martedì 31 gennaio 2017

L'inverno, la sera:lo spazio sembra una stanza foderata in legno

L'inverno, la sera:
                          allora, talvolta, lo spazio
sembra una stanza foderata in legno
con dei tendaggi azzurri sempre più scuri
su cui si smorzano gli estremi riflessi del fuoco,
poi la neve si accende contro il muro
come una lampada fredda.

O sarà già la luna, che, levandosi,
si lava di ogni polvere
e del vapore delle nostre bocche?


Philippe Jaccottet
Alla luce d'inverno
traduzione di Fabio Pusterla
Marcos y Marcos 1997



L'hiver, le soir :
                        alors, parfois, l'espace
ressemble à une chambre boisée
avec des rideaux bleus de plus en plus sombres
où s'usent les derniers reflets du feu,
puis la neige s'allume contre le mur
telle une lampe froide.

Ou serait-ce déjà la lune qui, en s'élevant,
se lave de toute poussière
et de la buée de nos bouches?

lunedì 30 gennaio 2017

Le mutazioni del fuoco

Mutazioni del fuoco: da prima mare, e dal mare una metà terra e una metà fiamma in cielo.

Eraclito
I Frammenti e le Testimonianze
Frammento 39
a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra
Fondazione Lorenzo Valla /Arnoldo Mondadori Editore 1980


domenica 29 gennaio 2017

Le parole sono ponti, strutture che uniscono universi differenti

Sono nata a Istanbul, una città che appartiene a due continenti, Europa e Asia, il ponte tra Oriente e Occidente. Forse è per questo che la mia anima è divisa in due: due mestieri, due culture, due lingue. Anzi tre. Parlo correntemente, oltre al turco, anche francese e italiano. E oltre a fare l'attrice, sono anche interprete. Due professioni al centro delle quali ci sono le parole. E le parole sono ponti, strutture che uniscono universi differenti; strumenti attraverso cui possiamo comunicare; e, comunicando imparare il rispetto per gli altri. Mai come oggi c'è bisogno di parole. E di ponti. Dobbiamo ricordarcene, soprattutto noi che sulle parole abbiamo costruito la nostra professione.

Il qui e ora di
Serra Ylmaz
attrice icona di Ferzan Ozpetek
incipit dell'articolo raccolto da Laura Zangarini
Io Donna
28 Gennaio 2017

sabato 28 gennaio 2017

il mare ha tutta un'altra apertura di sogno

Genova non ha i giorni tutti uguali; sono io che le chiedo di tornare ai nostri giorni tutti uguali. Anche i liguri sono un po' ritrosi come noi; ma il mare ha tutta un'altra apertura di sogno. E la luce è completamente diversa.

Paolo Conte intervistato da Aldo Cazzullo in occasione del suo 80° compleanno
Il Corriere della Sera
sabato 28 Gennaio 2017

venerdì 27 gennaio 2017

andare a zonzo d’inverno è la più grande avventura

A zonzo: un’avventura londinese / 4


È sempre un’avventura entrare in una stanza nuova; la vita e il carattere dei suoi proprietari le hanno infuso la loro atmosfera e appena entriamo ci assale una nuova ondata di emozioni. Non c’è dubbio, nella cartoleria hanno litigato. Hanno sparato rabbia nell’aria. Ora hanno smesso, la vecchia – sono marito e moglie evidentemente – se n’è andata nella stanza sul retro; il vecchio la cui fronte rotonda e gli occhi a palla farebbero la loro figura sul frontespizio di un in folio elisabettiano è rimasto a servirci. «Una matita, una matita» ripeteva «certo, certo.» Parlava con la stessa distrazione ed effusione di chi s’è molto eccitato e poi tutto a un tratto represso. Cominciò ad aprire una scatola dopo l’altra e a richiuderle. Disse che era molto difficile trovare qualcosa, dal momento che avevano così tanti articoli. Si lanciò in una storia riguardo un certo gentiluomo, un avvocato, che s’era trovato nei pasticci a causa della condotta di sua moglie. Lo conosceva da anni; aveva rapporti col Temple da più di mezzo secolo, disse, come se volesse essere sentito dalla moglie nella stanza sul retro. Rovesciò una scatola di elastici. Alla fine, esasperato dalla propria incompetenza, aprì la porta a molla e urlò con violenza «Dov'è che tieni le matite?» come se la moglie le avesse nascoste. La vecchia entrò. Senza guardare nessuno, con una bell'aria di dignitosa severità ficcò la mano nella scatola giusta. Ecco le matite. Come avrebbe fatto senza di lei? Non gli era indispensabile? Per farli rimanere lì uno di fianco all'altra in quella forzosa neutralità bisognava essere particolarmente esigenti nella scelta della matita, questa troppo soffice, questa troppo dura. Loro zitti osservavano. Più stavano lì, più si facevano tranquilli; il calore diminuiva, la rabbia sbolliva. E senza una parola da entrambe le parti, la lite fu ricomposta. Il vecchio che non avrebbe sfigurato sulla copertina di Ben Jonson allungò la mano e ripose la scatola al suo posto, con un inchino profondo ci diede la buonasera, e scomparvero. Lei avrebbe tirato fuori il cucito; lui avrebbe preso il giornale; il canarino li avrebbe entrambi imparzialmente ricoperti di semi. La lite era finita.
Durante quei pochi minuti in cui era stato evocato un fantasma, ricomposta una lite e comprata una matita, le strade s’erano svuotate. La vita s’era ritirata al piano di sopra, s’erano accese le lampade. Il selciato era asciutto, duro; la strada di argento battuto. Ritornando verso casa attraverso la desolazione, ci si poteva ripetere la storia della nana, dei ciechi, della festa nella bella casa di Mayfair, del litigio nella cartoleria. S’era potuto penetrare in ognuna di queste vite un poco, abbastanza da darci l’illusione che non siamo incatenati a un’unica mente, ma brevemente, anche per pochi minuti, si possono avere il corpo e la mente di un altro. Si può diventare una lavandaia, un oste, un cantante di strada. E quale maggiore incanto e meraviglia che abbandonare le linee diritte della personalità e deviare in quei sentieri che portano alla boscaglia e ai tronchi spessi degli alberi fino nel cuore della foresta, dove vivono quelle bestie selvagge, i nostri simili?
È vero: fuggire è il più grande dei piaceri; andare a zonzo d’inverno la più grande avventura. E tuttavia, riavvicinandoci al nostro portone, ci conforta sentire che i familiari possessi e pregiudizi ci riavvolgono e proteggono, richiudendosi intorno all'io che il vento ha trascinato da un angolo all'altro della strada, e come una falena ha sbattuto contro la fiamma di tante inaccessibili lanterne. Ecco di nuovo la porta che conosciamo, ecco la sedia girata proprio come l’abbiamo lasciata, e la coppa di porcellana e il cerchio scuro sul tappeto. Ed ecco – guardiamola ora con tenerezza, tocchiamola con reverenza – la sola spoglia che abbiamo riportato dai tesori della città, una matita.



Street Haunting: A London Adventure 
Yale Review, ottobre 1927

giovedì 26 gennaio 2017

I libri usati sono libri selvaggi, senza tetto

A zonzo: un’avventura londinese / 3

Ma ecco, mai troppo presto, ecco le librerie dell’usato. E qui tra le contrastanti correnti dell’essere buttiamo l’àncora. Qui dopo le miserie e gli splendori della strada ci riequilibriamo. La sola vista della moglie del libraio con il piede sul parafuoco, seduta accanto a un bel fuoco di carbone, al riparo dalla porta, ci calma, ci rallegra. Non legge mai, o legge soltanto il giornale; se non parla, come fa volentieri, di libri, parla di cappelli; un cappello, dice, le piace se è pratico, oltre che carino. No, non vivono in negozio, vivono a Brixton, le ci vuole un po’ di verde, a lei. D’estate, in cima a una pila polverosa di libri, piazza un vaso di fiori colti dal suo giardino per rallegrare il negozio. I libri sono dappertutto e sempre ci riempie il medesimo senso di avventura. I libri usati sono libri selvaggi, senza tetto; si radunano in vasti stormi dai piumaggi più variegati; hanno un fascino che manca ai libri addomesticati della biblioteca. Inoltre, in questa folla miscellanea e casuale, può capitare di ritrovarci in mano un assoluto estraneo, che con un po’ di fortuna potrebbe anche diventare il nostro migliore amico. Quando, attratti dalla sua aria trascurata, abbandonata, tiriamo giù da uno scaffale in alto un libro bianco grigiastro, c’è sempre la speranza di incontrarci proprio l’uomo che più di cento anni fa in groppa a un cavallo si avviò a esplorare i mercati della lana nelle Midlands e nel Galles; uno sconosciuto viaggiatore che si fermava alle locande, beveva una birra, notava le belle ragazze e gli usi e i costumi, e metteva tutto per iscritto con ostinazione, con fatica, per puro amore (il libro venne pubblicato a sue spese); era infinitamente noioso, indaffarato, pratico e proprio così senza saperlo travasò nel libro il profumo dei papaveri e del fieno, insieme a un ritratto di se stesso che gli assicura per sempre un posto al calduccio nel focolare della mente. Lo si può comprare per diciotto penny. È prezzato tre scellini e mezzo, ma la moglie del libraio, visto che le copertine sono malandate e il libro è lì da quando l’hanno comprato all’asta della biblioteca di un gentiluomo nel Suffolk, lo lascerà a un prezzo minore.

E guardandoci ancora intorno nella libreria, facciamo altre consimili capricciose amicizie con degli sconosciuti, degli scomparsi, la cui unica traccia è, per esempio, questo libretto di poesie, così ben stampato, con belle incisioni, e un ritratto dell’autore. Il quale era un poeta che morì annegato prematuramente, i cui versi blandi, formali e sentenziosi come sono, emanano però ancora oggi una musica flautata, tenera, come di una pianola meccanica che con rassegnazione, in un vicolo, manovra un vecchio organettista italiano in giacchetta di velluto. Ci sono poi i libri di viaggi, scaffali e scaffali, che tuttora testimoniano, indomabili zitelle quali erano le loro autrici, i sacrifici che sopportarono e i tramonti che ammirarono in Grecia, quando la regina Vittoria era ancora ragazzina; un viaggio in Cornovaglia con visita alle miniere di stagno richiedeva un voluminoso resoconto; risalendo piano piano il Reno si facevano l’un l’altro il ritratto in inchiostro di china, seduti a leggere sul ponte accanto a un rotolo di funi; misuravano le piramidi; per anni erano persi alla civiltà, convertivano i negri  paludi pestilenziali. Tutto questo fare le valigie e partire, andare a esplorare i deserti, prendersi la febbre, stabilirsi in India per la vita, penetrare in Cina e poi tornare a vivere tranquilli a Edmonton, cade e sballottola sul pavimento polveroso come un mare inquieto, tanto irrequieti sono appunto gli inglesi, con le onde sempre alla porta. Le acque del viaggio e dell’avventura sembrano infrangersi contro isolette di vero sforzo e operosità lunga una vita che in colonne a zig zag si ergono sul pavimento della libreria. In queste pile di volumi rilegati color pulce, con monogramma in oro sul dorso, preti pensosi ci spiegano i vangeli; con i loro martelli e ceselli si sentono gli studiosi che scalpellano gli antichi testi di Euripide e Eschilo. Commento, esposizione, meditazione, spiegazione procedono a tale prodigiosa velocità tutto intorno a noi e su tutto; come fosse una marea puntuale, sempiterna, si spande l’antico mare del romanzo. Volumi innumerevoli ci dicono quanto Arturo amava Laura, e come furono divisi e quanto erano infelici e come si ritrovarono e vissero felici e contenti; così andavano le cose quando Vittoria regnava su queste isole.
C’è un numero infinito di libri al mondo, e uno dà per forza un rapido sguardo, fa un cenno, e dopo un momento appena di conversazione, un bagliore di comprensione, si ritrova per strada e sente una frase e da una frase a caso fabbrica un’esistenza. Parlano di una donna che si chiama Kate: «Glielo dissi senza mezze parole ieri sera… se pensi che valgo meno di un francobollo da un penny, le dissi…». Ma chi è Kate e a quale crisi nella loro amicizia allude il francobollo, non lo sapremo mai, perché Kate affoga nel calore della loro volubilità; e qui all’angolo della strada, alla vista di due uomini che si consultano sotto il lampione, si apre un’altra pagina del volume della vita. Stanno sillabando le ultimissime notizie da Newmarket. Pensano che la fortuna tramuterà i loro stracci in pellicce e ricche stoffe, gli appenderà addosso catene da orologio e pianterà uno spillo di diamante dove ora c’è un collo logoro di camicia aperta? Ma la corrente principale dei passeggiatori a quest’ora va troppo veloce per darci il tempo di queste domande. In questo breve tragitto dal lavoro a casa, sono avvolti in un sogno narcotico, ora che si sono liberati della scrivania, e sentono l’aria fresca sulle guance. Si mettono quei vestiti colorati che tengono appesi, chiusi a chiave per tutto il resto del giorno, e diventano grandi giocatori di cricket, famose attrici, soldati che hanno salvato il paese nell’ora del bisogno. Sognando, gesticolando, spesso mormorando a voce alta qualche parola, sciamano sullo Strand e sul ponte di Waterloo; da lì dondolando in treni lunghi, traballanti, ancora sognando, saranno trasportati a una villetta linda e pinta di Barnes o Surbiton, dove la vista dell’orologio nell’ingresso e l’odore della cena giù in cucina subito sgonfiano il sogno.
Ma ora siamo sullo Strand e, mentre esitiamo sul marciapiede, una bacchetta lunga non più di un dito comincia a mettersi d’ostacolo alla velocità e abbondanza della vita. «Devo davvero – devo senz’altro» – ecco cos’è. Senza esaminare la richiesta, la mente si arrende al solito tiranno. Si deve, sempre si deve fare una cosa o un’altra; non si è mai liberi di divertirsi. Non è stato per questa ragione che tempo fa abbiamo escogitato quella scusa e ci siamo inventati la necessità di comprare qualcosa? Già! Ma che cosa? Ah, sì, una matita! Su, andiamo a comprare la matita. Ma proprio mentre stiamo per ubbidire al comando, un altro io contesta al tiranno il diritto di insistere. Scoppia il solito conflitto. Al di là della bacchetta del dovere, si distende in tutta la sua ampiezza il Tamigi – largo, triste, quieto. Lo vediamo attraverso gli occhi di qualcuno che si affaccia dall’Embankment una sera d’estate, senza un pensiero al mondo. Lasciamo perdere la matita, andiamo invece in cerca di questa persona (è subito evidente che quella persona siamo noi). Perché se potessimo ritrovarci dov’eravamo sei mesi fa, non saremmo di nuovo com’eravamo allora – calmi, distaccati, contenti? Proviamoci dunque. Ma il fiume è più mosso e più grigio di come ci ricordavamo. La marea porta al mare. Trascina con sé un rimorchiatore e due chiatte, il cui carico di paglia è legato stretto sotto coperte di tela. Vicini a noi ci sono due che si appoggiano alla balaustra, parlando piano, con quella curiosa mancanza di consapevolezza che hanno gli amanti, come se l’importanza di ciò che li lega reclamasse senza dubbio l’indulgenza della razza umana. Le vedute che vediamo e i suoni che sentiamo non hanno affatto la qualità del passato, non partecipiamo per niente alla serenità di chi sei mesi fa stava proprio qui, dove stiamo adesso. Sua è la felicità della morte, nostra l’insicurezza della vita. Lui non ha futuro, il futuro invade proprio in questo preciso attimo la nostra pace. Soltanto quando guardiamo al passato, togliendo al tempo l’elemento dell’incertezza, possiamo godere della pace perfetta. Come stanno le cose, adesso dobbiamo voltare, attraversare di nuovo lo Strand, trovare il negozio dove anche a quest’ora saranno pronti a venderci una matita.

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

mercoledì 25 gennaio 2017

In una sera d’inverno come questa

A zonzo: un’avventura londinese / 2

L’occhio ha questa strana proprietà, si ferma soltanto sulla bellezza, come una farfalla cerca il colore e si gode il caldo. In una sera d’inverno come questa, quando la natura s’è sforzata di ripulirsi e lisciarsi, lui conquista i suoi più bei trofei, saccheggia scaglie di smeraldo e di corallo, come se tutta la terra fosse fatta di pietre preziose. Ciò che non può fare (si parla dell’occhio medio, non professionale) è ricomporre questi trofei, in modo da mettere in luce i loro angoli e rapporti più oscuri. Così, dopo una dieta prolungata di queste semplici, dolci pietanze di bellezza pura, non mescolata, ci rendiamo conto che ne siamo sazi. Ci fermiamo nel negozio di calzature e troviamo qualche scusa, che non ha niente a che fare con la ragione reale, per riporre lo spettacolo luccicante della strada e ritirarci in una camera più in penombra dell’essere, dove chiederci, mentre alziamo ubbidienti il piede sinistro e lo poggiamo sul sostegno: «Che vorrà dire essere nani?».

Entrò scortata da due donne, che essendo di statura normale, accanto a lei parevano dei benevoli giganti. Sorridendo alle commesse, sembrò che subito disconoscessero ogni tragedia nella deformità di lei e l’assicurassero comunque della loro protezione. Lei aveva l’espressione querula e insieme apologetica che c’è di solito sulla faccia dei deformi. Aveva bisogno della loro gentilezza, ma le seccava. Quando però la commessa accorse e le gigantesse, sorridendo indulgenti, ebbero chiesto le scarpe per «la signora» e la ragazza ebbe spinto verso di lei il poggiapiedi, la nana ci piazzò sopra il piede con un impeto che sembrò richiamare tutta la nostra attenzione. Guardate! Guardate! sembrò che reclamasse, tirando fuori il piede, perché sì, era il piede perfettamente, armoniosamente modellato di una donna adulta. Era arcuato, era aristocratico. I suoi modi cambiarono mentre se lo guardava, lì posato sul poggiapiedi. Sembrava pacificata, soddisfatta. I suoi modi acquisirono più sicurezza. Cominciò a chiedere e a misurare scarpe su scarpe. Si alzava e faceva delle piroette davanti allo specchio che rifletteva il piede ora in scarpe gialle, ora rossicce, ora di lucertola. Si alzava l’orlo della gonnellina ed esibiva le gambette. Pensava che dopotutto i piedi sono la parte più importante della persona intera; le donne, diceva a se stessa, da sempre sono state amate per i piedi. Non vedendo che i piedi, forse immaginava che il resto del corpo fosse uguale a quei bellissimi piedi. Era vestita male, ma era pronta a sperperare qualunque somma per quelle scarpe. E siccome era l’unica occasione in cui non aveva paura di essere osservata, ma al contrario richiedeva apertamente l’attenzione, era pronta a usare ogni stratagemma per prolungare la scelta e la prova. Guardate che piedi, guardate che piedi, sembrava dicesse, facendo un passo in una direzione, un passo nell’altra. La commessa benignamente magari le avrà fatto un complimento, perché d’improvviso la faccia le si illuminò estatica. Ma le gigantesse, per quanto ben disposte, avevano anche i loro affari a cui badare; doveva risolversi; doveva decidersi, scegliere. Alla fine fu scelto un paio di scarpe, e mentre con i suoi guardiani e il pacco che le penzolava dal dito si avviava all’uscita l’estasi svanì, ritornò la conoscenza, tornò la solita acrimonia, le solite lagne e appena ebbe raggiunto la strada era ritornata a essere una nana.
Ma aveva cambiato lo stato d’animo; aveva evocato un’atmosfera che nell’inseguirla per strada sembrò sul serio creare i gobbi, gli storti, i deformi. Due uomini barbuti, all’apparenza fratelli, ciechi, che si appoggiavano con la mano alla testa di un bambino in mezzo a loro, marciavano in strada. Venivano col passo implacabile e tremulo del cieco, che sembrava prestare al loro avvicinarsi il terrore e l’inevitabilità del fato che li aveva colpiti. Nel passare, andando sempre dritto davanti a sé, il piccolo convoglio sembrava fendere la folla dei passanti con l’impeto del silenzio, della direzione, del disastro. Sì, la nana aveva iniziato una danza zoppicante, grottesca, alla quale tutti in strada ora parevano adattarsi: la signora robusta fasciata stretta nella pelle di foca traslucida; il ragazzino idiota che succhiava il pomo d’argento del bastone; il vecchio accucciato sullo scalino del portone, come se, d’improvviso travolto dall’assurdità dello spettacolo umano, si fosse seduto lì a guardare – tutti partecipavano agli zompi, ai salti della danza della zoppa.
In quali crepe e fessure, veniva da chiedersi, alloggiava questa storpia brigata di storpi e di ciechi? Forse qui, ai piani più alti di queste vecchie case alte e strette tra Holborn e lo Strand, dove la gente ha strani nomi, e persegue tanti curiosi mestieri – chi cesella l’oro, chi pieghetta le fisarmoniche, chi fodera i bottoni, e altri che con ancora più fantasia si mantengono trafficando in piatti e tazzine, manici d’ombrello e immagini coloratissime di santi martiri. Ecco dove alloggiano, e sembra che la signora in pelle di foca, trascorrendo come fa le giornate con il fisarmonicista e il foderatore di bottoni trovi la vita tollerabile: una vita tanto fantasiosa non può essere davvero tragica. Non ci invidiano, riflettiamo, la nostra prosperità; quando, d’un tratto, voltando l’angolo, ci imbattiamo in un ebreo barbuto, selvatico, affamato, sfolgorante povertà; e passiamo davanti al corpo ingobbito di una povera vecchia abbandonata distesa sullo scalino di un edificio pubblico con sopra un cappotto, una specie di straccio buttato di fretta su un cavallo, o un asino morto. A tali viste i nervi della spina dorsale si drizzano, un improvviso bagliore s’accende negli occhi; viene una domanda che non avrà mai risposta. Abbastanza spesso questi derelitti scelgono un giaciglio a un tiro di schioppo dai teatri, a portata d’orecchio degli organetti, quasi, con l’avanzare della notte, a portata di mano con i mantelli di lustrini e le gambe lucide di chi va a cena fuori e a ballare. Si sdraiano accanto alle vetrine dove il commercio offre a un mondo di vecchie donne buttate sullo scalino di fronte alla porta, di ciechi, di nani storpi, dei sofà che si sostengono ai colli dorati di cigni altezzosi; tavoli intarsiati con cesti di frutta colorata, credenze rivestite di marmo verde per meglio sostenere il peso delle teste di cinghiale, cesti dorati, candelabri; e tappeti tanto ammorbiditi dagli anni che i loro garofani sembra quasi che siano svaniti in un mare verde pallido.
Nel passare, a un’occhiata rapida, tutto sembra casualmente ma miracolosamente costellato di bellezza, come se la marea del commercio che deposita il suo carico con tanta prosaica puntualità sulle sponde di Oxford Street stasera non abbia buttato che tesori. Senza pensare a comprare, l’occhio è giocoso e generoso, crea, adorna, abbellisce. In mezzo alla strada si costruiscono le stanze di un’enorme casa immaginaria e le si arredano a capriccio di sofà, tavoli, tappeti. Quel tappeto andrà bene nell’ingresso. Quella coppa d’alabastro poggerà sul tavolo scolpito accanto alla finestra. Le feste che daremo si specchieranno in quello specchio lì, tondo, spesso. Ma una volta costruita e arredata la casa, non si ha per fortuna l’obbligo di possederla, la si può smantellare in un battibaleno e costruirne e arredarne subito un’altra, con altre sedie e altri specchi. Oppure, abbandoniamoci al lusso dei gioielli antichi, dei vassoi di anelli e di collane appese! Scegliamo quelle perle, per esempio, e immaginiamoci come cambierebbe la vita, se le mettessimo. All’istante sono le due o le tre di notte, i lampioni ardono bianchissimi nelle strade deserte di Mayfair. Solo le macchine sono in giro a quest’ora, e si ha il senso del vuoto, dell’aria, di un’allegria riservata a pochi. Con indosso le perle, vestite di seta, usciamo sul balcone che affaccia sui giardini di Mayfair addormentata. C’è ancora qualche luce accesa nelle camere da letto dei grandi pari appena ritornati da corte, dei servi in livrea calzati di seta, delle vedove che hanno appena dato la mano ai grandi statisti. Un gatto si arrampica sul muro del giardino. Negli angoli più scuri della stanza, dietro le tende, si fa all’amore tra sussurri e corteggiamenti. Camminando in modo composto, come se si trovasse a passeggiare su una terrazza, sotto la quale si stendono le assolate province e contee d’Inghilterra, l’anziano Primo ministro racconta alla Lady Tal dei Tali, con tanto di riccioli e di smeraldi, la vera storia di una grande crisi negli affari politici del paese. Ci sembra di viaggiare sul più alto degli alberi maestri della nave più alta; e insieme sappiamo che niente di tutto ciò conta, l’amore non lo si dimostra così, né si fanno così le grandi conquiste; ci divertiamo a giocare con il momento, ci lisciamo le piume, intanto che dal balcone osserviamo il gatto al chiaro di luna che si arrampica sul muretto del giardino della principessa Mary.
Che c’è di più assurdo? Di fatto sono le sei in punto, è una sera d’inverno, siamo nello Strand e stiamo andando a comprare una matita. Com’è che siamo anche su un balcone, a giugno, con indosso le perle? Che c’è di più assurdo? Ma è una follia della natura, non nostra. Quando si accinse al suo massimo capolavoro, la creazione dell’uomo, avrebbe dovuto pensare a una cosa sola. Invece, volse la testa, guardò altrove e lasciò che in ognuno di noi si insinuassero istinti e desideri che sono profondamente in conflitto con il nostro vero e proprio essere, cosicché siamo striati, variegati, tutti mescolati, i colori hanno stinto gli uni sugli altri. Il vero io è questo qui sul marciapiede, a gennaio, o quello che si affaccia al balcone, a giugno? Sono qui, o lì? O il vero io non è né questo né quello, né qui né lì, ma qualcosa di così differente e divagante che soltanto quando allentiamo le briglie e lasciamo che segua la sua strada senza impedimenti siamo davvero noi stessi? Le circostanze ci impongono l’unità, per convenienza un uomo deve essere intero. Il bravo cittadino quando apre la porta di casa la sera deve essere un banchiere, uno che gioca a golf, un marito, un padre; non un nomade che vaga per il deserto, un mistico che guarda fisso il cielo, un debosciato dei bassifondi di San Francisco, un soldato a capo della rivoluzione, un paria che ulula scetticismo e solitudine. Quando apre la porta di casa, deve passarsi le dita tra i capelli e mettere l’ombrello nel portaombrelli insieme agli altri.

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

martedì 24 gennaio 2017

L’ora giusta è il pomeriggio e la stagione l’inverno

A zonzo: un’avventura londinese / 1

Nessuno forse s’è mai tanto appassionato a una matita. Ma ci sono circostanze in cui possederne una può diventare desiderabile all’estremo; momenti in cui ci mettiamo in mente di avere un oggetto, uno scopo, una scusa per attraversare Londra tra l’ora del tè e l’ora di cena. Come chi va a caccia di volpi lo fa per preservare la razza dei cavalli, e chi gioca a golf per preservare degli spazi aperti, non invasi da costruzioni; allo stesso modo, quando ci prende la voglia di andare a spasso, la matita serve da pretesto e alzandoci diciamo: «Devo proprio comprarmi una matita»; come se con questa scusa potessimo senza rischi indulgere al massimo tra i piaceri che offre la vita in città d’inverno – andare a spasso per le strade di Londra.

L’ora giusta è il pomeriggio e la stagione l’inverno, perché d’inverno la limpidezza champagnina dell’aria, le strade piene di gente sono gradite. Non è come d’estate, non siamo tentati dal desiderio dell’ombra, della solitudine, dell’aria dolce che viene dai campi di fieno. L’ora serale, inoltre, ci dà l’irresponsabilità che il buio e la luce delle lampade permettono. Non siamo più noi. Appena usciamo di casa, ed è un bel pomeriggio tra le quattro e le cinque, ci spogliamo dell’io che gli amici ci riconoscono e diventiamo parte di quel vasto esercito repubblicano di anonimi vagabondi, la cui compagnia è tanto più gradevole dopo la solitudine della nostra stanza. Perché lì sediamo circondati da oggetti che in eterno esprimono la stranezza del nostro temperamento e ci impongono il ricordo della nostra esperienza. Quella coppa, per esempio, sulla mensola del camino l’abbiamo comprata a Mantova, era un giorno ventoso. Stavamo già uscendo dal negozio, quando la vecchia signora dall’aria sinistra ci tirò per l’orlo del vestito e disse che sarebbe morta di fame un giorno o l’altro, ma «la prenda!» gridò, e ci piazzò in mano la coppa di porcellana azzurra e bianca, come se non volesse che mai più nessuno le ricordasse la sua stravagante generosità. Così, sentendoci in colpa, pur sospettando di essere stati fregati, ce la riportammo all’alberghetto, dove nel mezzo della notte il proprietario si mise a litigare con la moglie con tale violenza che tutti ci affacciammo nel cortile a guardare, e vedemmo le viti attorte alle colonne e le stelle bianche in cielo. Il momento si fissò, si stampò in modo indelebile come una moneta, tra milioni di altri che si sono impercettibilmente persi. E lì c’era anche l’inglese melanconico, che tra le tazzine del caffè e i tavolini di ferro s’alzò e rivelò i segreti della sua anima – come fanno di solito i viaggiatori. Tutto ciò – l’Italia, la mattina ventosa, le viti attorte alle colonne, l’inglese e i segreti della sua anima – si levano ora come una nuvola dalla coppa di porcellana che sta sulla mensola del caminetto. E se gli occhi ci cadono sul pavimento, ecco la macchia scura sul tappeto. È stato Lloyd George a farla. «Quell’uomo è diabolico!» disse Cummings, posando a terra il bollitore con cui stava riempiendo la teiera e facendo così quel cerchio scuro sul tappeto.
Ma appena la porta si richiude dietro di noi, tutto ciò svanisce. Il guscio che l’anima nostra ha secreto per proteggersi, per differenziarsi nella forma dalle altre, si rompe, e di tutte quelle pieghe e durezze rimane al centro un’ostrica di percezione, un enorme occhio. Com’è bella una strada d’inverno! È al tempo stesso rivelata e oscura. Qui vagamente si intravedono lunghi viali dritti, simmetrici, di porte e finestre; qui sotto i lampioni galleggiano isole di luce fioca, li attraversano velocemente uomini e donne per un istante luminosissimi, i quali pur con tutta la loro povertà prendono un aspetto di irrealtà, un’aria di trionfo, come se fossero sfuggiti alla trappola tesa loro dalla vita e la vita, delusa, senza preda, andasse comunque avanti senza di loro. Ma in fondo non facciamo che scivolare sulla superficie. L’occhio non è un minatore, non è un tuffatore, né uno scopritore di tesori sepolti. Ci trasporta dolcemente lungo la corrente, si ferma, si arresta, il cervello forse dorme mentre guarda.
Com’è bella una strada di Londra a quest’ora, con le sue isole di luce, le sue lunghe macchie di ombra, da un lato un boschetto, un prato, dove con naturalezza la notte si raccoglie per dormire e camminando lungo le inferriate si sentono quei leggeri scricchiolii, quei brusii di rami e di foglie, che fanno supporre tutto intorno il silenzio dei campi, il grido di una civetta e lontano giù nella valle il fischio di un treno. Ma ci sovviene che siamo a Londra; in alto, tra i rami nudi stanno appesi degli oblunghi riquadri di luce gialla rossastra – finestre; punti di brillantezza bruciano uniformi come stelle basse – lampioni; questo terreno vuoto, che racchiude in sé la natura e la pace, è semplicemente una piazza, tutta attorniata di uffici e case, dove a quest’ora luci potenti rifulgono su mappe, documenti, scrivanie dove gli impiegati inumidendosi le dita voltano archivi di infiniti carteggi; o più soffusamente la luce del camino ondeggia e la luce della lampada ricade nell’intimità di un salotto, con le sue poltrone comode, le carte da parati, tazze e bicchieri, il tavolo intarsiato e la figura di una donna, la quale con accuratezza misura l’esatto numero di cucchiaini di tè che – ora guarda alla porta come se avesse sentito suonare il campanello al pianterreno e qualcuno che chiede, è in casa?.
Ma qui è d’obbligo fermarsi. Rischiamo di scavare più di quanto l’occhio non voglia, ostacoliamo il flusso naturale della corrente, magari rimanendo attaccati a un ramo, a una radice. In qualsiasi momento l’esercito addormentato può tirarsi su e risvegliare in noi mille violini e trombe in risposta; l’esercito degli esseri umani può riscuotersi e riaffermare tutte le sue stranezze e sofferenze e miserie. Attardiamoci ancora un po’, accontentiamoci della superficie soltanto – il lucido brillante degli autobus, lo splendore carnale delle macellerie con i loro cosci gialli e le bistecche rosso porpora, i mazzi blu e rossi di fiori che ardono così eleganti dietro le vetrine dei fiorai.

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

lunedì 23 gennaio 2017

cercare una strada oltre l'infittirsi delle immagini

non resta che incamminarsi verso un desiderio sconosciuto, cercare un linguaggio e un nuovo alfabeto. Una strada oltre l’infittirsi delle immagini, oltre il loro deserto. Una strada oltre la malinconia: il varco scavato dalla vita reale nella vita dell’ossessione.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

domenica 22 gennaio 2017

non più corpo, ma radici

A sette anni invece di crescere, invece di diventare alta, volevo scendere – a ritroso lungo il mio corpo, di giorno in giorno sempre più in basso, fino alla terra, fino a capovolgermi e divaricarmi: non più corpo, ma radici. La materia, quel corpo che crescendo si appesantiva, non poteva che trovare l’estremo del suo peso, pesare, sprofondare nella terra delle vacanze in campagna, forare la sabbia del mare. Era necessario essere pesanti e tuttavia affilati per cadere e aprire varchi e dormire in una profondità infinita cullati dalla caduta, essere lama e fardello.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

sabato 21 gennaio 2017

Mi chiedo cosa diventi la parola in tempi bui

Forse scrivere è l’esercizio di rinuncia che consente ai nostri brandelli di realtà di affiorare, forse la realtà di noi stessi appare quando rinunciamo a tutto tranne al bagliore incerto che lascia intravedere il fuoco che trascorre dalla nostra origine alla nostra morte. Ma io – nella mia casa, nella mia notte protetta – non ho che questo linguaggio, così impreciso, così privo di memoria. [...] Mi chiedo cosa diventi la parola in tempi bui, quale sia il suo tempo, quale tempo le conceda di esistere senza costringerla alla storia.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

venerdì 20 gennaio 2017

il vento dell'inverno

C’è una meta
Per il vento dell’inverno:
il rumore del mare


Ikenishi Gonsui
in
Haiku
Il fiore della poesia giapponese
da Bashō all'Ottocento
a cura di Elena Dal Pra
Mondadori 1998

giovedì 19 gennaio 2017

La notte è deserto

La notte è deserto? La notte è deserto. È il confine indistinto fra il corpo e lo spazio, è l'alleanza silenziosa fra ogni cuore di creatura e il buio del sangue che lo circonda. È la nudità il capolavoro del suo segreto, è l'impercettibile cammino il segreto della sua vertigine.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

mercoledì 18 gennaio 2017

La notte si appressa come un monte di pietre

   C'è una notte che si avvicina in un paradosso: come un monte (immobile) di pietre (ancora più immobili). La notte si "appressa come un monte di pietre", scrive Marina Cvetaeva nell'Accampamento dei cigni. Si appressa con il monte, con le pietre, nonostante il monte, nonostante le pietre e in fretta, come si murava la finestra dell'appestato diventa notte totale, pietra che né il sonno, né la veglia scalfiscono, ma che rimane, appressandosi a ogni crepuscolo, finché chiamiamo vita questo restare.
   Ora dimmi tu la notte. Vorrei chiederlo anch'io e attraversare ormai la notte che resta fissando il buio dell'ispirazione, l'ombra dei libri accatastati che mi raggiunge, mi minaccia e mi protegge.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

martedì 17 gennaio 2017

Così concepisco la scrittura: scrivere per sparire

Nella notte ci si vede sparire insieme alle cose. Sopravvivono i pochi palazzi ancora illuminati e svegli e la solitudine dell’ultimo autobus che risale l’isola tra i castagni, i pini, i cinghiali. E ogni pensiero verso chi è assente sembra correre più in fretta solo perché la distanza non si vede, perché il buio la inghiotte e come accade in treno non si fa in tempo perché si è completamente dentro il tempo, strappati dalle vite intraviste e insieme nel cuore di quelle vite, profondi come il fischio e il ferro nella terra. [...] Così concepisco la scrittura: scrivere per sparire, perché la vita si squaderni davanti a me, senza di me, il volto finalmente più sfocato del bianco dei fogli o dell’azzurro dello schermo, il volto privato del riflesso. Un mondo dove dimenticarsi: non uno specchio, ma una pietra.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

lunedì 16 gennaio 2017

Imparare l'attenzione: guardare di nuovo, assaggiare di nuovo

   Il doloroso amore di mia madre per il mondo. Quando ero testimone della sua gioia per un colore o un sapore, le gratificazioni più semplici - qualcosa di dolce, qualcosa di fresco, un nuovo capo d'abbigliamento, per quanto modesto, il suo amore per la stagione calda -, non disprezzavo il suo entusiasmo. Invece guardavo di nuovo, assaggiavo di nuovo, facendo attenzione. Imparai che la sua gratitudine non era per niente eccessiva. Ora so che quello era il suo dono per me. Per lungo tempo pensai che avesse creato in me una estrema paura della perdita - ma no. Non è per niente estrema.
   La perdita è un discriminante; aggiungeva valore a ogni cosa per mia madre, e lo toglieva del tutto per mio padre. Per questo motivo io pensavo che mia madre fosse più forte. Ma ora vedo che era solo un indizio: quello che aveva subito mio padre era molto meno sopportabile.

Anne Michaels
In fuga
traduzione di Roberto Serrai
Giunti 1998

domenica 15 gennaio 2017

come l'amore trasfigura oggetti e paesaggi

L'amore ti fa vedere un posto in modo diverso, così come si maneggia in modo diverso un oggetto che appartiene a una persona amata. Se si conosce bene un paesaggio, si guarderanno tutti gli altri paesaggi in modo diverso. E se si impara ad amare un posto, a volte si può anche imparare ad amarne un altro.

Anne Michaels
In fuga
traduzione di Roberto Serrai
Giunti 1998

sabato 14 gennaio 2017

I giardini fiorirono magnifici nel silenzio subacqueo

Il tempo è una guida cieca.
Figlio della palude, nacqui dalle strade fangose della città sommersa. Per più di mille anni, soltanto i pesci avevano passeggiato sui marciapiedi di legno di Biskupin. Le case, costruite rivolte verso il sole, furono allagate dalla limacciosa oscurità del fiume Gasawka. I giardini fiorirono magnifici nel silenzio subacqueo; ninfee, giunchi, stramonio.
Nessuno nasce una volta sola. Chi è fortunato, vedrà di nuovo la luce tra le braccia di qualcuno; oppure, se sfortunato, si sveglierà quando la lunga coda del terrore sfiorerà l'interno del suo cranio.

Anne Michaels
In fuga
traduzione di Roberto Serrai
Giunti 1998

venerdì 13 gennaio 2017

le nostre storie: intrecciarle e farle rivivere, scomporle e ricomporle

Credi in Dio?
«Sono tranquillamente ateo. Ma capisco che in un mondo nel quale molte cose sfuggono la religione può essere una forma di consolazione. Con Franco Fortini frequentammo per anni l'arcivescovado di Milano. Spesso si discuteva con il Cardinal Martini e un giovane Ravasi, biblista agguerrito. Detto ciò sento molto il senso del sacro».

Che definizione ne daresti?
«Per me il sacro è lo stupore e l'inquietudine di essere in un mondo senza volerlo. Ho un corpo e contemporaneamente vivo qualcosa che non mi appartiene del tutto. Mi sento ospite della vita e il sacro ne manifesta il rispetto e il timore».

E la filosofia cos'è per te?
«Perle cose che stiamo dicendo è una forma di igiene mentale; un aiuto a orientarsi nel mondo. È un insegnamento che ho appreso da Gadamer quando studiai con lui a Heidelberg».

Sei il filosofo italiano che più ha insegnato all'estero.
«È vero. Sommando le varie esperienze sono stato almeno quindici
anni fuori».

Dove?
«Negli anni Sessanta e Settanta a Tubinga, Friburgo, Heidelberg, Bochum, Berlino. Negli anni Ottanta in Canada e a Parigi. Quattro anni alla New York University; in Messico, Argentina, Brasile. E infine a Los Angeles, dove sono "Full Professor". Richard Rorthy diceva che ero il meno peninsulare tra i filosofi italiani. Per uno che ha vissuto il trauma del distacco dalla Sardegna, è stato tutto molto sorprendente».

Ti sorprende il tempo che passa?
«Se alludi alla vecchiaia, non lo considero un problema. E non sento l'angoscia del tempo né mitizzo l'infanzia. Ricordo che con Bobbio si condivideva l'idea che si vive per perdere e che bisogna accettare questa perdita progressiva di sé».

Lui era molto amareggiato negli ultimi anni.
«È vero. Una delle ragioni, diceva, era di aver vissuto più di concetti che di affetti. Poi ha scritto quel libro bellissimo, De Senectutedove si intravedeva la convinzione di un'esistenza piena, lunga e, infine, malinconica. La sua fu una storia bella, importante ma parziale. Come tutte le nostre storie. Intrecciarle e farle rivivere è il vero compito che ci spetta: scomporle e ricomporle».

frammenti dell'intervista di Antonio Gnoli a Remo Bodei
Repubblica - Robinson
domenica 8 gennaio 2017

giovedì 12 gennaio 2017

Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia

La rinuncia


Scelgo Roma. Una città che mi affascina fin da piccola, che mi conquista subito. La prima volta in cui ci sono stata, nel 2003, ho provato un senso di rapimento, un’affinità. Mi sembrava di conoscerla già. Sapevo, dopo solo un paio di giorni, di essere destinata a vivere lì. A Roma non ho ancora amici. Ma non ci vado per far visita a qualcuno. Vado per cambiare strada, e per raggiungere la lingua italiana. A Roma l’italiano può accompagnarmi ogni giorno, ogni minuto.
Sarà sempre presente, rilevante. Cesserà di essere un interruttore da accendere talvolta, poi spegnere. Per prepararmi, decido, sei mesi prima della partenza, di non leggere più in inglese. D’ora in poi, mi impegno a leggere soltanto in italiano. Mi sembra giusto, distaccarmi dalla mia lingua principale. La ritengo una rinuncia ufficiale. Sto per diventare un pellegrino linguistico a Roma. Credo sia necessario che mi lasci alle spalle qualcosa di familiare, di essenziale.
A un tratto tutti i miei libri non mi servono più. Sembrano oggetti qualsiasi. Sparisce l’ancora della mia vita creativa, recedono le stelle che mi guidavano. Vedo, davanti a me, una stanza nuova, vuota. Ogni volta che posso, nello studio, sulla metropolitana, a letto prima di dormire, mi immergo
nell'italiano. Entro in un altro territorio, inesplorato, lattiginoso. Una specie di esilio volontario. Sebbene mi trovi ancora in America, mi sento già altrove. Mentre leggo mi sento un’ospite, felice ma disorientata. Come lettrice non mi sento più a casa. Leggo Gli indifferenti e La noia di Moravia. La luna e i falò di Pavese. Le poesie di Quasimodo, di Saba. Riesco a capire e al contempo non capire. Rinuncio alla perizia per sfidarmi. Baratto la certezza con l’incertezza. Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia. Gli impedimenti mi stimolano. Ogni nuova costruzione sembra una meraviglia. Ogni parola sconosciuta, un gioiello.
Faccio un elenco di termini da controllare, da imparare. Imbambolato, sbilenco, incrinatura, capezzale. Sgangherato, scorbutico, barcollare, bisticciare. Dopo aver terminato un libro, mi emoziono. Mi pare un’impresa. Trovo il processo più impegnativo, eppure più soddisfacente, quasi miracoloso. Non posso dare per scontata la mia capacità di farlo. Leggo come facevo da ragazzina. Così da adulta, da scrittrice, riscopro il piacere di leggere. In questo periodo mi sento una persona divisa. La mia scrittura non è che una reazione, una risposta alla lettura. Insomma, una specie di dialogo. Le due cose sono strettamente legate,
interdipendenti. Adesso, però, scrivo in una lingua, mentre leggo esclusivamente in un’altra. Sto per ultimare un romanzo, per cui sono per forza immersa nel testo. Non è possibile abbandonare l’inglese. Tuttavia, la mia lingua più forte sembra già dietro di me. Mi viene in mente Giano bifronte. Due volti che guardano allo stesso tempo il passato e il futuro. L’antico dio della soglia, degli inizi e delle fini. Rappresenta i momenti di transizione. Veglia sui cancelli, sulle porte. Un dio solo romano, che protegge la città. Un’immagine singolare che sto per incontrare ovunque.

Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015

mercoledì 11 gennaio 2017

e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore

Giornata d’inverno

Cosa vuole questa luce strana?
Il giorno è sotto stelle bianche.
E i sogni germogliano sotto la luna.

La montagna ha parole racchiuse dentro di sé
ma il petto è rigido e la barba gelata.
Il fiume risponde con brevi riflessi, si apre per un attimo breve,
e i pini offrono un po’ di resina.
Il regalo scuote la neve
e il cavallo freme con il muso coperto di brina.
La legna spreme fuori una crosta di grasso gelato,
e il ghiaccio divora il taglio della scure.

Ma ora la vetta manda in mille pezzi il disco del sole, torce
il suo sguardo furtivo verso un mondo lontano.
Gli alti abeti candele sulle creste dei monti si spengono,
e gli alberi si acquietano nel bosco per la notte.
Il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare,
e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore.

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

martedì 10 gennaio 2017

io ardevo per un bel sogno

Mattina d'inverno

Quando mi sono svegliato, oggi, i vetri erano gelati, 
ma io ardevo per un bel sogno. 
E la stufa diffondeva nella stanza il calore 

di un ceppo di cui si era nutrita durante la notte. 

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

lunedì 9 gennaio 2017

starsene lí nelle sere fredde

Capanne di foglie e case di neve

Non sono gran che
questi versi, solo
qualche parola, messa insieme
a caso.
Tuttavia
mi piace moltissimo
comporli, allora
è come se avessi una casa
per qualche breve attimo.
Ricordo le capanne di foglie
che costruivamo
quando eravamo piccoli:
infilarcisi dentro, sedersi
e ascoltare la pioggia,
sapersi soli nella natura,
sentire le gocce sul naso
e tra i capelli –
oppure le case di neve a Natale,
infilarcisi dentro e
chiudere con un sacco,
accendere una candela, starsene lí
nelle sere fredde.


Olav H. Hauge
La terra azzurra
a cura di Fulvio Ferrari
Crocetti Editore 2008

domenica 8 gennaio 2017

Una buona poesia deve odorare di tè

Ho tre poesie,
disse.
Pensa, contare le poesie.
Emily le gettava
in un baule, io
non credo proprio che le contasse,
apriva solo un pacchetto di tè
e ne scriveva una nuova.
Era giusto. Una buona poesia
deve odorare di tè.
O di terra umida e legna appena tagliata.

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

sabato 7 gennaio 2017

Ma alla fine un desiderio non è altro che un bisogno folle

Il colpo di fulmine


Nel 1994, quando con mia sorella decidiamo di regalarci un viaggio in Italia, scegliamo Firenze. Sto studiando, a Boston, l’architettura del Rinascimento: la Cappella Pazzi di Brunelleschi, la Biblioteca medicea-laurenziana di Michelangelo. Arriviamo a Firenze all'imbrunire, qualche giorno prima di Natale. Faccio la prima passeggiata al buio. Mi trovo in un luogo intimo, sobrio, gioioso.
Negozi addobbati per la stagione. Stradine strette, stipate di gente. Alcune sembrano più corridoi che strade. Ci sono turisti come me e mia sorella, ma non tanti. Vedo le persone che vivono qui da sempre. Camminano in fretta, indifferenti ai palazzi. Attraversano le piazze senza fermarsi. Io sono venuta per una settimana, per vedere i palazzi, per ammirare le piazze, le chiese. Ma
dall'inizio il mio rapporto con l’Italia è tanto uditivo quanto visuale. Benché ci siano poche macchine, la città ronza. Mi rendo conto di un rumore che mi piace, delle conversazioni, delle frasi, delle parole che sento ovunque vada. Come se tutta la città fosse un teatro che ospita un pubblico leggermente inquieto, che chiacchiera, prima dell’inizio di uno spettacolo. Sento l’eccitazione con cui i bambini si augurano buon Natale per la strada. Sento una mattina all'albergo la tenerezza con cui la donna che pulisce la camera mi chiede: avete dormito bene? Quando un signore dietro di me vorrebbe passare sul marciapiede, sento la lieve impazienza con cui mi domanda: permesso? Non riesco a rispondere. Non sono capace di avere nessun dialogo. Ascolto. Quello che sento, nei
negozi, nei ristoranti, desta una reazione istantanea, intensa, paradossale. L’italiano sembra già dentro di me e, al tempo stesso, del tutto esterno. Non sembra una lingua straniera, benché io sappia che lo è. Sembra, per quanto possa apparire strano, familiare. Riconosco qualche cosa, nonostante non
capisca quasi nulla. Cosa riconosco? E bella, certo, ma non c’entra la bellezza. Sembra una lingua con cui devo avere una relazione. Sembra una persona che incontro un giorno per caso, con cui sento subito un legame, un affetto. Come se la conoscessi da anni, anche se c’è ancora tutto da scoprire. So che sarei
insoddisfatta, incompleta, se non la imparassi. Mi rendo conto che esiste uno spazio dentro di me per farla stare comoda. Sento una connessione insieme a un distacco. Una vicinanza insieme a una lontananza. Quello che provo è qualcosa di fisico, di inspiegabile. Suscita una smania indiscreta, assurda. Una tensione squisita. Un colpo di fulmine. Trascorro la settimana a Firenze a due passi dalla casa di Dante. Un giorno, vado a vedere la piccola chiesa, Santa Margherita dei Cerchi, dove si trova la tomba di Beatrice. L’amata, l’ispirazione del poeta, sempre irraggiungibile. Un amore inappagato, segnato dalla distanza, dal silenzio. Non avrei un vero bisogno di conoscere questa lingua. Non vivo in Italia, non ho amici italiani. Ho solo il desiderio. Ma alla fine un desiderio non è altro che un bisogno folle. Come in tanti rapporti passionali, la mia infatuazione diventerà una devozione, un’ossessione. Ci sarà sempre qualcosa di squilibrato, di non corrisposto. Mi sono innamorata, ma ciò che amo resta indifferente. La lingua non avrà mai bisogno di me. Alla fine della settimana, dopo aver visto tanti palazzi, tanti affreschi, torno in America. Porto con me delle cartoline, dei regalini, per ricordare il viaggio. Eppure il ricordo più chiaro, più vivo, è qualcosa di immateriale. Quando penso all'Italia, sento di nuovo certe parole, certe frasi. Sento la loro mancanza. Questa mancanza mi spinge, pian piano, a imparare la lingua. Mi sento sia incalzata dal desiderio sia esitante, timida. Chiedo all'italiano, con una lieve impazienza: permesso?

Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015

venerdì 6 gennaio 2017

Una lingua straniera è come un lago da attravesare

La traversata


Voglio attraversare un piccolo lago. È veramente piccolo, eppure l’altra sponda mi sembra troppo distante, oltre le mie capacità. So che il lago è molto profondo nel mezzo, e anche se so nuotare ho paura di trovarmi nell'acqua da sola, senza nessun sostegno. Si trova, il lago di cui parlo, in un luogo appartato, isolato. Per raggiungerlo si deve camminare un po’, attraverso un bosco silenzioso. Dall'altra parte si vede una casetta, l’unica abitazione sulla sponda. Il lago si è formato subito dopo l’ultima glaciazione, millenni fa. L’acqua è pulita ma scura,
priva di correnti, più pesante rispetto all'acqua salata. Dopo che ci si entra, ad alcuni metri dalla riva, non si vede più il fondo. Di mattina osservo quelli che vengono al lago come me. Vedo come lo attraversano in maniera disinvolta e rilassata, come si fermano qualche minuto davanti alla casetta, poi tornano indietro. Conto le loro bracciate. Li invidio. Per un mese nuoto in tondo, senza spingermi al largo. E una distanza molto più significativa, la circonferenza rispetto al diametro. Impiego più di mezz'ora per fare questo giro. Però sono sempre vicina alla riva. Posso fermarmi, posso stare in piedi se mi stanco. Un buon esercizio, ma non certo emozionante. Poi una mattina, verso la fine dell’estate, mi incontro lì con due amici. Ho deciso di attraversare il lago con loro, per raggiungere finalmente la casetta dall'altra parte. Sono stanca di costeggiare solamente. Conto le bracciate. So che i miei compagni sono nell'acqua con me, ma so che siamo soli. Dopo circa centocinquanta bracciate sono già in mezzo, la parte più profonda. Continuo. Dopo altre cento rivedo il fondo. Arrivo dall'altra parte, ce l’ho fatta senza problemi. Vedo la casetta, finora lontana, a due passi da me. Vedo le distanti, piccole sagome di mio marito, dei miei figli. Sembrano irraggiungibili, ma so che non lo sono. Dopo una traversata, la sponda conosciuta diventa la parte opposta: di qua diventa di là. Carica di energia, riattraverso il lago. Esulto. Per vent'anni ho studiato la lingua italiana come se nuotassi lungo i bordi di quel lago. Sempre accanto alla mia lingua dominante, l’inglese. Sempre costeggiandola. E stato un buon esercizio. Benefico per i muscoli, per il cervello, ma non certo emozionante. Studiando una lingua straniera in questo modo, non si può affogare. L’altra lingua è sempre lì per sostenerti, per salvarti. Ma non basta galleggiare senza la possibilità di annegare, di colare a picco. Per conoscere una nuova lingua, per
immergersi, si deve lasciare la sponda. Senza salvagente. Senza poter contare sulla terraferma. Qualche settimana dopo aver attraversato il piccolo lago nascosto, faccio una seconda traversata. Molto più lunga, ma niente di faticoso. Sarà la prima vera partenza della mia vita. Questa volta in nave, attraverso l’oceano Atlantico, per vivere in Italia.

Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda 2015

giovedì 5 gennaio 2017

La singolare ricchezza di questa vita è dunque tutta interiore

Un ritratto di Puškin


   Dominata dall’amore, dall’amicizia, dall’intrigo galante, dall’avventura, o meglio (e ciò la rende più patetica) dal contìnuo e quasi sempre deluso desiderio di avventura, la vita di Puskin ci appare la più poetica forse e romantica tra le vite dei grandi poeti. Meglio ancora, essa sembra a lui Puskin aderire o attagliarsi in modo così perfetto, da risultare altamente indicativa anche per lo studio della sua opera.

   Le sue vicende esteriori sono (per modo di dire) note: dalla già desta infanzia, attraverso un’adolescenza studiosa e turbolenta, col passaggio obbligato per quella irrefrenabile esplosione di vitalità, per quella sete smodata di godimenti che tennero dietro all’uscita dal Liceo, giù giù fino alla maturità sempre feconda ma ancora inquieta. Così come ognuno ha bene o male notizia degli ora citati amori del Poeta, dei suoi infortuni politico-letterari con relativi esili e domicili coatti, dei suoi giochi, delle sue eccentricità, dei suoi duelli, fino all’ultimo che gli costò la vita. E si vuol dire che ciascuno di questi episodi par quasi la figurazione o il segno di un particolare atteggiamento di quell’animo: l’anelito di libertà, l’indole riottosa, l’orgoglio, lo spregio son qui largamente testimoniati, insieme alla connaturale malinconia, alla nobiltà del carattere, alla profonda ed esigente serietà, al rigore di ricerca e di lavoro (su cui non si insisterà mai abbastanza), infine ai concreti interessi umani, ossia per quella umanità colla quale Puskin fu pur sempre in polemica e dalla quale fu quasi sempre amareggiato. Tutti poi essi episodi esemplificano una universalità che, non dichiarata apertamente né affidata a clamorosi messaggi, non è facile percepire, ma sorregge nondimeno l’intera opera e del resto sempre meglio si va manifestando col procedere del tempo; che insomma pone il Poeta tra i maggiori di ogni paese.

   Giacché, se si guardi più addentro e si tenti di tirare le somme, questa vita in apparenza disordinata, casuale, persino dissipata, non solo rivela il suo carattere rigorosamente unitario, ma si presenta in fondo meno eccezionale di quanto sembri alla prima. In fondo le esperienze che la compongono non sono molto dissimili da quelle che, se non fece, avrebbe potuto fare ogni uomo di quel tempo: solo che furono dal Poeta vissute con incomparabile intensità. La singolare ricchezza di questa vita è dunque tutta interiore, mentre la sua comunicazione colla vita del tempo ci è garanzia di umano impegno. E in tal senso essa può esserci, pur tra le sue palesi deviazioni, esemplare.

   A coloro che abbiano per la vita di Puskin un interesse immediato e generico, come a chi vi cerchi utili indicazioni, raccomandiamo caldamente il recente libro di Henri Troyat: Pouchkine (Plon, Parigi. Veramente l’Autore aveva già pochi anni addietro pubblicato un libro dello stesso titolo, in due volumi); del quale non esitiamo ad affermare che rappresenta alcunché tra quanto di meglio e di più completo si sia fin qui fatto sull’argomento, o addirittura il meglio.

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Tommaso Landolfi
Gogol' a Roma
Adelphi 2002