e permanenza.
Per usare le parole di Gianna Manzini - le scrisse nel '45, a proposito di Virginia Woolf - il problema sarà imparare "a raccogliersi l'anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori". 
Fu uno stato di necessità per lei. Dal quale scaturì un modo di essere scrittrice che volle definire così: una specie di "monacazione non palese".
Trascrivere oggi questa definizione fa un certo effetto. Nulla potrebbe apparire più inattuale e incongruo. Ma la Manzini aggiunse che, da quel modo di essere, le derivava una "scabrosa libertà".
1993


Grazia Livi
Narrare è un destino
La Tartaruga edizioni 2002