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giovedì 31 marzo 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/753. Sul fondo delle mie palpebre vedo brillare una brace

 

 


 

Dopo la gita in un vivaio che ho fatto ieri pomeriggio con le mie vicine di casa Lucrezia e Claudia, oggi abbiamo finito di trapiantare quanto acquistato anche oggi: quattro piante di gelsomini, un’azalea bianca, un ranuncolo bianco e rosso, una camelia invernale, due piantine di basilico, una di salvia. È bello vedere come le piante cambino subito l’aspetto e il tono anche di una vecchia casa di ringhiera. Le piante e i fiori fanno bello tutto quanto le circonda, come se la loro semplicità e bellezza si irradiassero sul mondo intero e lo trasformassero. Non so se i gelsomini fioriranno e profumeranno già oggi, ma so già immaginare come sarà il loro profumo, come sarà bello lasciarsi andare nelle sere d’estate, ascoltare anche il canto sommesso dei grilli, sì ormai ce ne sono anche in città, e come i suoni e i profumi mi riporteranno a lontane notte d’infanzia e di gioia, prima che ogni giorno diventasse un piccolo naufragio. Vado a ripescare, su questa immagine, un’altra poesia di René Char:

 

 

A occhi chiusi e nello sforzo di prendere sonno,

vedo brillare, sul fondo delle mie palpebre,

una brace: è l’anima ostinata,

il relitto lampeggiante

del naufragio glorioso del mio giorno.

 

 

Non è magnifica questa immagine del naufragio associata a quella della brace? È tutto un accendersi e spegnersi di immagini, di ricordi, di sensazioni il nostro teatro notturno. Nelle notti fortunate ne resteranno tracce, proprio quelle tracce che poi approdano a una poesia.

Oggi è giovedì 31 marzo del terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 753 ha vesti rosse e arancioni, proprio come il ranuncolo della fotografia.

domenica 27 marzo 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/749. Nato nella città dei ciliegi selvatici e dei girasoli dai duri semi

 

 


 

La domenica è il giorno del riposo e della quiete, vecchie riviste sfilano sul tavolo, si offrono ai miei occhi e poi si avviano meste, quasi tutte, verso il sacco della carta. Non sono poi molte le riviste che continuo a leggere in cartaceo, una è Internazionale, che leggo dal primo numero, cui sono abbonata e che insisto a leggere sulla carta e che poi regalo ai miei nipoti. È una delle riviste più interessanti i circolazione a mio avviso, anche se l’effetto che mi fa, settimana dopo settimana è quello di aumentare i miei livelli di angoscia cosmica. Il tempo delle riviste passa abbastanza veloce, poi decido di rileggere un libro di poesia e scelgo di nuovo lui, l’adorato e compianto Adam Zagajewski, nato a Leopoli in Ucraina nel 1945 e morto a Cracovia nel 2021. La sua famiglia fu costretta a trasferirsi in Polonia a causa delle politiche di trasferimento forzato decise dalle autorità sovietiche alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Questa poesia è tratta dalla raccolta Dalla vita degli oggetti, a cura di Krystyna Jaworska, Adelphi 2012.

 

 

Presenza

 

Sono nato nella città dei ciliegi selvatici 

e dei girasoli dai duri semi 

(a metà strada fra l’Occidente e l’Oriente, 

come si soleva credere allora; globi 

verderame vigilavano sbadati sulle case).

Solo l’assenza può essere perfetta?

La presenza è infatti contagiata dal peccato 

originale dell’esistere - dall’eccesso, da un selvaggio 

orgoglio orientale, mentre il bello, come un coltellino 

da frutta, si accontenta di un ritaglio di pienezza.

La vita si accumula nelle peschiere 

delle generazioni e non svanisce del tutto 

quando queste scompaiono, 

ma diventa secca e leggera, ricorda 

una preghiera distratta, le labbra screpolate 

di un ragazzo che si confessa per la prima volta 

e sente il legno del confessionale 

scricchiolare sotto le ginocchia.

A sera giunge l’autunno e porta via 

le messi, gialle, mature per la fiamma.

So che le realtà sono almeno quattro, 

e non già una, e si compenetrano 

a vicenda, come i Vangeli.

So di essere solo e al tempo stesso unito 

a te, per sempre, nel dolore e nella gioia. 

So che immortali sono solo i misteri.

 

 

 

Questa poesia racchiude il senso di questa domenica 27 marzo del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 749 sogna la città dei ciliegi selvatici e dei girasoli dai duri semi.

domenica 13 marzo 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/735. I fiori tremanti del ciliegio nella primavera assediata

 


 

Di nuovo domenica, inesorabile, imprevista, inquieta. Proprio come ogni domenica che l’ha preceduta. C’è sempre questo tempo bislacco a Milano, verso ora di pranzo esce il sole, folate di vento gelido schiaffeggiano i passanti, non piove. Ricordo quando marzo era il mese delle piogge e così vado a cercare qualche vecchia poesia che mi evochi quel tempo, quel clima. Mi imbatto in una poesia di Elena Schwartz che mi piace molto, la scelgo per accompagnare le poche parole necessarie a dire questa domenica che si avvia al compimento. Una domenica di siccità e di preoccupazione, in cui le parole faticano a uscire nel mondo. Come la pioggia, come la primavera.


 

Il ciliegio e Thomas Mann

 

Le piogge hanno assalito la primavera. Hanno scosso

Gli alberi gettando i petali in una pozzanghera,

Essi giacciono, luccicando, il loro sonno è esile,

Il ciliegio si agita nel vento

Come una legione di cagnolini adirati.

La primavera tosata,

La primavera offesa,

E la gola è assediata da nubi

Così azzurre.

Il ciliegio è una Montagna Magica –

Con dentro un tedesco tisico

Il cui allegro rossore fatale

È come i fiori tremanti del ciliegio.

 

 

Oggi è domenica 13 marzo del terzo anno senza Carnevale e del prima anno di guerra e questa Cronaca 735 sta ancora cercando un angolo dove poter fiorire in pace.

lunedì 21 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/715. Il tempo è un gatto addormentato, un compito non ancora finito nel quaderno nuovo


 


Un gatto addormentato davanti al fuoco sogna di essere una camelia, ma quando si sveglia è ancora un gatto. Allora è la camelia che si addormenta e sogna di essere una ragazzina che corre e corre sotto una pioggia leggera e accanto a una nuvoletta che volteggiava un po’ troppo in basso, un po’ troppo vicino alla terra. La madre sogna e cuce, sogna ad occhi aperti, sogna il giorno in cui smetterà di cucire e i vestiti si limiterà a indossarli e ad andare a passeggio con la giacca nuova e quella bella camelia appuntata sul bavero. Ragazzina ha smesso di correre e adesso è china sui libri di scuola. Ha già finito i compiti di italiano e ora sta studiando scienze naturali e poi farà gli esercizi di matematica e ancora non riesce a decidere cosa le piaccia di più tra tutte quelle materie, cosa le piacerebbe studiare davvero e poi cosa le piacerebbe fare da grande. Da grande è un tempo che non ha tempo, un tempo a venire che oggi ha la dimensione di un sogno e ragazzina lo sa bene, perché anche lei sogna ad occhi aperti, proprio come fa sua madre. Un sogno concreto, ma si realizzerà mai? – è quello di avere una stanza tutta per sé, una stanza dove poter studiare e leggere lontano dagli sguardi dei genitori. Anche se sul tavolo della cucina, in effetti si sta bene. L’unica scocciatura è quella di dover raccogliere tutti i libri una volta finiti i compiti e apparecchiare, riempire la bottiglia con l’acqua del rubinetto e poi una bustina di idrolitina, tagliare il pane e girare il sugo nella pentola. In verità a ragazzina piace stare in cucina ad aiutare sua madre. Quando un giorno avrà non solo una stanza tutta per sé, ma anche una casa tutta sua, molto spesso si siederà al tavolo della cucina per leggere, scrivere e studiare. E in un giorno di fine inverno vedrà una camelia rossa che assomiglia a una gardenia fare capolino, solitaria, su un ramo già gemmato. E la raccoglierà e ricorderà l’altra cucina, il gatto addormentato, il fuoco acceso e la giacca nuova di sua madre, proprio quella giacca che ora è appesa nel suo armadio. È questo il segreto del tempo, tessere con la memoria una camelia rossa, una ragazzina che corre, una ragazzina che studia, un gatto che dorme, una nuvola che diventa pioggia, il vento che osserva tutto e scompiglia la carta e i rami.

Oggi è lunedì 21 febbraio dell’anno dove forse ci sarà Carnevale e questa Cronaca 715 se ne sta proprio come un gatto addormentato.

domenica 20 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/714. Il nome era un fiore o forse un altro fiore, o un gatto addormentato

 



“Non sono una gardenia” -  stava gridando il fiore rosso – “non sono una gardenia, io sono una camelia!”.

Ma era inutile che continuasse a gridare, perché le ragazzine che corrono hanno orecchie solo per il vento e nel cuore il desiderio di fare felice la mamma. “ Mamma, mamma! Guarda che bel fiore che ti ho portato, guarda che bella gardenia rossa!”. La madre alzò gli occhi dal vestito che stava cucendo e sorrise alla figlia. “Bella è davvero bella questa camelia rossa, tesoro. Vedi questo fiore è una camelia e non una gardenia, anche se un po’ si assomigliano e in tanti le scambiano una per l’altra. Ma i fiori non sono permalosi, ragazzina. Camelia sarà comunque felice di esserti piaciuta e che tu l’abbia portata alla tua mamma. Adesso mettiamo il gambo in un bicchiere per tenerla al fresco e più tardi usciremo insieme a fare una passeggiata, prima che faccia buio, così potrò sfoggiare il tuo bel fiore sulla mia giacca nuova. Ma adesso finisci i compiti tesoro, intanto che metto su l’acqua per il tè”. Ragazzina aveva i capelli inghirlandati di goccioline di pioggia che glieli facevano arricciare in teneri riccioli che assomigliavano ai boccioli sui rami dell’albero bellissimo che stava proprio davanti alla finestra della cucina, anche se ogni tanto gli sarebbe piaciuto sgranchirsi un po’ le radici. Camelia intanto si guardava intorno perché non era mai stata in una cucina ed era un fiore curioso. Le piaceva moltissimo guardare le fiamme che si allungavano e si spingevano e ridevano in fondo al camino. Le piaceva molto anche il profumo del tè, era gradevole, profumava di altri fiori di cui lei non conosceva il nome, ma forse lo avrebbe imparato. Ma più di tutto le piaceva stare a guardare un gatto tigrato grigio che stava sonnecchiando proprio davanti al camino. Ogni tanto capitava che qualche gatto randagio passasse davanti al suo vaso, ma non si fermavano mai abbastanza a lungo perché lei potesse coglierne l’essenza. I gatti erano misteriosi, custodivano segreti proprio come fanno i fiori. Per questo chi ama i fiori ama anche i gatti e viceversa. Molto compiaciuta di questa raffinata conclusione cui era giunta, camelia poté lasciarsi andare al tepore della stanza, sbocciare un po’ di più, stendere i petali e riposarsi in attesa che arrivasse il momento di uscire con madre e ragazzina a fare una passeggiata. Il gatto addormentato rizzò il pelo, come se qualcuno lo avesse sfiorato. E in effetti, nel suo sogno gattesco, qualcuno lo aveva sfiorato ed era stato un fiore rosso, forse una camelia, forse una gardenia.

Oggi è domenica 20 febbraio di un anno con pezzetti di Carnevale e questa Cronaca 714 è tornata dopo una lunga passeggiata e si è sdraiata accanto al gatto, in braccio a ragazzina e ha iniziato a fare le fusa.

sabato 19 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/713. Nessun vento è più veloce di una ragazzina che corre, neanche la pioggia può andare più veloce


Se la pioggia era stata nuvola era passato tanto tempo, troppo tempo perché potesse ancora ricordarlo. Sì, certo, la sensazione del vento che ti arrotola, ti arrotonda e ti trasporta, questo lo ricordava. Ricordava la sensazione di essere in un gregge, di essere leggera e pesante allo stesso tempo. Ricordava il sole e il cielo azzurro e profondo e l’ombra delle stelle che si affacciava e diventava luminosa mano a mano che la notte scendeva. Qualcosa ricordava, ma stava dimenticando e dopo qualche ora da pioggia, la pioggia stessa sentì che essere nuvola era solo un suo sogno. Quanto piaceva alle pioggia scendere e impregnare la terra e i vestiti degli umani. Le piaceva tanto quanto scivolare sulle foglie, che erano poche e secche perché si era ancora nell’inverno. Si ripromise pioggerella di tornare a visitare gli alberi dopo che i rami si fossero ricoperti di gemme, già se ne intravedevano alcune che occhieggiavano, tonde, cicciotte e pelose. Era rimasta a lungo nell’incavo di un tetto pioggerellina e anche nell’incavo di una mano che si era tesa oltre il davanzale della finestra aperta e ne aveva raccolta un po’ e poi l’aveva lasciata scivolare su una folta chioma scura di ragazzina, quella ragazzina che stava aspettando che la pioggia finisse per poter scendere in strada e riprendere a correre, non c’era niente di più bello al mondo, niente che le piacesse più della corsa. Pensandoci bene si rese conto che non era mai scesa a correre sotto la pioggia ragazzina, così salutò sua madre che era china su un lavoro di cucito e in un attimo fu in strada e scoprì di poter correre veloce tanto quanto pioggerella, anzi di poterla anche vincere e in questa corsa di poter battere anche il vento, perché nessun vento è più veloce di una ragazzina che corre, che sente il cuore che accelera e l’aria che vibra nei polmoni sino a quando il canto della vita non risuona ed è una campana tibetana e un campanile che suonano insieme, è il ronzio delle api ed il suono, il fruscio delle gemme che scoppiano ingannate dal primo sole, della corolla di una gardenia rossa che si schiude e la ragazzina la vede, smette di correre, si ferma. Come starebbe bene sulla giacca della mamma quella gardenia! Così ragazzina la stacca con un pezzetto di ramo, sa che il fiore poteva vivere ancora qualche giorno sul suo ramo, ma sa anche come sarà bella mamma con quel rosso fiore appuntato sul bavero della giacca, un rosso uguale a quello del suo rossetto, quasi ad annunciare la primavera che sta arrivando. Con il fiore strappato in mano riprende a correre ragazzina e la pioggia si ferma a guardare. Poi arretra e lascia che passi, solo qualche goccia si è accomodata sui petali che risplendono ancora di più, soprattutto quando il raggio di sole li colpisce.

Oggi è sabato 19 febbraio di un anno con abbastanza Carnevale e questa Cronaca 713 è ancora fiabesca e corre, corre con ragazzina.

lunedì 9 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/519. Tutto il campo del tempo era tinto di rosso fino alla linea dell’orizzonte

 



 

È freddo oggi, non ho mai avuto freddo qui in città nel mese di agosto. Non voglio certo lamentarmi ma agosto era il mese del solleone, dei campi bruciati dal sole e non solo dal fuoco dell’uomo. E oggi fa freddo, il mondo è rovesciato, stiamo per cadere tutti quanti a testa in giù.

S. sentì la donna che pronunciava queste parole mentre camminava avanti e indietro per il campo, doveva essere una povera pazza, ma non aveva voglia di uscire a guardare chi fosse. Stava così bene nel suo cantuccio, era tiepido tutto intorno e c’era acqua a sufficienza, non era il suo tempo, non ancora. Stava così bene che dimenticò la donna e tutto quel che accadeva sopra. Poi arrivarono le piogge, tranquille e l’acqua scese in profondità nelle rogge sino a raggiungere quegli strati di terra argillosa che la trattenevano e garantivano l’irrigazione di quel pezzo di mondo.

Poi arrivarono le macchine e S. venne catapultato anche a lui a testa in giù e si ricordò le parole di quella donna. Poi fu di nuovo sopra e poi sotto e poi sopra, ma troppo in alto ed ebbe paura quando scese la notte e le stelle apparvero nel buio e avevano la sua stessa forma rotonda. Si chiese se le stelle fossero semi di luce o semi di cielo, ma faceva freddo e si addormentò guardandole.

Poi fu di nuovo sotto, sempre più sotto e vide la ragazza che era ritornata, era scontenta come ogni autunno, aveva messo il broncio e Ade avrebbe dovuto penare per farle tornare il sorriso. Di solito bastavano un po’ di scherzi e poi i melograni maturi di cui era golosa. Sentì che di nuovo la terra veniva smossa intorno e poi ci fu meno spazio e c’erano altri semi molto più grandi e chiari di quanto non lo fosse lui. Almeno non si sarebbe annoiato con loro, così sperava. Tra la ragazza che conosceva tutte le stagioni e gli occhi della terra che erano i semi di grano, sarebbe stato bello trascorrere con loro la stagione invernale.

Poi fu neve e freddo ancora più acuto, poi fu notte sempre prima e il ghiaccio che stringeva tutti nella sua morsa. Tornò anche la pazza che parlava da sola a lamentarsi dell’inverno troppo freddo e che lei non era certo cresciuta al Polo Nord per meritarsi tutto quel gelo. Intorno ai campi, i paesi si accendevano di luci anche sugli alberi, forse le stelle erano cadute?

Ma passò anche il tempo delle luci e giorni e notti di buio e freddo erano l’unica storia che conoscessero. Ciascuno aveva già raccontato la propria storia e le storie che aveva ascoltato lassù.

Poi non ebbero più voglia di raccontare e se ne rimasero in silenzio e dormirono quasi tutto il tempo. E il tempo passò, sino a quando il disgelo non strappò anche le acque al loro sonno millenario e tutti lì sotto sentivano una spinta dal basso e S. si chiedeva se non fosse la ragazza a spingerlo, e poi anche qualcosa che li tirava fuori. Erano filamenti di luce che arrivavano e li solleticavano. I primi a spingersi fuori furono gli steli verdi del grano, erano splendidi anche nei campi di periferia della grande città. S. era curioso di vedere cosa stesse accadendo lì sopra.

 

Poi fu anche il suo tempo e da piccolo, nero e tondo si trovò a essere slanciato, lungo e con foglie e boccioli che si sarebbero aperti. Allora era questa la fioritura, S. aveva sentito gli altri che ne parlavano e ne aveva il ricordo anche se era fiorito per la prima volta quel giorno. Poi capì che era il ricordo del fiore rosso da cui era caduto, non il suo, e c’erano anche i ricordi di altri fiori venuti prima, talmente prima che tutto il campo del tempo era tinto di rosso fino alla linea dell’orizzonte. Le spighe del grano erano sempre più dorate ed erano nati anche i fiori blu mescolati con i rossi papaveri. Come si stava bene sotto quel sole, com’era bello non essere più un seme e basta. Nelle capsule dei suoi fiori altri semi si stavano preparando.

Poi tornò la donna che parlava da sola e si chinò per raccoglierlo perché voleva metterlo in un libro, disse. Poi un volo di rondini la distrasse e andò oltre e fu un altro il papavero che rapì per rinchiuderlo in quella cosa spessa che teneva in mano. P. allungò il collo sentì che nel libro c’erano le voci di alberi che erano stati sotto quello stesso sole. Gli sarebbe piaciuto andare con loro, ma non quel giorno.

Poi le capsule esplosero e i semi nuovi caddero nella terra e grandi macchine passarono a mietere il grano e il papavero capì perché la donna aveva detto che la morte era la grande mietitrice. Cadde con le sue spighe intorno e gli altri papaveri e i fiordalisi, ma fece in tempo a vedere ancora le stelle prima di non essere più lui, solo, chiuso in quella forma. Ma solo non lo sarebbe mai stato. Era sparpagliato nei semi che dormivano poco sotto il primo strato di terra e li rassicurò.

Poi sarebbero accadute cose meravigliose, avrebbero conosciuto la ragazza e visto il mondo di sotto.

Poi…

Oggi è lunedì 9 agosto del secondo anno senza Carnevale, una giornata insolitamente fresca che ho comunque trascorso nell’ombra del mio giardino e leggendo ho trovato un papavero che avevo raccolto sul crinale di una collina tanti anni fa, in un paesello che si chiama Golferenzo. Questa Cronaca è la 519 e rosseggia come un campo di papaveri, infinito, sotto l’infinita azzurrità del cielo.

sabato 7 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/517. Non sempre è necessario mordere il frutto per conoscere ciò che ignoriamo

 



Non è mai scontato che un fiore diventi frutto, certo il fiore è la premessa imprescindibile, ma solo certi fiori diventano frutti, gli altri fiori appassiscono e basta. L’ho imparato osservando il melograno, dove il fiore rosso e così bello, già bastava a se stesso. E invece bisognava aspettare che il frutto esplodesse dopo la morte del fiore, quando i petali erano già caduti, e la stagione fredda iniziava ad avanzare. Me l’hanno insegnato anche mandorli, peschi e ciliegi. Nuvole di petali in primavera e poi frutti deliziosi in estate. Mi chiedevo, da bambina, perché fiori belli come la rosa e l’oleandro non dessero frutti, ma ho poi capito che, a volte, la bellezza basta a se stessa e non deve dare frutti per rendere gradevole la nostra vita. È un vizio di noi umani dare valore alle cose in funzione del piacere che ne riceviamo, continuiamo a credere che il Paradiso Terrestre sia stato creato per noi e non con noi.

 

 

La prima donna non era paziente

 

Guardo il fiore del ciliegio

e mi chiedo se continuare

a guardarlo e basta, oppure

raccoglierlo e rinchiuderlo in

un libro, o esercitare la sovrana

pazienza e l’attesa, per avere

un frutto tondo, perfetto

e delizioso. Non so mai

cosa mi dirà il cuore quando

guardo il ciliegio o il melograno,

ma so che ho imparato

l’attesa e anche che non

sempre è necessario mangiare

il frutto per conoscere

ciò che non sappiamo.

 

 

Sono belle queste giornate estive passate in veranda a scrivere, con il giardino davanti e la casa dietro, con il rumore del mare e del vento che soffia in lontananza. Le cicale hanno cantato tutto il giorno e ora so che presto saranno i grilli ad accompagnare la notte. È dolce l’estate, e basta a se stessa, non ha nostalgie, non conosce rimpianti, vive nell’istante e si nutre di ciliegie, cocomeri e poesia.

Oggi è sabato 7 agosto del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 517 è rossa proprio come anguria, melograni e ciliegie.

venerdì 16 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/495. Ancora non so quale azzurro prevarrà nella lingua delle api


 


 

Cerco la parola, ma mi rispondo il mare, cerco nel vento e trovo solo nuvole e nessuna voce. A volte bisogna smettere di pensare e lasciarsi andare alla pura gioia dell’esistenza, del respiro, della luce.

 

 

Come un delfino in acqua

 

Il mare, il vento di maestrale,

il cielo è specchio dei miei

pensieri, il mare dei miei ricordi.

Passa così, tra immagini e

sogni un’altra giornata di sole

e altrove, uno di quei giorni

dove posso giocare a essere

il mirto, il sale o il delfino

dal dorso argenteo che torna

a riva a chiamarti per giocare,

e tu sei già oltre il profilo delle

onde e ridi.

 

Certe giornate estive sono così, dove filiamo le ore del giorno prima che la luce sorga e dove tessiamo il nostro telo alternando il colore della rosa a quello del mirto. Il rosmarino è forte tanto quanto la lavanda e ancora non so quale azzurro prevarrà nella lingua delle api, quale miele sarà più dolce, ma so che tutto il giardino sarà per sempre in quella luce.

Oggi è venerdì 16 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 495 sa di acqua salata, profuma di mirto e di passioni.

martedì 29 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/478. L’infanzia era un’unica, lunghissima estate

 

C’erano molti modi semplici e facili per uscire dallo stato abituale di coscienza. Il primo era restare a giocare per molto tempo sotto il sole, lasciare che i capelli e la testa si scaldassero, lasciarsi andare tra il grano maturo e guardare la luce, sentire che la temperatura del corpo era in salita e poi correre in casa, nel buio della cucina, respirare l’odore della legna bruciata, a volte del cibo nelle pentole sul fuoco, poi afferrare un gummulo di terracotta e bere a garganella, lasciar scendere l’acqua in gola, poi sul viso e tra i capelli. Pian piano impadronirsi della nuova visione e passare dal nero totale a un colore via via più chiaro, indefinito, comunque totalizzante, perché copriva tutti gli altri colori. In questa attesa lasciare che tutto il corpo si abituasse a questo repentino cambiamento e vederlo riapparire con stupore, come se in quel tempo buio si fosse stati in un altrove.

Anche il secondo modo era legato alla luce solare, al mezzogiorno, con l’astro più lucente a picco sulla testa. Anche in questo caso bisognava aspettare che il corpo reclamasse un refrigerio qualunque, che saltasse in piedi e che corresse verso il mare. Il differenziale di temperatura era sconvolgente ogni volta, anche se si era preparati. Mille aghi salivano dalle gambe verso il petto, le spalle e la testa. Era quello il momento in cui bisognava tuffarsi, sprofondare nelle onde, non respirare per qualche istante e poi sbucare qualche metro più in là. L’acqua salata gocciolerà allora dai capelli negli occhi, nelle narici già in affanno e il cuore batterà, come se stesse cercando un nuovo angolo dove respirare.

Il terzo modo era salire in cima alla balle di fieno nel fienile, respirarne l’aroma profondo e un po’ selvatico, sentire anche l’odore delle mucche che ruminavano all’ombra con il muso nella mangiatoia. Quanti metri potevano essere? Sette, otto, non di più. Ma c’era la prova di coraggio e bisognava saltare da lassù sino al fieno che non era stato imprigionata e aspettava di sapere cosa ne avrebbero fatto. Era pericoloso quel salto? Sì, era pericoloso, perché bisognava farlo prendendo la rincorsa e bisognava farlo a memoria, e cercare di non finire oltre, sulle pietre e rompersi qualche osso. Quel volo di pochi metri era un’impresa epica ogni volta, e ogni volta la Pisana e l’altra Maria, ancora bambine, lo facevano quel salto tenendosi per mano. Poi, a volte insieme, più spesso ciascuna per conto suo, se ne salivano sulla collinetta dietro la casa d’infanzia dell’altra Maria, ad aspettare il tramonto che aveva sempre un profumo particolare. Era di oleandro e menta selvatica quel profumo e, mentre l’oleandro non si poteva masticare, pena la morte, la menta selvatica preparava la bocca al pasto serale, spesso solo una grande insalata di pomodori maturi, peperoni verdi crudi, cipolle rosse di Tropea e pane cotto nel forno a legna.

Il volo, la caduta, l’esserci senza esserci, sapere di esserci stati perché il corpo ricordava sempre quelle sensazioni, non aveva bisogno che la mente si impegnasse a ricordare.

E poi? Poi ci si arrampicava su un albero, un susino, o la grande quercia, o il fico più vecchio e si restava nascoste tra le frasche mentre le madri le chiamavano per farsi aiutare a fare il bucato nell’acquaro e, siccome le bambine sapevano che lo avrebbero fatto poi per tutta la vita, perché non allontanare un po’ quella routine giornaliera? Ecco, a nessuna delle due era mai venuto in mente di potersene andare da quella terra. Non che non ci avessero pensato, molti compaesani e qualche compaesana lo avevano fatto e poi tornavano solo d’estate e qualcuno a Natale, stimandosi tutti nei loro vestiti di città, qualcuno anche con l’auto nuova. Ma vuoi mettere l’aria che respiravano e il paesaggio che vedevano lì a Milano e a Torino? Uno dei fratelli dell’altra Maria viveva proprio a Milano, si era pure sposato con una ragazza che loro chiamavano la Milanese ma che veniva dalle Puglie. Era bellissima quella ragazza e aveva fatto con il marito una prima figlia bella quanto lei che era ancora molto piccola e che aveva già intrecciato una grande amicizia con una delle nipoti dell’altra Maria. La Pisana osservava in silenzio e annotava sul quaderno delle cose quello che l’aveva colpita.

La cosa mille e sedici fu: “restare sotto il sole fino a che la testa non picchia e poi tornare in casa di corsa a bere l’acqua fresca. Per il mare lo faccio la settimana prossima”.

Così fece, si rinfrescò e poi andò a prendere la corriera per salire in paese a comprare i sussidiari e i quaderni. All’altra Maria disse che aveva finito il filo per ricamare, non era ancora il momento di rivelarle il suo nuovo proponimento.

Mentre saliva in corriera, guardava come sempre il paesaggio intorno e si stava chiedendo perché le sembrava che tutta l’infanzia non fosse stata che un’unica, lunghissima estate.

 

È proprio così, anche la mia infanzia è stata quell’unica, lunghissima estate quando ci penso. Poi, via via riaffiorano anche le altre stagioni, i panorami diversi. Ma il mio cuore batte ancora sotto quel sole di Calabria, una delle mie tre radici, uno dei miei rami che ho voluto cantare così, in questa Cronaca 478 di martedì 29 giugno del secondo anno senza Carnevale, un giorno in cui sto festeggiano il mio compleanno.

sabato 26 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/475. Nel giorno dell’oleandro rosa, il mondo gli sarebbe cresciuto intorno


 

Immagini del mondo in gioventù: un grappolo dì uva bianca e dolce mangiata non appena raccolta; un’anguria matura e profumata, comprata da Fragghiaco, nella sua capanna di frasche di granoturco proprio davanti alle fontane di Spezzano Albanese; dondolarsi sull’altalena grande, dove con una spinta forte si arrivava oltre il crinale del burrone e sembrava di volare.

Maria la Pisana scrisse nel quaderno delle cose queste immagini del mondo, non sapeva se fosse meglio una cosa soltanto o almeno tre. Decise per la cosa mille e quattordici perché le erano venute in mente tutte insieme ed era forse la prima volta che in tutta la sua vita si fermava a pensare alla sua gioventù, una gioventù vissuta nel corpo e con fatica, con molti slanci e voluttà, ma senza che mai i desideri del corpo prevalessero sul suo bisogno di solitudine. L’altra Maria non aveva mai fatto mistero della sua passione per gli uomini e poi per le gioie che diventare madre le avevano permesso di conoscere. La Pisana non aveva mai avuto bisogno di provare le cose per conoscerle, le bastava immaginarle. Questo era vero soprattutto per quanto riguardava la maternità, per l’amore e gli uomini era stato diverso. Non lo sapeva nessuno perché Romeo, sì proprio così si chiamava il suo bello, era partito per il Brasile a cercare fortuna e nessuno aveva mai più avuto sue notizie, tranne lei che custodiva in fondo al quaderno delle cose l’unica cartolina che lui le aveva inviato. “San Paolo è bellissima, mi piacerebbe che tu fossi qui con me”. Maria non si era né disperata né offesa per il silenzio infinito che era seguito a quel messaggio. Aveva osservato, sempre in disparte e sempre in silenzio, come nascevano e morivano le storie d’amore. Ed era sempre più convinta che l’amore fosse una questione di gioventù, di corpi infuocati che si cercavano anche se era proibito, dalle famiglie, dai padroni e dai parroci. Lei, Romeo lo aveva amato in tutti i modi in cui una ragazza poteva amare e la prima volta che aveva deciso di cedere alle sue continue insistenze, mise anche in conto che avrebbe potuto essere solo per una volta e che poi, avuto quel che voleva, come metteva in guardia le ragazze zia Annina, se ne sarebbe fatto vanto e poi sarebbe sparito. Ma anche Romeo era innamorato della Pisana e custodì il loro segreto e fu pieno d’orgoglio perché loro erano una coppia vera adesso, anche se non si erano sposati davanti a un parroco, Dio gli era testimone che aveva intenzioni serie e che un giorno avrebbe sposato la Pisana. Forse era colpa dell’estate che lei finiva col pensare alla gioventù, forse perché le cicale e le rondini riempivano tutta l’aria intorno, e poi c’erano tutti quei profumi. Chissà se Romeo era ancora vivo, se si era sposato e aveva fatto dei figli con una bella ragazza brasiliana. Tanti compaesani lo avevano fatto e quelli più ricchi tornavano al paese ogni due o tre anni per sfoggiare mogli e figli. Alla Pisana non dispiaceva non avere famiglia, le bastava quella dell’altra Maria, dove tutti la consideravano come se fosse una zia di sangue. Intanto che rimuginava sulle immagini di gioventù, dato che aveva già finito tutti i lavori del mattino, andò a sedersi all’ombra del pergolato con tutti i suoi attrezzi da ricamo e si guardò intorno. Quello era il giorno dell’oleandro rosa, molto diverso per come i rami si tendevano verso il cielo rispetto all’oleandro bianco che cresceva in riva all’acquaro davanti alla casa dell’altra Maria. La seta che aveva comprato era della stessa sfumatura dei fiori e così iniziò proprio da loro e il resto del mondo sarebbe cresciuto intorno. Era brava con tutte le attività femminili, come le chiamava il parroco, ci si guadagnava anche da vivere bene. Ma in quel giorno d’estate, tra il quaderno delle cose e il ricordo di Romeo, sentì che c’era una mancanza, un vuoto dentro e che il ricamo era come una merenda quando invece vorresti essere stata invitato a un pranzo di nozze. Non era facile trovare le parole, Maria la Pisana lo sapeva che il fatto di non avere studiato di certo non la stava aiutando. Decise allora di andare in paese il giorno dopo, nella cartoleria-libreria della famiglia Garofalo a comprare i sussidiari delle scuole elementari. Tanto nessuno avrebbe immaginato che fossero per lei, avrebbero pensato che fossero per uno dei nipoti dell’altra Maria. La cosa mille e quindici fu quindi: “comprare i sussidiari dai Garofalo e anche tre quaderni per italiano, storia e geografia”.

Mentre sognava i suoi libri di scuola e annotava mentalmente quello che avrebbe scritto nel quaderno delle cose, le sue mani avevano finito gli oleandri nel ricamo, e senza sapere come avesse fatto, vide che su di un ramo i fiori erano rossi.

 

Oggi ho passato un bel pomeriggio con Maria la Pisana, i suoi ricordi, i suoi ricami e i suoi desideri. Così questa Cronaca 475 di sabato 26 giugno del secondo anno senza Carnevale, si ritira nelle sue stanze che risplendono di oleandri rosa e sussidiari intonsi.

giovedì 27 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/445. Attraversare la notte con i papaveri negli occhi

 

 



Attraversare la notte è un’impresa che va preparata sera dopo sera. Nessun buio è uguale a un altro buio: il buio può essere inchiostro, carbone, velluto, stella, pupilla, velo. Frammenti di luce passano attraverso e gli danno forma, così che del buio stesso possiamo non avere paura. La notte ha sempre avuto, per me, una connotazione positiva grazie al silenzio e al tempo liberato tutto mio, che potevo utilizzare per leggere, studiare e scrivere. Tutto si fa denso nella notte e trova il giusto spazio per essere declinato. Molto di rado mi capita di non riuscire a lasciarmi andare al sonno e ai sogni, ma quando accade ho imparato a non combattere questa dimensione di veglia che sfida la stanchezza e a declinare liste di cose che mi piacciono.

 

 

Il germoglio del giorno nuovo

 

Mi commuovono molte cose,

le strisce rosse di papaveri

lungo la massicciata della

ferrovia, i nidi nuovi delle

rondini sotto il mio tetto,

l’albero bellissimo ripiegato

su se stesso e il profumo del

gelsomino che nel buio si

estende e sale verso la mie

finestre, l’acqua che zampilla

nella fontana e pare stia

parlando alle rose in fondo

al giardino. Questi sono

i miei compagni notturni,

insieme a loro attraverso

il tempo e sfioro il germoglio

del giorno nuovo che busserà

alla mia porta per chiedermi

permesso.

 

 

La lista delle cose che mi commuovono è molto, molto più lunga, ma la notte è troppo breve per diluirla in una sola poesia come questa della Cronaca 445 di giovedì 27 maggio del secondo anno senza Carnevale.

mercoledì 5 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/423. La memoria è un papavero figlio della neve e della pazienza

 


 

Una buona giornata è come un campo di terra fertile, arata nella giusta stagione e che ora, a primavera, mostra i germogli. O forse una buona giornata è uno di quei germogli nel campo del tempo, il risultato di un lavoro ben fatto, la combinazione di questo lavoro, della pioggia, della neve e della pazienza.

Ci siamo tutti esercitati a una infinita pazienza durante questi lunghi mesi di pandemia, e oggi intorno a me ho visto solo gente impaziente, che ha voglia di uscire, di muoversi, di andare in vacanza, di stare seduta all’aria aperta a mangiare in compagnia. Non ho visto niente che mi abbia sorpreso e anche questa Cronaca risente di questa eterna ripetizione che è stata la nostra vita, e che sarà la nostra vita ancora per un bel po’.

 

La poesia è un seme gettato nell’oscurità

 

Una poesia è una terra

fertile appena arata, a noi

scegliere quali semi lasciar

cadere, scegliere quanta

pazienza dovremo esercitare,

sperare che la neve sia docile

coperta e la pioggia il rivolo

che nutre. La poesia cresce

in noi come le spighe nel

campo arato dal previdente

contadino. Possiamo esercitare

la pazienza sino al giorno

della mietitura. Ogni poesia è

un seme gettato nell’oscurità

dell’anima e il frutto lo

scopriremo solo quando sarà

tregua tra le tenebre e la luce.

 

 

Così continuo la mia semina che procede stagione dopo stagione, e ora mi preparo ai campi rossi dei papaveri e agli occhi azzurri dei fiordalisi. E scrivo giorno dopo giorno, lenta come il contadino che ara con il suo cavallo e intanto pensa al grano, alla farina e al pane.

Oggi è mercoledì 5 maggio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 423 si stende a perdita d’occhio punteggiata di papaveri e poesia.

giovedì 1 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/389. La gioia è un’ape che ronza sul mio foglio bianco, è il mondo tutto intero in un elenco

 



La gioia arriva senza un perché, fiorisce come le rose e illumina l’intera giornata. In giardino le forsythie risplendono nel sole, gli uccellini cantano da un ramo all’altro, si chiamano, rispondono. Nonostante l’erba sia ancora umida, mi siedo a gambe incrociate vicino a uno dei cespugli e osservo i fiori sempre più da vicino, sino a quando il mondo è diventato tutto giallo. Poi alzo lo sguardo verso il sole e lascio che quest’altro giallo si sovrapponga e mi accechi. Per qualche istante non vedo le cime degli alberi, le poche nuvole, il cielo di un azzurro incerto. Quando ritorno nella visione della realtà ordinaria, mi metto a cercare gli altri colori. A parte il cielo, il cui colore è dominante, sono circondata dal verde in ogni sua sfumatura. I germogli sui rami, i sempreverdi pini e abeti, l’alloro, l’erba, le foglie che contornano con grazia le fioriture di ciliegi, mandorli, peschi e albicocchi i cui fiori sfumano dal rosa al bianco. Le panchine di pietra sono riassunti di ogni tipo di grigio, i tronchi degli alberi del marrone. È talmente caldo oggi, che lascerò spente la stufa e il camino. Così andrò a fare la spesa nella città svuotata e continuerò a chiedermi perché ci siano le zone rosse quando si può andare in vacanza all’estero, perché la ricca Lombardia non è ancora riuscita a predisporre un piano vaccinale che funzioni. E continuerò a chiedermi perché ogni giorno vengono sbandierati numeri in merito ai vaccini che verranno somministrati nelle prossime settimane. Da quando abbiamo cambiato governo, il nuovo stile di comunicazione ha gettato nella confusione e nello sconforto i media. Se paragoniamo i siti di informazione con le loro versioni di qualche settimana fa, la noia regna sovrana, che è una frase fatta ma molto efficace per esprimere quel che è diventato difficoltoso esprimere, cioè che la politica non si fa con i proclami, ma con le buone pratiche, con il buon esempio, con le competenze e le conoscenze acquisite, non con le chiacchiere.

Intanto, mentre cerco di capire quanta gente è rimasta in città, vado a fare la spesa al mercato con mia cognata Monica e con la sua amica Rossella. È un mercato di quartiere che c’è tutti i giovedì, lo frequento da poco e mi fido delle loro indicazioni per fare la spesa. Così torno a casa con mele Fuji, zucchine, peperoni, finocchi, cipolle rosse di Tropea, pomodori Merinda, caciocavallo silano, gorgonzola bresciano, mozzarella fior di latte pugliese, uova cremonesi, yogurt trentini, pepite di pollo piccanti, patatine fritte, focaccia e pane. Ecco, fare la spesa al mercato è una delle piccole gioie della vita quotidiana. A pranzo assaggio tutti i cibi assaggiabili che non hanno bisogno di cottura. Questi pic-nic sul tavolo della cucina sono un’altra delizia. Poi però ho nostalgia delle mie terre ai piedi delle Montagne della Nebbia e decido che tornare nel giardino della Casa delle Parole e passare il tempo a leggere al sole, è un’altra piccola gioia da aggiungere al mio personale elenco.

Poi, come spesso accade, la poesia arriva ronzando come un’ape e si posa sulla mia pagina ancora bianca.

 

 

Come elencare la gioia

 

Gialli sono i fiori, il miele e

i limoni, gialla è la gioia che

mi attende in giardino. Verdi

sono il prato, i germogli nuovi

e l’alloro, verde è la gioia

che mi chiama nella pagina.

Azzurri sono il cielo, la lavanda

e i myosotis, azzurra è la gioia

che fluisce con l’inchiostro.

Così ho fatto un elenco

poetico di questa realtà che

chiamiamo vita e la gioia,

tutta intera ronza tra questo

foglio e l’alveare.

 

 

Continua a fare davvero caldo, troppo caldo per essere solo all’inizio di aprile. Finisco di copiare questa Cronaca 389, prima del mese del quarto mese del secondo anno senza Carnevale, una Cronaca che ronza poesia e sorride al mondo e al tempo.

martedì 28 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/142: tu il fuoco, io la scintilla e il legno nel camino

Il campo di girasoli è nel pieno della sua fioritura, tutti stanno in faccia al sole, tutti, tranne uno.

Gli chiedo perché stia dall’altro lato e non si abbeveri alla piena luce del mezzogiorno.

“Non posso – mi dice – non posso. Perché li guardo e li vedo cadere. Alla fine della stagione non resterà nessuno, io pure sarò solo una manciata di semi e un gambo essiccato, le foglie arse dalla stagione implacabile”.

Mi chiedo perché solo lui, solo quest’unico girasole sappia come finirà questa storia. È inusuale che una creatura con le radici conosca la fine che solo a noi umani è dato sapere.

“Ero un pastore prima di diventare girasole, forse per questo ricordo che la fine è già data e nota. Forse per questo mi intenerisco alla vista dei miei fratelli che si credono immortali nell’oceano di luce solare”.

Non resta memoria di chi o cosa siamo stati, ma è vero, a volte ricordiamo.



Le mani sapienti che mi hanno accarezzato


Tu il fuoco, io la scintilla e
il legno nel camino.

Io la pioggia, tu la nuvola e
la terra odorosa.

Tu l’ombra, io lo zenit e
il girasole reclinato.

Io la rosa, tu il giardino e
le mani sapienti.

Le mani sapienti che mi hanno
accarezzato.



Se porto in me tutti questi frammenti di vita e di memoria, come farò a distinguere che io sono proprio io e non tu in un giorno passato?

Come farò a ricordare che ero pioggia e poi rosa e poi un’onda e la risacca, una conchiglia, un sorriso, il volo alto delle aquile, come farò?

Je est un autre, aveva ragione l’uomo con le suole di vento. Io non sono io ma un’altra. Tu sei tu e anche me. Insieme possiamo cavalcare l’onda e le nuvole.

Le vigne sono già piegate sotto l’uva che presto sarà matura. Imparo la pazienza dall’acino e dal grappolo. Torno dal girasole e lo accarezzo, noi saremo anche il frutto che ora è acerbo.

Così passano le generazioni e l’ulivo si contorce perché prende su di sé tutto il dolore della separazione, tutto il dolore del rimpianto e della nostalgia.

Sono le rose e il melograno a non girare mai il capo all’indietro, perché sanno la pena di ogni singolo giorno e tanto basta.

Solo le rose sono passeggere pazienti del tempo che verrà. Perché l’estrema fioritura sarà e non importa dove, e non importa come.


Il piccolo prato

Non è abbastanza
La pozza di cielo nel nostro cuore
È il cielo tutto intero
Che voglio quando sarà l’ora
Di scorrere come acqua pura
Nel letto profondo dell’amore.


L’acqua scorre e scivola di lato, tu sei il fiume e io il pesce argentato. Tu il mare e un’intenzione, un refolo di vento e la scintilla d’argento che ti chiama per nome.



La poesia Le mani sapienti che mi hanno accarezzato, un cui verso è diventato titolo, l’ho scritta per questa Cronaca 142.

La poesia Il piccolo prato è di Anne Perrier, la traduzione è mia.




Le petit pré

Ce n'est pas assez
D'une flaque de ciel en notre coeur
C'est le ciel tout entier
Que je veux quand viendra l'heure
De s'écouler comme une eau pure
Dans le lit profond de l'amour