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domenica 17 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/70: un mattino domenicale e le mele di Cézanne


Ecco è domenica mattina, se non ho contato male la dodicesima da che ho iniziato la clausura, ma la mente ancora non si è abituata al nuovo moto della vita ai tempi del Covid-19, quindi, come ogni domenica mattina che l’ha preceduta, scalpita tra due tensioni opposte che vogliono prevalere entrambe.

Il primo dettato della mente è “usciamo, usciamo subito, andiamo, camminiamo, osserviamo, respiriamo. Come puoi pretendere di scrivere qualcosa di nuovo se non lasci che il mondo ti raggiunga? Su, vai, esci, metti le scarpe, lascia a casa l’ombrello che tanto non piove, vedrai quanto è bello camminare per la città a quest’ora! Certo sarebbe meglio camminare in un bosco o in riva al mare a Mondello, o in Val Zebrù o sulle Dolomiti, ma basterebbe una passeggiata sui Navigli. Ma devi uscire, esci! Perché io (la mente scalpitante) devo uscire per poter scrivere”.

La mente scalpitante sa di mentire, sa che la risposta alla sua domanda “come pretendi di scrivere se non cammini?” è molto semplice: “scriverò a memoria”.

Questa prima tendenza della mente la chiamerò “la passeggiata del sognatore solitario” evocando Jean-Jacques Rousseau e le sue dieci passeggiate filosofiche, il suo ultimo scritto prima di morire. In italiano c’è una bella versione dello scrittore Beppe Sebaste che custodisco insieme a quasi tutti i suoi libri.

Ma non tutta la mente scalpita per uscire, c’è una parte di me, che in queste settimane si è fortificata, che considera la domenica mattina il momento della più profonda riflessione e solitudine.

Sono passate da molto, molto tempo, le domeniche mattina dove andare a Messa era un atto di ribellione, le mattine in cui si puliva casa e si cucinava il miglior sugo del mondo e un arrosto nel forno riempiva di aromi invitanti tutta l’aria intorno. Sono finiti i pranzi domenicali con i genitori, il fratello, poi via via fidanzati e fidanzate, e sempre i parenti, le nonne, gli zii e le zie, i cugini. Da bambina detestavo quelle occasioni tanto quanto amavo i pranzi del sabato, dove ci si trovava dopo la scuola e il lavoro del mattino, a mangiare piatti semplici, quasi sempre una bistecca fritta in un padellino d’alluminio con una grande insalata, a parlare e raccontarsi le cose che erano accadute in un’armonia, con un piacere che nessun altro pasto della settimana concedeva con quella stessa grazia.

Sono passate anche le domeniche delle fughe al lago, al mare o in montagna. Qualunque luogo pur di non stare in questa città assediata dal traffico e dal rumore. Le fughe appartengono alla tendenza “passeggiata del sognatore solitario”, mentre le soste nella quiete di un mondo che si riposava, soprattutto quando i negozi restavano chiusi e non esistevano i centri commerciali, questa dimensione, alimentata di sicuro da un temperamento solitario, appartiene alla tendenza “le mele di Cézanne”, proprio lui il pittore, che quando non aveva l’ispirazione per arrampicarsi a dipingere per la millesima volta la Sainte-Victoire, si chiudeva nel suo capanno, disponeva sul tavolo qualche mela e dipingeva quel che vedeva e anche quello che non aveva mai visto. Creare, scrivere, dipingere o scolpire, è sempre frutto di un’armonia particolare che oscilla tra la visione e il ricordo, non sempre serve avere modelli davanti a sé, basta averli nel proprio teatro interiore.

Una poesia di Charles Tomlinson si fa strada tra le mie parole:

Cézanne a Aix

E la montagna: immobile,
Ogni giorno, come frutta. E diversa, anche,
- Perché irriducibile, perché
Non partecipe del delizioso,
E quindi discutibile,
Né distratta (come chi posa)
Dalla propria posa, e quindi
Due volte discutibile: non è
In posa. È. Spontanea
Inalterabile, una testa di ponte di pietra
A ciò che tangibile
Perché prima d’ora inavvertito. Lì,
Nella gravità sgretolata
Il suo silenzio silenzia, una presenza
Che non si presenta.



L’introduzione del teatro interiore come spazio della creazione placa la mente divisa e oscillante, sprofonda in questo silenzio, e mi concede proprio quella pace silenziosa che apre in me una vastità di universi ancora sconosciuti. Da questi universi, che conosciamo non perché li abbiamo visti, ma perché i loro effetti in questo mondo che chiamiamo realtà, sono esperiti e ben visibili. “Una presenza che non si presenta” mi evoca lo studioso Emile Roux che scriveva di virus e batteri come degli “êtres de raison, esseri di ragione o esseri teoretici, organismi la cui esistenza può essere desunta dai loro effetti nonostante non siano mai stati rilevati direttamente”.

Da questi universi ignoti arrivano messaggi per gli innamorati, una storia non ancora iniziata è preceduta dal suo racconto e da una benedizione, perché il tempo è circolare e gli amanti che si cercano millennio dopo millennio, finiranno sempre col trovarsi in questa o in un’altra dimensione e il loro incontro annuncerà l’alba con versi amorosi e il loro abbraccio sarà come quello del fiume che ha finalmente raggiunto l’oceano.

Anche il giorno si apre come una vasta acqua silenziosa, gli amanti dormono abbracciati, forse il segreto della domenica mattina è proprio questo sonno che è un’altra dimensione dell’esistenza. Niente Rousseau e niente Cézanne, forse domenica prossima, ma oggi abbiamo dormito a lungo, abbracciati come i lupi nella loro tana.

Il cantore del mattino domenicale per eccellenza resta Wallace Stevens, mi congedo molto presto oggi, all'inizio del pomeriggio, con una traduzione che ho rimaneggiato perché quella nel volume non mi soddisfaceva del tutto.


Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda
Caffè e arance su una sedia al sole,
la verde libertà di un pappagallo,
Su un tappeto si fondono a disperdere
Silenzi di un arcaico sacrificio.
Lei sogna un po’ e sente l’oscurità
dell’antica catastrofe, come una calma
Che si oscura tra le luci dell'acqua.
Le arance aspre e le luminose ali verdi
Sembrano cose in un corteo funebre,
che avvolge con le vaste acque, senza suono.
Il giorno è quella vasta acqua, senza suono,
Quieto al passaggio dei suoi passi sognanti
Oltre i mari, verso la silenziosa Palestina,
Regno del sangue e sepolcro.


Abbiamo rubato le arance al sole e il silenzio all’acqua. Al risveglio dovremo incamminarci verso una terra sacra che non ha dimora in questa dimensione. Mute preghiere si levano verso il cielo, abbiamo tutti paura e l’unica risposta alle nostre implorazioni è l’amore che possiamo donarci quaggiù.


Sunday Morning è nel volume Mattino domenicale e altre poesie a cura di Renato Poggioli; Einaudi 1988

Complacencies of the peignoir, and late
Coffee and oranges in a sunny chair,
And the green freedom of a cockatoo
Upon a rug mingle to dissipate
The holy hush of ancient sacrifice.
She dreams a little, and she feels the dark
Encroachment of that old catastrophe,
As a calm darkens among water-lights.
The pungent oranges and bright, green wings
Seem things in some procession of the dead,
Winding across wide water, without sound.
The day is like wide water, without sound,
Stilled for the passing of her dreaming feet
Over the seas, to silent Palestine,
Dominion of the blood and sepulchre.


Cézanne at Aix di Charles Tomlinson è nel volume Nella pienezza del tempo; a cura di Silvano Sabbadini, Garzanti 1987

And the mountain: each day
Immobile like fruit. Unlike, also
- Because irreducible, because
Neither a component of the delicious
And therefore questionable,
Nor distracted (as the sitter)
By his own pose and, therefore,
Doubly to be questioned: it is not
Posed. It is. Untaught
Unalterable, a stone bridgehead
To that which is tangible
Because unfelt before. There
In its weathered weight
Its silence silences, a presence
Which does not present itself.

La citazione di Emile Roux è tratta dal libro della giornalista scientifica Laura Spinney 1918. L’influenza spagnola; traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, Marsilio e Feltrinelli editori 2019





giovedì 24 aprile 2014

La felicità è come la memoria del mondo, puoi solo farne parte

... e anch'io penso oggi che felicità sia una parola nuova e rivoluzionaria. 
Ma cosa significa? Chiedo a Mira, albanese, ex maestra elementare, da molti anni a Roma come babysitter e collaboratrice domestica, se sia felice. “Stamattina sì”, mi dice sorridendo, “perché ho dormito un’ora di più. Mi sentivo riposata e quindi felice, ho preso tutto alla leggera. Altre volte sono in ansia per il ritardo dell’autobus, oggi no”...
   E io, mi chiede, sono felice? No. Perché? Perché ho paura di non riuscire a esserlo, mi frego da solo. Mi chiede comunque un esempio di felicità. Quando ho visto per la prima e unica volta il famoso raggio verde del sole al tramonto, che credevo ormai non esistesse. Dove? A Ostia. E mi viene in mente che, quando prendo la Via del Mare verso Ostia, mi sento sempre bene. Forse felice.
(...)
Così eccomi a Ostia, quartiere balneare di Roma prossimo alla foce del Tevere e all'aeroporto di Fiumicino. È sabato, la luce è perfetta e cammino sul lungomare di ponente, quello più povero, dove si vede ancora il mare. Al ritorno mi fermo a un panificio aperto giorno e notte. È  un punto di riferimento non solo per il pane fresco e le pizze calde, ma anche per mangiare altre cose.
   Il proprietario, Piero Morelli, già presidente dei panificatori di Roma, mi fermò un giorno per parlare di libri, poi mi mostrò il suo studio, una specie di piccolo museo del pane... 
         “Io sono felice perché ho i miei anticorpi, Radio Tre la mattina, i libri, le tue Panchine, Ceronetti, Cioran, mio figlio dietro al banco del panificio che ha l’insegna col nome di mio padre, classe 1909, che dormiva sui sacchi di farina di Piazza Venezia di fianco alla chiesa della Madonna di Loreto, protettrice dei fornai di Roma”. (Intanto annoto: è la durata che fa la felicità, il senso narrativo della propria esistenza, antidoto alla logica della precarietà? Interiorizzare già da giovanissimi la paura di non trovare un lavoro mi sembra un’infelicità recente e crudele, chi l’ha creata? Ai miei tempi non avevo un soldo, ma sarei scappato chissà dove pur di non avere un lavoro fisso).
(...)
Ci sono tanti mondi dentro il mondo. 
(...)
Valeria, avvocato: “Ci si sente felici quando, dopo una perdita o un’interruzione, c’è un recupero dello stato precedente, con una consapevolezza che prima non si aveva, perché si era nello stato naturale, quello senza il senso della perdita. La politica, il mondo di cui parlano i giornali, crea turbamento, ma non influisce sulla nostra felicità di fondo”.
(...)
Il cielo comincia a tingersi di viola e arancio. Mi ha raggiunto un amico poeta, Sergio, ex aviatore che abita qui a fianco (“Sei felice?” “Sì, perché uso lo stratagemma di avere desideri minimi, evitando quelli irraggiungibili”). Nel via vai incontra un ex collega romagnolo, Giulio, pilota ex cassintegrato Alitalia che ora vola sui jumbo cargo di una compagnia con sede a Malpensa. La felicità, dice, è entrare in un panificio a Ostia e trovare un amico fraterno. 
(...)
La felicità è qualcosa che ti attraversa come un fantasma, che non potrai mai prendere né possedere, come la memoria del mondo, qualcosa di cui puoi solo fare parte.


frammenti dell'articolo uscito su Venerdì di Repubblica del 18/4/2014) che si può leggere per intero sul blog di Beppe Sebaste 

sabato 19 ottobre 2013

L'importante è narrare

  Alvaro Mutis è stato lo scrittore più generoso nel mitizzare e rimitizzare di continuo, trasformandola e facendola lievitare, la vita e la cosiddetta realtà. Lo faceva con un costante sorriso di consapevolezza sulle labbra, consapevolezza soprattutto che l’importante è narrare, e che le storie servono a mantenere vivo il narrare, non il contrario; a dare fiducia a quella dimensione al tempo stesso così folle e terapeutica, così sovranamente inutile e necessaria, che è la letteratura.

frammento del post che Beppe Sebaste ha scritto per ricordare Alvaro Mutis

martedì 12 marzo 2013

La parola dei maestri e la poesia


La parola dei maestri coincide almeno in un punto con quella dei poeti: nell’effetto di illuminazione, di evidenza, che essa suggerisce e produce. Accanto alla questione dell’esemplarità, la poeticità della parola dei maestri – e l’ascolto “fluttuante”, il transfert che in questo modo richiama e produce – ha un effetto insieme traumatico e di beatitudine, di sensazione terribile e di sorriso della mente (come lo choc di riconoscere la “parola giusta” in una poesia). 
Come la poesia, la parola dei maestri “crea di continuo delle sinonimie anche con parole che non c’entrano l’una con l’altra, finché i contrari diventano la stessa cosa”. 
I maestri allargano il campo della sinonimia, trasformano le contraddizioni in sinonimi, cioè in evidenze.

Beppe Sebaste
Il libro dei maestri
Porte senza porta rewind
luca sossella editore 2010