giovedì 30 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/53: l'aria del poema è l'inaspettato


C’era un tempo in cui i poeti davano parola a se stessi, in altri tempi i poeti davano parola al mondo e in altri ancora davano parola all'umanità, alle stelle o al silenzio.

La parola poetica è la parola detta, quella che resta incisa nella lingua e nella gola, che non abbandona più chi l’ha scritta prima e chi l’ha pronunciata dopo.

La solida permanenza della parola pronunciata si disperde però nelle parole di Osip Mandel'štam quando scrive che “l'aria del poema è l'inaspettato”.

Aria e inaspettato sono le due parole chiave di questa enunciazione il cui ponte è costituito dalla parola “poema”.

Mandel'štam è poeta - dei poeti e della poesia bisogna parlare al presente, perché a ogni lettura avviene la resurrezione di chi scrive e l’incarnazione di una parola che resta – dalle metafore ardite, come scrive Angelo Maria Ripellino:

accostando in misture inattese opposti campi semantici, rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse simultaneamente imbricare differenti assi ottici”.

Padroneggiare le metafore è il primo segno distintivo dei poeti-lupo, quelli che attraversano la tempesta e il bosco, la bufera di neve e la notte più scura.

Fabio Pusterla scrive di Mandel'štam nel libro Il nervo di Arnold:

“Lo stlanik- cioè il pino siberiano – (…) può rappresentare laforza e la fragilità, la pacificacaparbietà dellaparola poetica? Meloauguro.
Tantopiùche, inmezzo ai boschi dove crescelostlanik, è passato davvero,molti annifa,ungrandepoeta, OsipMandel'štam,sulla via delladeportazioneche lavrebbecondottoallamorte; e allora quandopenso allo stlanika me viene subito inmente la figuradiun altropoeta,Philippe Jaccottet,cheuna voltaaFrancoforte,leggendo appuntolesuetraduzionifrancesidi alcunepoesie di Mandel'štam,si è alzato in piedi (lui, di solito così timido eriservato), e con voce piùaltadel normaleha detto che iversidi Mandel'štam sembrano dirci, ancora oggi: «In piedi,alziamoci inpiedi!Ancheneimomentipeggiori,anchenellepeggioricondizioni: su, inpiedi,camminiamo!»

Camminano, dunque, i poeti-lupo e scrivono e le loro poesie fioriscono anche in mezzo alle intemperie e alle avversità, forse se ne nutrono e fanno risplendere l’universo di metafore.

Lo stesso Mandel'štam scrive nelle sue Conversazioni su Dante:

“Quando pronunciamo, ad esempio, la parola “sole, non liberiamo un significato bell'e pronto, ma passiamo attraverso un ciclo tutto particolare. Ogni parola è un fascio di significati, e un significato affiora da esso per irradiarsi in varie direzioni, senza mai convergere in un solo punto ufficiale. Pronunciando "sole", noi compiamo una sorta di enorme tragitto a cui siamo talmente abituati che viaggiamo immersi nel sonno. La poesia si distingue dal linguaggio automatico proprio in quanto ci sveglia e ci riscuote nel bel mezzo della parola.
Questa risulta allora molto più lunga di quanto pensassimo, e ci rammentiamo che parlare significa essere sempre in cammino”. 
Ma il cammino dei poeti-lupo non si dispiega solo nel fango e nella neve. Spesso devono attraversare campi di stelle e strade di sillabe.

Come collegare tutte le lettere dell’alfabeto, tutte le sillabe, tutte le metafore e similitudini in un Oceano di senso?

Come fanno le stelle a parlare tra loro se hanno solo la luce e lo spazio per comunicare?

I lupi si sono seduti accanto a me mentre rileggo queste riflessioni scritte a mano.

Sembra che capiscano, hanno capito, conoscono la parola lupo in tutte le lingue, la abbinano alla parola poeta, alla parola stella, alla parola oceano.

I fili invisibili della poesia si annodano a quelli della comprensione.

Andiamo! Li esorto, andiamo a camminare in questo tramonto di nuvole e pensiero.

Conteremo la nuova notte ferita di nostalgie, declineremo una poesia nella lingua dei lupi, li lasceremo ululare e poi, a bassa voce, renderemo omaggio al nostro poeta.






La stessa rosa

Come acqua oscura bevo la torbida aria,
il vomere ha arato il tempo e la rosa
fu già terra.
Osìp Mandel’stam

Se la rosa fu già terra
e dall’aria torbida, dal sole
rinato alla terra ritornerà,
da quale inchiostro, da quale
carta nacquero quelle parole
così amate?
Come il legno genera fumo e
cenere dopo la fiamma,
così questa attesa divampa
nel nuovo inverno che batte
alla mia porta: imita il tuo
passo e scioglie il gelo che
assedia la mia fiamma e
la stessa rosa.

Elena Petrassi

Figure del silenzio
Atì editore 2010


mercoledì 29 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/52: anche la pioggia crea la sua notte


Come affrontare la pioggia? Come affrontare uno scroscio? Come affrontare un’intera giornata o la notte che viene, sotto l’acqua?

Il tempo in cui la pioggia si manifesta non è indifferente, ci spinge alla fuga o al gioco, alla contemplazione o al rifugio nel profondo di noi stessi.

Il re è uscito a passeggiare nei campi in compagnia dei lupi anche se il cielo striato di grigio preannunciava l’arrivo di una pioggia sottile.

Così è stato e questa pioggia di primavera, che evapora non appena tocca il suolo, invita alla corsa e al gioco come stanno facendo i lupi e il re.

Quando corriamo, saltiamo, ci rotoliamo nei prati, la nostra età anagrafica sparisce e i bambini e i lupacchiotti che siamo stati, riprendono la scena e giocano, giocano come se non ci fosse nient’altro che importa al mondo.

Diverso è decidere di camminare sotto lo scroscio di un temporale estivo. Lo avete mai fatto? Io sì, quando ero adolescente, e una parte di me continua a essere adolescente, quando lo stupore del mondo è tutt'uno con il nostro spirito e i nostri desideri.

L’adolescenza è una terra di nessuno attraversata da fulmini e scrosci di pioggia improvvisa.

In quell'ormai remoto pomeriggio di agosto un temporale minaccioso, così com'erano i temporali di un tempo, aveva oscurato il cielo e allagato le strade.

Nelle estati della mia adolescenza ho lavorato nel palazzo di Via Manzoni 31 a Milano dove ora c’è l’hotel Armani e che all'epoca era un palazzo di uffici.

Nonostante la pioggia avevo continuato a camminare a piedi attraversando il centro sino ad arrivare in piazza Castello. Pioveva talmente tanto che facevo fatica a respirare, ma la sensazione della pioggia che si infrangeva sulla pelle nuda delle braccia e delle gambe, mi basta chiudere gli occhi per sentirla ancora. Quando sono scesa in metropolitana, uno strascico di acqua sgocciolava dai vestiti che mi si erano appiccicati addosso e dai capelli lunghissimi e tutti arruffati. Mi ero guardata per un attimo nel riflesso dei finestrini e avevo intravisto una giovane e bella ragazza dall'aria fiera e selvaggia in compagnia di una lupa altrettanto arruffata e giovane.

I temporali estivi è bello viverli anche da una finestra o dal divano e sentire le gocce che battono sui vetri, si infrangono sulle foglie e poi scivolano verso la terra.

Ho un ricordo vivido di un temporale che aveva avvolto un albero di fico maestoso il cui profumo invadeva l’aria del giardino per diversi mesi ogni anno.

Quando la pioggia iniziava a diminuire pareva di poter contare ogni goccia e di accompagnarla nel nuovo regno sotterraneo che la stava aspettando.

Man mano che il rumore scemava, un sonno come di fiaba prendeva il sopravvento e potevo addormentarmi certa che solo sogni di carta di riso mi avrebbero visitata.

Di notte, invece, la pioggia può essere foriera di accese nostalgie, soprattutto se siamo soli, soprattutto se cerchiamo la presenza di qualcuno che amiamo e che non è con noi.

Ma ora non è ancora notte, il re è fuori nella brughiera ai piedi delle Montagne della Nebbia e i lupi non lo lasceranno solo.

Posso sedermi al mio tavolo e iniziare a scrivere una nuova Cronaca.

Anche il congedo di oggi è poetico e molto piovoso. I versi, della superlativa scrittrice e poetessa canadese Anne Michaels, sono tradotti da Francesca Romana Paci e tratti dal volume Quello che la luce insegna.


La pioggia crea la sua notte


La pioggia crea la sua notte, lunghe mattinate con le lampade
    accese.
Erba lunga di spiaggia incollata al pavimento vicino alle tue
    scarpe,
polline della scorsa estate si alza da zanzariere bagnate.

Questo è ordine, questi cumuli che riempiono spiazzi fra noi,

indumenti aggrappati alle sedie, le tue scarpe in un guscio
   di fango.

La pioggia forte ha un odore come se venisse dalla terra.

La luce umana dentro le nostre finestre, calma aranciata
di stanze viste dall'esterno. Il posto dove ci diamo da soli,
dandoci al sonno. Circondati dalla garanzia verde di una foresta,
dal tulle di ferro di cielo e mare,
mentre la notte, la pioggia, fila giù attraverso gli alberi.



Rain Makes Its Own Night


Rain makes its own night, long mornings with the lamp left
on.
Lean bean grass sticks to the floor near your shoes,
last summer’s pollen rises from damp metal screens.

This is order, this clutter that fills clearings between us,
clothes clinging to chairs, your shoes in a muddy grip.

The hard rain smells like it comes from the earth.
the human light in our windows, the orange stillness
of rooms seen from outside. The place we fall to alone,
falling to sleep. Surrounded by a forest’s green assurance,
the iron gauze of sky and sea,
while night, the rain, pulls itself down through the trees.

martedì 28 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/51: vivere è un verbo di fuoco


Sono seduta allo stesso tavolo di ieri sera, i lupi dormono accanto al fuoco.

A cosa stai pensando? Mi chiede il poeta.

Il re dorme, gli rispondo e non so dire di che re io stia parlando. Mi sono svegliata con questa frase in testa e da ore cerco una spiegazione, ma non ne trovo.

Il re dorme, non ci sono storie da raccontargli questa sera dunque?

Ma io non posso fare a meno di rispondere a questo richiamo che è selvaggio come l’ululato del lupo.

Ieri amore e scrittura hanno intessuto la narrazione serale e oggi si aggiunge il terzo elemento che è specchio dell’amore e condizione della scrittura, la solitudine.

Matsuo Bashō ha scritto:

Cade una foglia di paulonia -
perché non vieni
nella mia solitudine?

È vero nella
solitudine si entra come fosse un luogo preciso, una stanza, un rifugio. La solitudine ha una dimensione fisica prima ancora che interiore. In queste settimane di clausura anche chi non lo sapeva lo ha imparato.

Il re dorme e nel suo sonno è sempre solo perché la solitudine può essere un mantello di polvere grigia o una coltre di stelle cadute e fino a che non ci addormentiamo non lo sapremo.

Veglio dunque il sonno del re, del mio re, del re di questo reame che ancora non conosco e che costruisco con le mie parole. Perché proprio un re poi? Io che credo nella democrazia… ecco che l’anima razionale cerca di smontare questo gioco innocente. Il re regna solo su se stesso, è evidente, preferirebbe anche lui piazze affollate a questo vuoto castello. Ma per il momento dorme e io veglio scrivendo storie che non sono solo per lui.

Vado a cercare i versi di Gottfried Benn per fare un po’ di ordine in questo arazzo di parole e Parole si intitola questa sua poesia:

Solo: tu con le parole,
e questa è veramente solitudine,
non trombe né archi trionfali
sono in quest'essere.
Guardi loro nell'anima
cercando il primo viso, il viso primigenio,
anni su anni - schiantati
sì di fatica, ma non troverai
E di là s'accendono i lumi
in un dolce rifugio umano,
piana, da labbra umide, di rosa,
come una perla cade la parola.
Solo i tuoi anni ingialliscono
in un diverso significato,
fino nei sogni: sillabe
ma tu tacitamente passi.

La solitudine è dunque un dolce rifugio umano, è gioiosa quando la scegliamo, lugubre se ci viene imposta come in queste settimane iniziali della pandemia di cui stentiamo a vedere la fine. Della vasta famiglia umana solo i congiunti saranno visitabili a breve, senza un legame di sangue o di carta, l’amicizia e l’amore non valgono nulla per l’ottusa burocrazia.

E questo non fa che aumentare il desiderio di fuga cui nemmeno Tolstoj poté sottrarsi. Fuggire è un istinto primordiale dell’essere umano, mi chiedo da quale dei suoi personaggi questo scrittore abbia cercato di fuggire, Guy Goffette tradotto da Chiara De Luca così dipinge il suo intento:

Trascinerò l'inverno
nella tana del lupo
per decifrare
l'alfabeto di cristallo
dove vivere è un verbo di fuoco

chiamerò il silenzio
pesante larga patria
il viaggio del freddo
che le case ci rubano

chi mi ritroverà
- neve nessun eco
avrà gli occhi bruciati
un grande popolo d'uccelli
vestirà il suo corpo
il cammino si estenderà
fino alla fine della sua ombra


Alla fine della solitudine resta solo un sentiero coperto di impronte, il rifugio è vicino e anche Tolstoj troverà la sua pace.

Mi accorgo scrivendo che questa solitudine è molto affollata: scrittori russi per primi, perché con Tolstoj c’è sempre Cechov; Virginia Woolf è seduta nella sua poltrona con la sua tavola da scrittura sulle gambe, il fuoco nel camino è alto, si svegliano i lupi e anche il re si è svegliato, non ricorda nulla, non sa di essere il re di questo bizzarro rifugio che è la mia solitudine, una solitudine amorosa che riverbera gioia verso l’esterno e che rallegra i lupi e li incita a giocare sul tappeto come fossero in un prato.

Fuori è la pioggia che prende il sopravvento, ma qui stiamo al caldo e sicuri, potrebbero scatenarsi tutti i temporali, noi giocheremmo con le gocce di pioggia come fossero tondi cristalli di neve.

Bisogna imparare a stare ai margini delle stagioni, in bilico sui confini, bisogna sapere aspettare e far rotolare minuto dopo minuto nella cesta del tempo.

Arriverà quel giorno, il giorno in cui la solitudine sarà solo una stanza della vasta casa del mondo, il giorno in cui potremo varcare tutte le frontiere e stupirci di averle rispettate, e varcarle e scoprire che erano ombre dei rami proiettate sul nostro cammino.

Perché vivere è un verbo di fuoco e il fuoco arde sino a che non avrà compiuto il destino cui è chiamato. Il re lo sa, per questo torna a dormire e sorride ai lupi che si accucciano al suo fianco.

lunedì 27 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/50: la notte è ancora troppo poco notte


Sto nella casa ai piedi delle Montagne della Nebbia, sto e attizzo il fuoco. 

Dall'altro lato del camino i lupi sonnecchiano, la luna è invisibile, forse la notte non ha ancora abbastanza richiami per loro.

Ma la notte è piena di richiami per me, lo era prima ancora dell’inizio di questa clausura o quarantena. Ho sempre scritto e studiato di notte, anche quando da ragazzina avevo il pomeriggio libero da impegni scolastici. Soprattutto leggevo e poi dopo le 17 iniziavo a studiare. Ma il vero impegno iniziava dopo cena, in qualunque stagione.

La notte è sempre stata la dimensione dello studio e poi della scrittura.

Inizio questa tessitura della nuova Cronaca con una citazione dalla lettera di Franz Kafka a Felice del 14-15 gennaio 1913:

«Perciò quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può avere mai abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte».

Non si è mai abbastanza soli, non c’è mai abbastanza silenzio intorno, queste sono verità che chiunque scriva conosce molto bene, e sono condizioni di vita che creano distanza tra chi scrive e chi gli vive accanto anche se è a sua volta uno scrittore.

La notte arriva silenziosa e le ore precedenti alla silenziosa pratica della scrittura somigliano sempre a quelle descritte da Virginia Woolf:

«Vorrei che tu vedessi la mia stanza in questo istante, una cupa sera invernale: i miei amati libri col dorso di pelle, così belli, ritti sugli scaffali, un bel fuoco, la luce elettrica, un'enorme massa di manoscritti, lettere, bozze, penne e inchiostri sul pavimento e un po' dappertutto. Fra una settimana ci sarà abbastanza disordine per uno sgombero generale, poi ricomincerò da capo, e poco alla volta ritornerò a una gioiosa frenesia di carta».

Si scrive sempre per un “tu”, per un “altro” reale o immaginario, anche per l’”altro” di Rimbaud, “Je est un autre”, un “altro” che è in noi, che siamo noi, ma non soltanto.

Questa esperienza dell’altro per cui scriviamo, dell’altro che si svela, ha molte attinenze con la scoperta dell’altro nelle fasi iniziali dell’amore. 

Così come scopriamo la notte e ci riveliamo attraverso la scrittura, così l’amore si svela in un silenzio che si riempie solo della voce di chi amiamo, di una notte che sarà felice perché già immaginiamo come sarà trascorrerla con la creatura su cui amore e desiderio si concentrano.

Anche se non tutta l’umanità si dedica alla scrittura, la maggior parte di noi si rivolge ai poeti quando sente l’amore sgorgare da una profondità dell’essere che prima non ci era dato conoscere.

Questo hanno in comune la scrittura e l’amato o amata: ci consentono di svelarci, di rivelarci, di scoprire il mondo, di costruire un mondo dove poter vivere insieme a chi amiamo.

Nell'amore e nella scrittura cerchiamo una pienezza dell’essere che possa trascendere la dimensione materiale e quotidiana della vita.

Amare e scrivere ci portano in un altrove dove dimentichiamo da dove siamo partiti e spesso anche dove stiamo andando.

La sillaba di una parola d’amore, di una poesia, possono arrivare alla creatura amata con la stessa potenza di un bacio o di una carezza.

È singolare questa dimensione della scrittura e dell’amore che, almeno in una fase iniziale, sembra possano fare a meno del corpo. Ma si può fare a meno del corpo? No, come è ovvio, il mondo e la sua esperienza sono un tutt'uno con il nostro corpo, con il nostro vissuto, con i nostri desideri.

Scriviamo per afferrare la bellezza del mondo, per trattenerla e poi lasciarla andare perché, come l’amore, non possiamo farla prigioniera.
L’amore è la prima esperienza di libertà che facciamo.

Quando impariamo a camminare ci sono mani amorevoli che ci sorreggono e poi ci lasciano andare se barcolliamo, così come accade quando impariamo ad andare in bicicletta, una mano ci sostiene, ci spinge, ci lascia andare. Se cadiamo saranno le mani amorevoli della madre o del padre a raccoglierci.

Nelle relazioni d’amore la libertà si manifesta nell'essersi scelti, nell'avere sentito quelle affinità elettive che ci guidano verso una persona e verso di lei soltanto.

Così avviene nella scrittura, perché si scrive sempre per qualcuno, noto, immaginato o sconosciuto.

Tu lettore, "Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!" sei l’oggetto del mio amore e del mio desiderio.

Per questo scrivo di notte e ti cerco a ogni alba, perché gli amanti sanno, come lo sanno i lupi, che l’amore necessita di devozione e pazienza, non solo della furia del desiderio che sa soltanto invocare le stelle sue compagne e si placa solo quando i corpi si intrecciano.

Ma l’anima e il cuore, lo spirito e la memoria, il desiderio e l’immaginazione, tutto quello di cui siamo intessuti, tutto quello che l’argilla primordiale è diventata, sono i pazienti scriba, sono Penelope che disfa ogni notte ciò che il giorno ha imposto al telaio, sono i contadini che arano il campo e aspettano il tempo della semina. Il raccolto crescerà nel suo tempo dovuto e la pioggia avrà impregnato la terra e il sole l’avrà asciugata.

Così una nuova poesia ti avrà raggiunto nel cuore della luce, nel cuore delle ombre, nel chiarore rosato di un’alba nuova, nella violenza del sole che evoca i demoni meridiani e poi cerca la propria pace in quei pomeriggi azzurri dove soffia sempre questa brezza leggera.

Come un soffio è l’amore, come un soffio ogni poesia.

Il congedo di questa sera è una poesia breve e diretta che Carmen Yáñez scrisse per Luis Sepúlveda negli anni Novanta del Novecento. La traduzione di Roberta Bovaia fa parte del volume Paesaggio di luna fredda.

A volte la poesia e l’amore, la scrittura e il desiderio percorrono lo stesso cammino, sono un’unica cosa.

A tu per tu

I nostri universi
si potrebbero toccare.

Invece scelgo la tua bocca
come punto di riferimento
per incendiare il mio mondo
a poco a poco.

Altrimenti
esploderemmo.


Frente a frente

Nuestros universos
se podrían tocar.

En cambio elijo tu boca
como punto de referencia
para encender mi mundo
poco a poco.

de otro modo
estallaríamos.

domenica 26 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/49: Un alito come di fuoco era attorno a te – Venivi dalla rosa


Le Montagne della Nebbia non hanno un inizio né una fine, ancora oggi sfuggono a qualsiasi rilevamento, anche dallo spazio sono invisibili perché sono protette non solo dalla Nebbia ma anche dalle Nuvole.

Di certo si sa che bisogna lasciarsi alle spalle le ultime case della periferia infinita, quella sempre uguale a se stessa e che circonda ormai tutte le città.

Un campo inaridito, lattine che rotolano nel vento insieme a cespugli che arrivano da non si sa dove, latrati dei cani, asterischi sui pali della luce, segnalibri nella corsa dell’aria, il silenzio.

Le Montagne non amano i visitatori, per questo si confondono sia con la luce del lago che con quella delle stelle, con la pianura abbandonata e con il fiume che scende dai suoi fianchi fragoroso.

Chi decide di intraprendere la salita deve prepararsi con una lunga sosta in una casa dove non c’è nulla se non l’eco di giorni che mai saranno stati.

Nessuno conosce l’esatta distanza tra il mare e la luna perché le Montagne si ergono proprio nel centro di questa distanza e dato che noi non sappiamo dove esse abbiano inizio e abbiano fine, non possiamo conoscere quanti sospiri ci porteranno verso il nostro pianeta minore, quello dove forse un giorno abiteremo.

Neanche venire dalla rosa ci avrebbe dato maggiori privilegi, solo avremmo sentito, prima di chiunque altro, che le Montagne ci invitavano al cammino.
Arrivati ai piedi dell’altopiano siamo stati accolti dai lupi.

All'inizio erano un branco, poi in molti si sono allontanati e sono rimasti solo un grande lupo nero e la sua compagna candida come un narciso, più piccola di lui certo, ma così maestosa da dare l’impressione di avvolgerlo in un mantello di nuvole e l’effetto era pensare che lui fosse l’inchiostro e lei la pagina bianca.
Non siamo stati guidati dai lupi, ci hanno camminato accanto, senza mai nemmeno controllare perché di tanto in tanto fossimo costretti a rallentare il passo.

Arrivati sull'altopiano, abbiamo visto la vegetazione tipica delle montagne alpine cui eravamo abituati, mutarsi in una foresta tropicale intessuta a piantagioni di caffè che nessuno coltivava perché i frutti non arrivavano mai a maturazione.

Così era il tempo lì sull'altopiano, le Montagne della Nebbia non smentivano il loro nome, altissime si ergevano dinanzi a noi che volevamo proseguire anche se non sapevamo perché.

Una casa di frontiera, costruita con pietra e legno accolse i nostri corpi piegati dal vento.

Sì, i nostri corpi e quelli soltanto, perché gli spiriti stavano fuori a combattere contro il vento, a giocare con il vento, inconsapevoli di essere separati da noi stessi.

Quando il gioco finiva anche i lupi entravano nella casa, i due lupi nero e bianca che non lasciavano mai il nostro fianco, i lupi custodivano la fragile unità tra questo corpo e quelli che stanno in altre dimensioni, i lupi sanno che il nostro spirito è il tramite tra le dimensioni e che il mondo non è mai stato uno, che la mente è solo una porta aperta, che l’anima è un passeggero.

Solo i lupi sanno che “l’amore è quello che resta dopo l’incendio” anche se l’alito del fuoco è ciò che ci dona la forza di iniziare questa salita.

Che siano benedetti i lupi che ci hanno accompagnato in questo luogo dove nascono i poeti.

Non solo sulle isole feconde del mare Mediterraneo, non solo nei deserti dell’Africa Settentrionale, non solo nella lontana Mongolia.

I poeti nascono nel cuore di città immaginate agli albori del secolo XX° che è ormai davvero finito.

I poeti nascono qui, al confine tra l’altipiano e il cielo, dove le nuvole si 
confondono con la nebbia e i lupi hanno dimora.

Cambiano colore alla luce della luna, la lupa diventa color argento e lui così nero da sfidare la notte più oscura e solo il chiarore degli occhi di fiamma ne lascia intuire il mantello folto e scuro.

Continuiamo a camminare nella notte, non possiamo fare altro, non dobbiamo fare altro.

L’alba ci sorprende ancora ai piedi delle Montagne della Nebbia, ci guardiamo indietro ed è come se non avessimo fatto neanche un passo.

È così infatti, non ne avevamo bisogno, quelle montagne sono in noi proprio come i lupi.

Le abbiamo erette solo per poter camminare e cercare i poeti, accarezzare i lupi e poi sdraiarci accanto al fuoco e con loro, con i lupi, sognare lo stesso sogno di fiamma e argento, un sogno di temporale e primavera che sta sempre per arrivare.

L’Oriente e l’Occidente si scambiano spesso di posto e ogni giorno non sappiamo da quale parte sorgerà il sole.

Solo le Montagne della Nebbia risplendono, rosate se il sole sorge a Oriente, colore delle prugne mature quando è l’Occidente a offrire questo dono di luce.
Restano le dita di ogni alba a segnare il nostro volto ancora addormentato, quando il sapore di terra e di vento del giorno prima ancora non è mutato.

Come invece muta il fuoco, così come Eraclito ci insegna:

“Mutazioni del fuoco: da prima mare, e dal mare una metà terra e una metà fiamma in cielo”.

Tutto ciò che è selvaggio muta in domestico, tutto ciò che è domestico ritorna selvaggio.

È questa la regola dell’altipiano, è questa la regola dei lupi.

Che sono metà fiamma del cielo e metà terra feconda e metà mare calmo di vento.

La somma non farà mai uno, inutile contare, dovremmo moltiplicare ogni parte per due, quanti sono i lupi, e per quattro per non dimenticare corpo, mente, anima e cuore e di nuovo moltiplicare per quanti siamo noi, chiusi nelle case i corpi, liberi nel vento i nostri i cuori.

“L’amore è quello che resta dopo l’incendio” è una citazione dal romanzo Una storia quasi perfetta di Mariapia Veladiano.

La poesia che dà il titolo a questa cronaca è dell’immenso Paul Celan.

Un alito come di fuoco era attorno a te – Venivi dalla rosa
Dove è ghiaccio, li è frescura per due.
Per due: così ti feci venire.
Un alito come di fuoco era attorno a te –
Venivi dalla rosa.

Io domandai: com'eri chiamata laggiù?
Tu me lo dicesti, quel nome:
era cosparso d’un chiarore come di cenere –
Dalla rosa, venivi.

Dove è ghiaccio, lì è frescura per due:
io ti diedi il doppio nome.
Sotto, spalancasti allora il tuo occhio –
Dove il ghiaccio s’apriva ristava alto un bagliore.

Ed ora, dissi, io chiudo il mio –:
Prendi questa parola – il mio occhio la declama al tuo!
Prendila, ripetila con me,
ripetila con me, lentamente,
ripetila con me, tu la devi trattenere
e, il tuo occhio, tenerlo aperto finché ciò dura!

Paul Celan
Di soglia in soglia
a cura di Giuseppe Bevilacqua
Einaudi 1996



Wo Eis ist, ist Kühle für zwei.
Für zwei: so ließ ich dich kommen.
Ein Hauch wie von Feuer war um dich ?
Du kamst von der Rose her.

Ich fragte: Wie hieß man dich dort?
Du nanntest ihn mir, jenen Namen:
ein Schein wie von Asche lag drauf ?
Von der Rose her kamst du.

Wo Eis ist, ist Kühle für zwei:
ich gab dir den Doppelnamen.
Du schlugst dein Aug auf darunter ?
Ein Glanz lag über der Wuhne.

Nun schließ ich, so sprach ich, das meine ?:
Nimm dieses Wort ? mein Auge redet's dem deinen!
Nimm es, sprich es mir nach,
sprich es mir nach, sprich es langsam,
sprich's langsam, zögr es hinaus,
und dein Aug ? halt es offen so lang noch!