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venerdì 10 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/551. Ho sempre creduto solo nei colpi di fulmine, amore o amicizia è la stessa cosa

 



“Ci sono incontri che segnano una svolta nel corso della nostra vita. Quasi sempre si tratta di un nuovo amore o di un nuovo amico. Io ho sempre creduto ai colpi di fulmine, sia in amicizia che in amore, per me è sempre stato l’unico modo di iniziare una relazione. Per questo mi stupisco ancora oggi di come iniziò la mia amicizia con Octavio, uno dei più grandi poeti e scrittori che la nostra lingua abbia mai avuto. Lui era parecchio più grande di me, era noto per essere un uomo affabile ma riservato, che era stato sposato tre volte e altrettante volte aveva divorziato. Gli si attribuivano amori con le attrici più belle del paese, era un grande appassionato di cinema, in un’epoca in cui le donne si dipingevano le labbra di rosso e portavano corsetti che facevano esplodere i loro seni in invitanti decolleté. Usavano gonne lunghe al polpaccio, a forma di tulipano o di rosa, gonne dritte e strette con un piccolo spacco laterale o posteriore, giacchine con le maniche a tre quarti, lunghi guanti di pelle di capretto, cappelli dalle più svariate fogge, borsette tenute al braccio. Fu l’ultima epoca di vera eleganza nel mondo occidentale, e non lo dico perché quella fu anche l’epoca della mia giovinezza. Don Ottavio era nato all’inizio del secolo e aveva fatto in tempo a sognare le belle gambe delle donne ancora nascoste da abiti lunghi sino alle caviglie. Ma gli anni Quaranta e Cinquanta, quelli dell’esplosione della sua notorietà a livello planetario, furono anche gli anni in cui la vecchia Europa si suicidò e la giovane America andò in suo soccorso. Per le terre meridionali del continente le cose furono molto più complicate, l’ambiguità che apparteneva forse al carattere di molteplici nazioni, fece sì che dopo la guerra centinaia e centinaia di gerarchi nazisti trovassero rifugio sicuro in America latina. Octavio, che negli anni Quaranta viveva a Los Angeles dove lavorava come sceneggiatore, pur non essendo più un giovanotto, diede il suo contributo nella lotta contro il nazismo. Grazie alla sua rete di conoscenze e amicizie sparse in tutto il globo, riusciva sempre a venire a sapere storie in cui la sua mente fervida e romanzesca trovava nessi che nessun altro sarebbe stato in grado di notare. Molte delle informazioni che consegnava al governo americano, fecero di lui un eroe di guerra che ricevette le giuste onorificenze a guerra finita. Grande viaggiatore, conosceva forse meglio l’Europa del suo stesso continente. Parlava correntemente inglese, francese, tedesco e portoghese, oltre allo spagnolo, e questo avrebbe fatto di lui sia un ottimo diplomatico che una grande spia. Preferì diventare una spia e continuò a farlo anche durante la caccia alle streghe del maccartismo. Ma in senso contrario, perché passava informazioni a scrittori, registi, attori e sceneggiatori quando veniva a sapere che stavano per essere indagati o arrestati. Il governo si fidava di lui e a nessuno venne in mente che un uomo della sua levatura, potesse diventare amico degli intellettuali comunisti tanto temuti. Il suo comportamento non venne scoperto se non negli anni Ottanta, quando ormai anziano decise di scrivere la propria autobiografia in forma di romanzo. Forse fu proprio quell’ultima opera a far scattare negli svedesi la decisione di attribuirgli il Nobel per la letteratura. Di certo lui si divertiva moltissimo a stupire e scandalizzare i suoi contemporanei con rivelazioni sulla sua vita che lo resero famoso tra il grande pubblico, quasi più dei suoi stessi romanzi. Lui amava la giovane America, le perdonò anche gli anni bui del maccartismo perché – mi disse una volta – gli americani avevano bisogno di avere un nemico comune da combattere per poter funzionare come nazione, avendo una storia e tradizioni troppo recenti per potersi affidare a un mito condiviso. E il sacrificio di centinaia di migliaia di giovanissimi soldati poco più che ventenni era qualcosa che lui non avrebbe mai dimenticato fino alle fine dei suoi giorni. Fu così che la prima volta che ci incontrammo e io lo riconobbi subito, non riuscii a proferire una parola. Ma fu lui a invitarmi al tavolo vista mare dove stava sorseggiando un cognac e fumando un Avana dal raro aroma”.

 

Come immaginavo, Lucente e Adelina, che veneravano don Octavio come scrittore e come uomo - ho dimenticato di dirvi che era anche un uomo di bellezza virile, un Cary Grant sudamericano, ma ancora più intenso e magnifico, alto all’incirca un metro e ottantacinque, con mani forti ed eleganti, un sorriso che incantava e la voce più profonda e carezzevole che mai avreste potuto sentire – le mie due amiche, dunque volevano sapere tutto della nostra amicizia il cui racconto non avevo ancora avuto il coraggio di mettere per iscritto. Forse raccontarlo prima a loro, ora che don Octavio era morto da tempo, mi avrebbe aiutato.

La cena era stata ottima e mi venne voglia di fumare un Avana e di bere cognac francese. Ma mi accontentati di quel che mi portò il padrone del ristorante. Dalla terrazza dove avevamo cenato, c’era una vista magnifica sulla vallata, e le luci delle case iniziavano a costellare le colline. L’aria era tiepida, la compagnia di prim’ordine, potevo ricominciare il mio racconto.

 

Questa Cronaca 551 di venerdì 10 settembre del secondo anno senza Carnevale è sempre sulle tracce del mio Mutis apocrifo e del suo amico Octavio, forse il poeta Paz? Chi lo sa, ancora Alvaro non me lo ha detto.

giovedì 9 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/550. Si viaggia per viaggiare, non per arrivare

 



“Il viaggio era finito, o forse era appena iniziato. Ero arrivato nella città d’acqua, ma cogliendola alle spalle, ero sceso in autobus giù dalla cordigliera, dove ogni strada era poco più di una mulattiera, a ogni curva avevamo rischiato di scivolare in un burrone, solo l’autista non si era mai dato pena a continuava a masticare foglie rosse e a sputarle in una sputacchiera che doveva avere visto l’alba del nuovo secolo. Fui tra i primi a scendere, fu facile recuperare la mia vecchi valigia di cuoio, mentre lo zaino e il tascapane, colmo dei miei taccuini, lo avevo tenuto sempre a tracolla. Insieme ai miei scritti c’erano il passaporto, qualche spicciolo, una scorta di matite Palomino e un temperamatite, un mazzo di chiavi che aprivano le porte di tutte le case dove avevo vissuto e che mi piaceva ricordare. Quante ne avevo conservate? Mi ripromisi di contarle una volta arrivato in albergo e decisi che, finalmente avrei scritto la storia di ogni chiave. Ero ancora molto giovane quando arrivai a Estrella do Mar, ne avevo sentito parlare così a lungo che voleva vederla e fermarmi qualche tempo per vedere se riuscivo a scrivere il romanzo che avevo in testa. All’epoca credevo ancora che la buona riuscita di un romanzo dipendesse dai luoghi che visitavo e dai luoghi dove avrei scritto. Niente di più sbagliato, non erano i luoghi reali a essere importanti. Non erano neanche i luoghi ricordati, lo scarto davvero importante era quello dell’immaginazione. Quel luogo marinaro e non ancora del tutto balneare, poteva anche esistere solo nella mia testa e da nessun altra parte. Era quel che sarebbe uscito nella pagina ad avere valore, e nient’altro. La piazza degli autobus era proprio nel cuore della città, da lì ci si poteva spostare senza problemi seguendo una delle avenidas, niente di monumentale com’ero abituato a vedere nella mia città natale, che si diramavano come i raggi di una ruota di bicicletta ed erano intersecate dalle calle che dividevano il quartiere in rioni e borghi. Volevo stare il più possibile vicino al mare, così mi incamminai per Avenida de El cangrejo cansado. Faceva caldo, ma il vento marino rinfrescava subito il sudore, mi fermai a un chioschetto a prendere una limonata e a guardarmi intorno. Era già pieno di gente in vacanza che bighellonava come me, anche se io ero lì per uno scopo ben preciso e nobile: sarei diventato un grande scrittore un giorno, sarei stato onorato da tutto il mondo, mi avrebbero invitato anche in Europa e un giorno, prima che i miei capelli fossero diventati completamente bianchi, mi avrebbero conferito il premio Nobel per la Letteratura. Al solo pensiero fremevo di orgoglio e mi stupisco oggi, che i capelli li ho bianchi e il Nobel hanno preferito assegnarlo a guitti e strimpellatori, mi fanno sorridere le ingenue ambizioni del ragazzo che sono stato. Ancora non avevo imparato che non è la mèta a dare valore al cammino, ma è vero l’esatto contrario. È la strada che conta e non l’arrivo, Kavafis lo aveva già scritto meglio di quanto io non lo avessi pensato, ma nella mia ignoranza poetica non avrei letto quella poesia che molti anni più avanti. Pur immaginandomi come uno scrittore avventuroso, aveva chiamato l’albergo per prenotare una stanza con vista mare per un intero mese. Avevo trovato il depliant della Posada de El cangrejo descansado, in una bettola portoghese che era intitolata a Miranda do Douro, un paesello che avrei poi visitato quando mi tradussero in portoghese. Mi era sembrato un segno del destino e così ero tornato nella pensioncina che era diventata il sacrario della mia scrittura. Dissi a donna Alexandra che mi sarei assentato per un mese, le pagai due mesi di pigione anticipata e andai a fare qualche compera prima di partire. Non era da me avere tutti quei soldi in tasca, ma la fortuna mi aveva sorriso quando avevo comprato un biglietto del lotto e avevo vinto una cifra tale da permettermi almeno un anno di vita morigerata senza dovermi preoccupare di arrabattarmi a scrivere qualunque testo per mangiare e pagarmi l’alloggio. Quel che non potevo neanche immaginare, quando presi possesso della camera con vista mare, e che pagai in anticipo per essere sicuro che i proprietari mi avrebbero trattato con rispetto e le cameriere con solerzia, era come la mia carriera di scrittore avrebbe avuto una svolta. Dopo avere sistemato i bagagli chiesi consiglio su un buon posto per cenare e loro furono ben lieti di prenotarmi un ottimo tavolo alla taberna de El cangrejo saciada. E di granchi cucinati in svariati modi mi saziai quella sera, in insalata di mare, poi cotti in una terracotta col riso e il pomodoro. Ma volli finire con un’aragosta grigliata perché ne avevo viste di belle grosse nella vasca all’ingresso del locale. Fu proprio lì che posso affermare sia iniziata la mia vera vita da scrittore”.

Alvaro, cioè io, interruppe il racconto proprio sul bello e Lucente e Adelina non riuscirono a convincerlo in nessun modo a continuare. Avevo fame e lo proclamai a gran voce, di sicuro con la pancia piena avrei raccontato meglio. Così le mie due anziane amiche si rassegnarono a portarmi alla locanda perché potessi sfamarmi. Poi ricominciai il racconto, ma non è questo il momento di scrivere per voi cosa mi accadde.

Anche in questa Cronaca 550 di giovedì 9 settembre del secondo anno senza Carnevale, siamo rimasti in compagnia del mio Mutis apocrifo. Per inciso: oggi è un anno e mezzo preciso che scrivo le Cronache, dovrò forse festeggiare?

mercoledì 8 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/549. Il mondo non può stare tutto intero nella vita di nessun uomo

 

Guardo il fiume scorrere verso la sua mèta, che non è il mare ma un altro fiume. Acqua su acqua, verde su verde. Cosa proverà l’acqua che non diventa salata, ma solo moltiplica la sua dolce verdezza? Guardo l’acqua che oscilla, freme e luccica sotto un diverso sole. Non sono più affacciato al mio balcone che guarda verso le piantagioni di caffè, sono seduto all’aperto, riconosco Venezia e accanto a me Iosif Brodskij che mi parla come se fosse un oracolo:

“Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l'acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d'acqua, serviamo alla bellezza allo stesso modo. Toccando l'acqua, questa città migliora l'aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell'universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l'eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all'uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch'esso è più grande di chi ama”.

Mi sveglio con un sussulto, non ero a Venezia, ero in un sogno veneziano sognato da qualcun altro. Le piantagioni di caffè sono sempre l’immensa distesa che tinge il mio occhio, mi alzo e torno al mio tavolino, vorrei scrivere ancora di Maqroll e Bashur.

“Il mondo non può stare tutto intero nella vita di nessun uomo. Lo attraversiamo, lo riduciamo in immagini, forse in parole. Dal particolare vogliamo arrivare al tutto. Forse la letteratura ci riesce, forse ci riesce anche la pittura. Ma io posso dipingere solo attraverso le parole, se anche sapessi disegnare e tenere in mano un pennello, sono solo le parole che mi attraggono. Non ho scelto il mondo dove nascere, né i primi grandi viaggi con i miei genitori. Ho scelto dopo di andare dove loro non erano mai stati e tornare dove ho visto il mondo con gli occhi di un bambino. Questo altipiano è la mia vera casa, le storie di questa gente si intrecciano alla mia stessa storia. Sono quasi un vecchio, ma la forza del mio sguardo è sempre la stessa di allora. Mi concentro su un particolare e lo espando, lo fisso e come fa Lucente con le sue foglie di tè, vedo un altro mondo muoversi e chiamarmi a dirlo con parole nuove. La maggior parte della gente non è ossessionata dalle parole, certo amano le storie, ma basta loro ascoltare da una voce viva o guardarle al cinema, sempre meno al teatro. Quelli che leggono non vogliono usare i loro occhi e le loro orecchie, non vogliono esplorare il mondo esterno. Noi che leggiamo usiamo l’occhio interiore e l’orecchio che non ascolta ma sospira. Cerchiamo il mondo invisibile dei ricordi e delle storie, vogliamo che si manifesti nel teatro della nostra mente, nient’altro è importante, solo quando abbiamo finito di leggere una storia, pian piano il mondo si manifesta di nuovo, il solito mondo nel quale dobbiamo vivere, che l’abbiamo scelto o no”.

Ancora non sono pronto a scrivere un’altra storia da questa mia isola del tempo, così metto da parte il taccuino e continuo a leggere Iosif. So che c’è un luogo, al monastero di Colorno, dove gli scrittori, vivi e morti, vanno per incontrarsi e avere accesso alla Biblioteca di Babele, credo di essere quasi pronto a partire. Ma non subito, devo dire ancora qualcosa di Adelina e Lucente, devo loro almeno una storia che profumi di nebbia e caffè, che oscilli tra il fiume e il mare invisibile che da qui non riusciamo a vedere.

Continuo a stare in compagnia di Alvaro Mutis e di Maqroll il gabbiere anche in questa Cronaca 549 di mercoledì 8 settembre del secondo anno senza Carnevale, un anno di paure e mascheramenti, di fiumi indolenti e parole sognatrici. La citazione di Iosif Brodskij è tratta da

Fondamenta degli Incurabili, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi 1991.

martedì 7 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/548. La punta delle dita è in fiamme, allora scrivi e non fermarti sino a che l’alba non spegnerà questo fuoco

 



“Una cosa che mi piace di te, Alvaro, è che sei affidabile come un cucù svizzero. Sapevo che saresti arrivato da me oggi proprio a quest’ora e sei arrivato. Che grande soddisfazione non sbagliarmi mai. Certo che per essere uno scrittore riservi poche sorprese. Magari va meglio nei libri, ma nella vita sei proprio prevedibile”.

Erano trent’anni che conoscevo Lucente e da trent’anni lei mi faceva sempre la battuta sul mio essere un cucù svizzero. A volte con qualche piccola variante e così anziché un cucù ero una banca, sempre svizzera, l’apoteosi dell’ordine e della noia. Ma anche a ma piaceva che i nostri incontri cominciassero sempre allo stesso modo. E di anno in anno cercavo di memorizzare un paio di buone storie e se non mi era successo niente di speciale, cosa molto frequente nella vita degli scrittori, ecco che avevo una buona scusa per inventarmi una storia, pensata apposto per Lucente e Adelina che erano due ragazze dell’anteguerra e credevano ancora nell’amore e nel romanticismo.

“Vi ho mai raccontato della prima volta che Ilona mi ha notato? È successo molto prima che nel libro che poi ho scritto. Ero in una milonga di Buenos Aires con Abdul Bashur e lei era seduta dall’altro lato della pista con una sua amica altrettanto bella. Era impossibile non notarle, due bionde naturali in mezzo a tutte belle donne dai capelli color notte e dagli occhi di pece. Lei e Ilana, non ridete era il vero nome della sua amica, continuavano a fissarci aspettando che andassimo a invitarle. Ma nessuno si muoveva e allora sono state le ragazze a venire a prenderci. Se non le avessimo seguite gli altri milengueros ci avrebbero ricoperti di insulti, così nonostante fossimo entrambi arrugginiti, siamo scesi in pista. E la magia della milonga si è rinnovata una volta di più. Siamo partiti con il Libertango di Piazzolla e non abbiamo smesso per quasi due ore. Ilana e Bashur sono andati via prima di noi e Ilona aveva ancora voglia di ballare, così ha accettato l’invito di un tipo corpulento con dei baffi sottili che gli tagliavano in due la faccia. Quando la sua mano è scesa troppo sotto la vita, lei gli ha pestato un piede con un tacco a stiletto che avrebbe ammazzato un toro. Lui non ha proferito parola, ha iniziato a sudare e senza emettere un solo suono, se ne è tornato al suo tavolo. Ilona è andata a prendere il suo scialle nero ricamato di tralci di rose rosse che sembravano vere e mi ha fatto cenno di seguirla. Ma io ho esitato un attimo di troppo e quando sono arrivato in strada lei era già andata via. Poi ci siamo ritrovati, ma questo già lo sapete”.

“E dove sarebbe la storia?” chiese Lucente.

“La storia non è capitata a me ma a Bashur. Quando ha preso una stanza in un alberghetto con Ilana, quasi subito hanno bussato alla porta. Lui temeva che fosse un altro uomo che li aveva inseguiti. Invece erano due amiche di Ilana cui lei aveva telefonato. Bashur mi disse che quella notte aveva spalancato le porte del Paradiso, e che tutto gli angeli erano biondi dalla testa ai piedi”. Mi fermai a ripensare alla faccia del mio amico e ricordai che l’estasi esiste anche in questa vita e che lui ne era la prova.

“Quello che Bashur non mi confessò se non anni dopo, è che nel cuore della notte arrivò anche Ilona nella stanza d’albergo e sfrattò una delle ragazze per prendere il suo posto. Immaginai che non sarebbe stata una buona idea mettermi in competizione con lui e, infatti, non ci siamo mai invischiati in storie con le stesse donne, proprio per non rischiare confronti”.

Lucente e Adelina sorridevano, ognuna persa nei suoi ricordi, poi la veggente si alzò a prendere il bollitore che aveva fischiato e versò l’acqua nelle tre tazze. Mentre io aspettavo che il mio tè raffreddasse un po’, lei buttò via l’acqua quasi subito e iniziò a scrutare nel fondo della tazza come se ci fosse qualcosa da leggere. Mi fece cenno di avvicinarmi e quello che vidi rimase un episodio senza precedenti e senza seguito. Le foglioline del tè si muovevano in vortici sul fondo della tazza e sulle pareti e ogni tanto formavano figure che lei descriveva con poche parole. “Il falcone, la donna di fuoco. Il fiume verde, l’uomo di paglia. Gli alberi non camminano coi piedi ma con le radici. Le nuvole cantano ma noi non riconosciamo la loro lingua e pensiamo che sia il vento. Ilona arriva con la pioggia. Maqroll sta tornando. Tu li aspetterai entrambi alle foci del Rio Blanco”.

“Cosa aspetti Mutis a scrivere un altro romanzo per noi? Queste sono le storie che ti stanno cercando”.

Continuai a sorseggiare il mio tè mentre Lucente era andata a guardare fuori dalla finestra sul retro. Anche lei dava sulla vallata e le piantagioni. C’era un vento molto forte, un falcone che volava basso e un incendio sul crinale del fiume che si era fermato perché non c’era altra erba secca da divorare. Erano immagini di cui avevo già scritto e ora Lucente mi dava indicazioni perché io le scrivessi ancora. Sentivo la punta delle dita in fiamme, dovevo tornare alla locanda a scrivere. Adelina si alzò senza bisogno che glielo chiedessi e ce ne andammo, non prima di avere promesso a Lucente che saremmo tornati l’indomani.

 

Che volete se a settembre continuo a pensare di essere con Mutis a guardare una piantagione di caffè? Oggi è martedì 7 settembre del secondo anno senza Carnevale e la Cronaca 548 sta ancora ballando il tango.

lunedì 6 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/547. Ci sono tre cose che non possono sottostare a nessuna legge perché vivono delle loro proprie ragioni: l’amore, la fame e la morte

 

“Cosa stai guardando Alvaro? Ci sono solo le piantagioni di caffè da quella parte”.

“Non è così Adelina, è che tu sei abituata a guardare questo paesaggio tutti i giorni e non vedi altro che l’insieme. Ma se guarderai con me ti mostrerò molto altro. Ci sono due falchi che volano da oriente a occidente ogni mattina. Se guardi bene i sentieri che dividono le piantagioni, ti accorgerai che alcuni sono più scuri di altri. È lì che passano i contrabbandieri ogni notte tra venerdì e sabato, quando le guardie di frontiera sono già ubriache e addormentate. Se guardi a destra della piantagione di Carrero, vedrai il sentiero tra le piante che suo figlio ha tracciato per andare a trovare la figlia di donna Catalina tutte le notti. Nessuno se n’è accorto ma se ne accorgeranno presto, perché la piccola è già incinta anche se loro non lo sanno. Catalina e Carrero prima si arrabbieranno moltissimo, ma poi si ricorderanno di quando erano giovani e non avevano potuto amarsi, destinati com’erano dalle famiglie a sposare altri figli di latifondisti. E quando parleranno dei figli si renderanno conto che adesso sono vedovi tutti e due. E allora l’amore fiorirà di nuovo come succede a certi cactus che fioriscono nel deserto di Atacama. Fioriscono quando hanno passato un anno sulla terra e la seconda volta il giorno prima di morire. Ma nessuno riesce mai a prevedere questo giorno e allora non è più possibile raccogliere il succo della pianta e farne quel pisco rosato che tanto piace ai banditi. Si sposeranno anche Catalina e Carrero, e lei avrà il suo ultimo figlio, ha solo quarant’anni la donna e lui pochi di più. A quanti la vita offre una seconda possibilità? Se guardi poi verso il picco di Salar, lì ci sono le capanne dei cacciatori di frodo. Tutti in questa terra campano infrangendo la legge. Tutti fanno cose che secondo le leggi del giorno sono inaccettabili, ma ci sono tre cose che non possono sottostare a nessuna legge perché vivono delle loro proprie ragioni: l’amore, la fame e la morte. Cos’altro c’è di importante oltre queste tre realtà che tutti primo o poi sentiamo?”.

Adelina amava andare a trovare lo scrittore perché sapeva che a ogni visita, avrebbe ricevuto il dono di almeno una storia. A lui bastava guardarsi intorno perché le parole iniziassero a uscirgli dalla bocca come i vaticini di un oracolo, le venne in mente per associazione donna Lucente, la profetessa che aveva perso il dono di leggere il futuro e aveva avuto quello di capire la lingua dei morti.

“Hai mai sentito parlare di Lucente, scrittore?”.

“Quella che legge il futuro? Sì, le ho parlato diverse volte, ma sai che a me il futuro non interessa, mi piacciono le sorprese”.

“Dovresti tornare da lei allora, il futuro non lo sa leggere più, ma ha imparato a parlare con i morti. Certo, non le viene facile come prima, ma i morti sanno essere molto loquaci. Soprattutto la notte tra sabato e domenica, quando tutti si divertono prima di andare in chiesa la domenica mattina per confessarsi e poi comunicarsi”.

L’idea di parlare con un morto, al momento, non piacque allo scrittore. Ma poi pensò che forse avrebbe potuto parlare con qualche amico. Questa sì che era una buona idea.

“Che dici di accompagnarmi da Lucente nel pomeriggio? Possiamo passare prima nell’emporio di Antonio per comprarle un regalo. So che non accetta mai denaro, solo oggetti e animali vivi che poi rivende al mercato. Tranne i gatti che tiene sempre con sé”.

“Oh per questo, lei è una vera bruja, e nessuno oserebbe mai contraddirla. Anzi, non immagineresti neanche quanta gente le porta cibo per i gatti, anche se loro passano la giornata nei campi a cacciare e non hanno certo bisogno di cibo umano. Andiamoci verso le quattro, quando mi sarò svegliata dalla mia siesta. Sai che invecchiando non farei altro che dormire? Il meglio della vita sta tutto nei sogni alla mia età. Forse quando morirò diventerò una delle gatte di Lucente e potrò andarmene in giro senza dolori nelle ossa e senza uomini molesti che mi seguono, come mi succedeva quando ero giovane. E non provare neanche a sorridere, sai. Anche tu custodisci dietro quella tua pellaccia cittadina il ragazzino magro che seguiva le capre fino alle cime e correva e nuotava più veloce di chiunque altro. Chi se lo immaginava che saresti diventato uno scrittore. Però forse il tuo desiderio di allora di essere sempre in un altro luogo è lo stesso di oggi. Quando scrivi sei sempre in un altro luogo. Bene, adesso vado a dormire, ci vediamo dopo”.

Quando la vecchia si chiuse la porta dietro le spalle, Alvaro aprì il quaderno e iniziò a scrivere.

“Quando Adelina era giovane, molto giovane e molto bella, uno straniero di passaggio rimase imprigionato nel suo sguardo e non fu più capace di ritrovare il cammino. Francisco era un avventuriero che viaggiava con una bisaccia d’oro e un revolver legati entrambi alla cintura. Adelina aveva occhi chiari e trasparenti come acqua di fonte, forse l’eredità di qualche straniero che era passato in quelle terre e fornicato con una delle sue antenate. Quegli occhi chiari prendevano il colore del cielo quando lei era in piena luce e della fiamma, quando la sera si sedeva vicino al camino a cucire. Diventavano verdi gli occhi di Adelina quando andava per campi e per boschi e Francisco iniziò a seguirla camminando sempre dieci passi indietro perché non voleva spaventarla. Dopo una settimana, gli sembrò che fosse passato abbastanza tempo e andò ad aspettarla sulla strada di casa. Lei lo guardò e capì prima che lui aprisse bocca. Gli disse solo che doveva chiedere il permesso a sua madre e a suo padre che li stavano aspettando. Tutto il paese di Santiago lo aveva visto e tutti si aspettavano che lui facesse una proposta. Quando Francisco chiese a don Isidoro se poteva avere la mano di sua figlia, l’uomo si girò a guardare la moglie donna Mariana. E lei disse solo “Dipende”, ma poi lo fecero accomodare in sala da pranzo, lo sfamarono e lui brillava come l’oro nella sua bisaccia. “Don Isidoro, ho molto viaggiato, sono un uomo abbastanza ricco da potermi fermare. E posso fermarmi solo qui dove c’è Adelina, se voi me lo permetterete”. Adelina, sorrideva tra sé, e poi lo guardò e lui alzò lo sguardo verso di lei e precipitò nei suoi occhi come si cade in un fiume in piena. Si sposarono dopo una settimana e lui non se ne andò mai più. Dopo mezzo secolo di matrimonio felice, le sue ossa riposano sotto il carrubo che c’è in fondo al giardino e Adelina va tutti i giorni a salutarlo e si ferma a chiacchierare con lui. Gli porta sempre una fiaschetta di pisco e lui sembra gradire, perché il carrubo non è mai stato così verde e forte, neanche quando era un seme finito chissà come nella sua tasca e che Adelina aveva messo nella terra sfidandola a far crescere un albero da quel seme straniero. E la terra aveva accettato la sfida e dato vita a quella pianta che dava frutti strani, ma utili. Il carrubo era vigoroso quanto Francisco che aveva fatto con Adelina cinque figli e aveva fatto in tempo anche a conoscere tredici nipoti. Il carrubo, che non era solo come sembrava, aveva lasciato andare i semi nell’aria che avevano incontrato altri semi o forse le api, e altre piante erano nate davanti alle case del paese e facevano una bella ombra quando la calura si faceva insopportabile”.

Dopo avere scritto quelle pagine iniziali di un racconto, lo scrittore andò a sdraiarsi nella sua amaca, c’era tempo prima che Adelina venisse a chiamarlo per andare da Lucente. Poteva continuare a leggere il paesaggio intorno e spremere qualche altra storia dalle nuvole e dal volo del falco. Ma si addormentò subito, allora le storie andarono a trovarlo in sogno, perché un patto è un patto e le storie vogliono essere raccontate quando hanno scelto lo scrittore che più piace loro.

 

Oggi è lunedì 6 settembre del secondo anno senza Carnevale e sono rimasta in compagnia dello scrittore Alvaro Mutis anche oggi e così la Cronaca 547 ha accolto questo nuovo racconto, molto compiaciuta dalla bella compagnia.

domenica 5 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/546. Un uomo che era pagliaio, una donna che era fuoco

 



L’uomo era arrivato quasi alla fine dell’altipiano, le montagne erano ancora uno sfondo lontanissimo, ma le piantagioni ai loro piedi poteva quasi toccarle. Il raccolto non doveva essere finito da molto, e non tutto il caffè era stato portato a valle. Quando arrivò al villaggio, la locanda dell’Ammiraglio era sbarrata con assi di legno. Chiese a dei ragazzini cosa fosse successo e loro spiegarono che il vecchio aveva perso la testa per una ballerina di flamenco e l’aveva seguita fino in città. Tutti in paese pensavano che sarebbe ritornato, ogni tanto lo faceva di innamorarsi di qualche bella donna di passaggio. La maggior parte di loro non era interessata alle sue lusinghe, ma poi finivano tutte per cedere ai modi eleganti e alle gentilezze cui non erano abituate. Tornava sempre l’Ammiraglio perché non era capace di vivere lontano dalla sua terra che non sfioriva mai, mentre l’amore, si sa, è un evento passeggero nella vita degli uomini.

 

 

Notturno

 

Respira la notte,

batte i suoi chiari spazi,

le sue creature in rumori minuti,

nello scricchiolio lieve dei legni,

si tradiscono.

Rinnova la notte

un certo seme occulto

nella miniera feroce che ci sostiene.

Col suo latte letale

ci alimenta una vita che si prolunga

più in là di ogni risveglio mattutino

sulle rive del mondo.

La notte che respira

il nostro lento alito di vinti

ci conserva e protegge

«per destini più alti».

 

 

 

Dispiaceva al vecchio scrittore che il suo amico non ci fosse, così decise di andare nell’altra locanda del paese da abuela Adelina. Lì sapeva che avrebbe mangiato bene, bevuto molto e avrebbe dormito come solo in quel luogo gli riusciva di fare. Si addormentò subito dopo cena, sdraiato nell’amaca del balconcino che dava sulla vallata. Sognò, come solo in quel luogo sognava, sognò di risalire il grande fiume su una barca piena di indigeni che scendevano e salivano senza mai avere aperto bocca. Solo Maqroll non dormiva mai e scriveva nel suo taccuino ricoperto di cuoio con una matita smozzicata, sembrava che le parole lo stessero aspettando nelle ceste che erano a prua. Dalla riva un uomo che era pagliaio e una donna che era fuoco, tennero gli occhi nei suoi sino a quando la barca fu troppo lontana. Lo chiamò Maqroll, gli disse di salire da lui, che presto ci sarebbe stato un altro libro. Al risveglio Alvaro Mutis, seppe che il libro c’era, doveva soltanto scriverlo. Allora chiese ad Adelina di portargli i pasti in camera e volle un tavolino, una poltroncina e un lume per poter scrivere anche dopo il tramonto. Solo quando pioveva lo scrittore si ritirava nella camera e mentre sentiva la storia espandersi, crescere, mutare pelle come l’antico serpente delle rocce, sapeva che la nuova storia di Maqroll non gli avrebbe dato requie sino a che non l’avesse scritta. Ma non temeva di non riuscirci, cosa mai altro avrebbe potuto fare se non scrivere? Nel circo della vita gli era toccato quel ruolo, il giocoliere con palline e birilli in bilico nell’aria e anche sul naso, come una foca ammaestrata. Non era lui a decidere il ritmo, erano le parole a farlo, ormai lo aveva imparato, aveva imparato che l’unica vittoria consisteva nell’arrendersi e di nuovo lo fece. Un uomo di mezza età che sapeva solo di voler scrivere sino all’ultimo respiro, che sapeva che ogni libro avrebbe potuto essere l’ultimo, che temeva di non riuscire a finirlo quell’ultimo libro. Ma poi ogni volta ci riusciva e ricominciava a respirare l’aria come fanno gli uomini e gli uccelli, non l’acqua profonda dell’oceano che viveva nei suoi ricordi, non il fuoco che è la materia respirata dalle stelle.

 

In questa domenica 5 settembre del secondo anno senza Carnevale, mi è presa la nostalgia dello scrittore Alvaro Mutis, così ho scritto per la Cronaca 546 questo brevissimo racconto dove ho inserito una sua poesia. E adesso vado a rileggermi le storie di Maqroll il gabbiere.

sabato 4 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/118: quella luce dorata sul bordo delle cose che lascia tutto come sospeso nell’aria…




Si svegliò quella mattina con in testa un’idea che si era impossessata di ogni angolo conscio e inconscio della sua mente.

Aveva sognato di essere all'ombra del grande fico che c’era nell'orto di sua nonna e il profumo di quell'albero immenso ai suoi occhi di bambino lo aveva avvolto una volta ancora.

Anche quando aveva aperto gli occhi quel profumo gli aleggiava intorno e gli confermò che esiste nella memoria un unico luogo che conserva insieme alle immagini e ai suoni, anche i sapori e gli aromi del mondo.

Una biblioteca dei profumi, degli aromi e degli odori. Se le prime due parole evocavano solo cose piacevoli, l’ultima parola conteneva in sé anche cose sgradevoli che non avevano nulla di buono.

Se nella sua testa la biblioteca andava prendendo forma e assomigliava a un’antica farmacia che aveva visto a Parma, capì che in quell'angolo di mondo reale, a Gerusalemme, doveva trovare un sistema altrettanto efficace di classificare e mostrare che ogni cosa del mondo reale e del mondo sognato si specchiano l’una nell'altra e sono altrettanto potenti e misteriose.

- Ma allora la biblioteca degli odori è davvero esistita? Chiese la sacerdotessa al misterioso architetto.

Non solo è esistita ma esiste ancora dietro le finestre murate della casa del mio amico figlio del vento del deserto e delle nuvole.

Per ogni profumo, aroma e odore che ricordava, chiedeva al mastro vetraio di soffiargli un flacone o una bottiglietta che dovevano contenere nella trasparenza del vetro “anche quella luce dorata sul bordo delle cose che lascia tutto come sospeso nell'aria”. È così che si riesce a intrappolare le particelle volatili delle cose che vagano nella memoria e a replicarle ogni volta che si vuole.

Il primo aroma fu quello della pelle di sua madre quando lo allattava, un aroma dove si mescolavano quello del latte e quello della sua pelle.

Il secondo aroma, come il primo, era ancora legato al cibo, erano il sapore e l’odore di una pesca matura che la madre gli passò sulle labbra quando aveva cinque mesi.

Fu così che olfatto e gusto vennero addestrati per puro istinto da quella giovane madre alle prese con il suo primo figlio. Ogni cibo passava davanti al suo naso, poi sulle labbra e, mano a mano che cresceva, nella sua bocca.

Il fico maturo aveva seguito dopo qualche settimana la pesca. L’ombra contornava la luce dorata delle cose, il fico era nero-viola all'esterno e all'interno e aveva un sapore che avrebbe continuato a cercare ogni nuova estate nella sua vita.

- Ma è impossibile creare così una biblioteca che possa servire a qualcosa! Esclamò il re che cercava sempre il risvolto verificabile delle cose.

Il mio amico lo sapeva – proseguì l’architetto misterioso – ma non poteva fare a meno di completare la sua opera. Per ogni odore evocato e rievocato le piccole bolle di vetro si allineavano sulle mensole della sua biblioteca. Perché dovete sapere che alcune volte andava dal mastro vetraio e raccontava al vetro incandescente il profumo che aveva ricordato e il vetraio sigillava la bolla e lui poteva scrivere la nuova etichetta sulla pergamena e sistemare i due oggetti nello spazio che aveva preparato con un piccolo sostegno fatto di materiali che cambiavano di volta in volta: legno, vetro, pelle di capra, velluto, pietra, frammenti di luna, un cactus vivo, argilla, pane raffermo, un cestino di fiori essiccati, una rosa che non era sbocciata, una fotografia in bianco e nero, carta per scrivere, ma anche carte da gioco, libri sventrati, libri mai aperti, un taccuino dalla copertina di pelle rossa. È dalla sua scorta che arrivano i miei taccuini rossi, e poi ancora foglie di vite, un lembo del suo stesso mantello, il vestito verde e oro della giovane che aveva amato nell'oasi dietro le palme. Con molti appostamenti era riuscito a catturare le sfumature del mare a ogni ora del giorno e il mastro vetraio aveva riprodotto il colore preciso nel vetro, e le onde si erano piegate al destino ed erano rimaste intrappolate in tutta la loro stessa impetuosità. Aveva odori diversi il mare, odore di sale, giglio, alghe, pesci morti, ancora alghe, legni putrefatti, legni verdi non ancora morti, molluschi, sabbia, le orme dei suoi passi, l’ombra di una vela al largo che filava verso l’orizzonte, il vestito azzurro che la fanciulla si sfilò prima di entrare nell'acqua, l’odore marino del suo sesso, quello dei capelli che sapevano di chiodi di garofano e farina bianca.


Nel mio naso riposa una biblioteca fatta
di niente, perché è nella natura delle
cose restare nell'istante preciso dove
le abbiamo incontrate per la prima
volta. Quello che ci segue nella corsa
del tempo è solo lo strascico della cosa
originaria, una replica infinita che si
divide tra il naso e lo sguardo e a
prevalere saranno sempre il mirto e
la rosa contro il vento e la nuvola.
Solo il profumo della tua pelle attraversa
i millenni e dice la verità del sale e delle
onde.


Anche il vento aveva mille odori, come mille voci che abbiamo già udito, perché scolpisce la superficie di ogni creatura e cosa e ci affida il momento imprescindibile che abbiamo cercato nell'ombra del tempo. Il vento si è affidato al vetro, lo ha gonfiato e poi ha smesso di soffiare e ha scelto di abbandonarsi alla potenza di quelle forme umane scelte dal caso e dall'amore.

- Come vorrei visitare quella biblioteca! Esclamarono all'unisono la sacerdotessa e la regina.

Il vostro desiderio è esaudito nel momento stesso in cui lo avete formulato. Ora quella biblioteca è in una delle stanze della Casa delle Stelle. Prima di andare, dovete scegliere nella vostra memoria un profumo che volete rendere eterno e una volta laggiù entreremo insieme nella stanza, prenderemo una delle mille forme di vetro e ciascuno regalerà al tempo e al nostro sguardo quanto di più intimo possegga.

In un momento, dalla spiaggia ci trovammo nella stanza immersa nella penombra. Quando l’architetto accese le luci, le pareti si dilatarono al punto che sembrava non esserci una fine alla profondità delle pareti occidentale e orientale.

Ognuno degli abitanti della terra che sta ai piedi delle Montagne della Luna, scelse la forma che più si confaceva e sussurrò il segreto dei nomi e dei profumi al vetro e alla memoria.

Toccò anche a ma fare questa scelta e fu il fico dell’orto di mia nonna a colare dal mio olfatto alla mia lingua. Cui seguì il fico maestoso del giardino che avevo perduto e poi l’aroma dei pomodori appena raccolti, dei campi bruciati tra gli ulivi, dell’ombra scura della grande quercia, dell’acqua piccola che scorreva davanti a casa, dei baci che non avevo dato, dei baci che non avevo preso. 

Era estate e il suo profumo era rosso e verde e il vetro lo sapeva e si adattò, ma solo in parte, perché anche l’azzurro e il blu erano estate e avevano un suono.

Voglio costruire una biblioteca dei suoni e delle voci - disse il poeta.

E io mi accomodai nella sua scia e tesi i lembi del mantello dove le intenzioni erano già cose in corso e insieme iniziammo ad abbinare i suoni ai colori.

Non basterà questa vita a completare l’opera, ma almeno abbiamo iniziato.

Qui, ai piedi delle Montagne della Nebbia, che hanno un profumo incerto di mattino e notte insieme, di passato che sfuma e di avvenire che si avvicina, di mirtilli e anguria, di pomodori e pane appena sfornato, di gelo e di tramonto, di sogno e di risveglio, perché le dimensioni non sono solo due, ogni istante si replica e diventa ricordo, ma lì, nel momento preciso è primigenio, eterno e profuma di cose nuove e di promesse, di alba e di mare salato.


Quella luce dorata sul bordo delle cose che lascia tutto come sospeso nell'aria e l’unica verità in questo giorno che, dolcemente, dolcemente, cambia mantello e si veste di buio e di nostalgia.


La poesia di questa Cronaca 118 l’ho scritta nel corso di questo pomeriggio.

Il titolo è un frammento di Alvaro Mutis, dal Trittico di mare e di terra, Einaudi 1997.

La biblioteca delle voci è nel mondo di qua il progetto #voiceportraits della poetessa Giovanna Iorio.


mercoledì 17 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/101: del vento dipinto e del principio di una pioggia


L’uomo cammina contro vento, non gli vediamo il viso perché il capo è chinato in avanti, le mani sono serrate al petto e tengono i lembi di un mantello.

Qualche giorno fa ci dicevamo che il vento non ha una sola voce e lo sappiamo.

Come sappiamo che il vento non ha una forma ma che avvolge la forma di persone, animali e cose che incontra nel suo andare.

Come l’uomo che stiamo guardando e la cui posa ci suggerisce che il vento lo stia contrastando.

Spostiamoci ora a guardare l’uomo contro vento di spalle. Del capo si vede la nuca, la schiena è convessa, la polvere intorno alle gambe ci conferma la presenza del vento.

Come scriveva Leonardo “Della figura che va contro il vento. Sempre la figura che si muove infra il vento per qualunque linea non osserva il centro della sua gravità con debita disposizione sopra il centro del suo sostentacolo”.

Nonostante il volto nascosto chiedo, noi sappiamo chi è quell’uomo? Sì, lo sappiamo è il misterioso architetto che sta erigendo la Casa delle Stelle. Perché si ostina a marciare contro vento? Qual è la sua destinazione?

Nel suo taccuino rosso ho trovato una citazione da un racconto di Alvaro Mutis.

“No, voglio dipingere il vento che entra da una finestra ed esce da un’altra, così, niente di più. Il vento che non lascia traccia, quello tanto simile a noi, al nostro mestiere di vivere, quello che non ha nome e che ci sfugge dalle mani senza sapere come. Il vento che lei, come Gabbiere, ha visto tante volte venire incontro alle vele e che all’improvviso cambia direzione e non torna più. Questo è il vento che voglio dipingere. Nessuno lo ha ancora fatto. Io lo farò. Vedrà. Bisogna saperlo sorprendere nel momento preciso in cui sul suo passaggio non si ha alcun dubbio. Per questo, lo so, bisogna saper guardare, gliel’ho già detto; guardare al lato nascosto delle cose. Con il vento è lo stesso e ciò che in realtà io so fare è questo: guardare, guardare fino a diventare la cosa stessa”.

Il pittore Alejandro Obrégon, protagonista di questo racconto, vuole scomparire sino a diventare vento. Così pare stia facendo il nostro architetto, sempre più piegato su se stesso e sempre più vicino alla sua meta.

Dall’altro lato, un lato qualunque della forma bizzarra che ha il tempo, che non è altro che spazio ripiegato, la pioggia inizia a cadere così come ha scritto, di nuovo, Leonardo.

“Del principio di una pioggia. La pioggia cade infra l'aria, quella oscurando con livida tintura, pigliando dall'uno de' lati il lume del sole, e l'ombra dalla parte opposita, come si vede fare alle nebbie; ed oscurasi la terra, a cui da tal pioggia è tolto lo splendor del sole; e le cose vedute di là da essa sono di confusi ed inintelligibili termini, e le cose che saranno più vicine
all'occhio saranno più note; e più note saranno le cose vedute nella pioggia ombrosa,
che quelle della pioggia illuminata. E questo accade perché le cose vedute nelle ombrose pioggie solo perdono i lumi principali; ma le cose che si vedono nelle luminose perdono il lume e le ombre, perché le parti luminose si mischiano con la luminosità dell'illuminata aria, e le parti ombrose sono rischiarate dalla medesima chiarezza della detta aria illuminata”.

Trovo formidabile che il genio non citi le nuvole in questo suo passaggio, nuvole che sono una mia ossessione letteraria. Ma questo non è importante, quel che ci importa è distinguere una figura che corre sotto quella pioggia poetica.

È una donna che corre più veloce di quanto la pioggia non faccia nella sua caduta. I suoi abiti, per il momento, non sono inzuppati. Corre scalza, ride, pare si stia divertendo. Perché corre e perché ride? La conosciamo? Guardo meglio, mi avvicino, guardo dalla finestra e guardo il foglio. No, non la conosciamo, lei sta arrivando è una nuova abitante di queste terre immaginarie? Direi proprio di sì.

Mentre mi accanisco in questo gioco di visione e immaginazione, l’architetto misterioso, di cui non conosciamo né il nome, né la storia, entra nella Casa delle Parole.

Le sue mani sono sempre ricoperte di polvere d’oro, il mantello gli svolazza intorno come se il vento fosse entrato con lui.

- La vedi? La vedi anche tu la donna che corre sotto la pioggia?

- Sì, certo che la vedo e non la conosco. E tu?

- La conosco come la conosci tu… l’abbiamo evocata tante volte, l’abbiamo chiamata. Lei è la mia compagna, si chiama Soledad, cioè Solitudine e non è un caso. Mi stupisce che sia venuta a cercarmi, perché ogni volta che stiamo insieme lei smette di essere quella che è.

Fuori dalla Casa si alza un canto senza musica, è una poesia gridata al cielo.

Porto la pioggia, porto il vento,
dimentico il mio nome mentre
pronuncio il tuo. Dimmi mio
amore senza nome, quali doni
mi aspettano e quali mi pesano
sul dorso mentre corro verso di
te che sfidi il vento e non ti
guardi mai indietro?
Porto il vento e porto la pioggia,
ti raggiungo sotto lo stesso
cielo chiaro di giugno e sul
tuo petto trovo rifugio. La pioggia
non ti sfiora, il vento non mi divora.
Ma dove sono le nuvole di questo
cielo? Se non le chiami a venire
quaggiù, sarà stata vana la mia
corsa e inutile tutto questo vento.
Poi guardo meglio e vedo.
Le nuvole siamo noi e nient’altro.
Raccolgo la pioggia e te la porgo,
raccogli il vento e me lo soffi
intorno. Bastano due nuvole
per un temporale. Basta la pioggia
a dire l’amore, basta il vento per
non ritornare. Siamo insieme e
il mio nome è cambiato. Nessuno
lo conosce, nessuno lo sa.
Ti guardo negli occhi e il verde
risplende, mi guardi negli occhi
e il lago si oscura e tu remi in
silenzio e respiri il profumo
dei miei capelli di garofano e
gelsomino. Questa storia non ha
una fine, questa storia non ha
un inizio. La prima piega del
tempo ci teneva nascosti,
questo cielo di nuvole e vento
ci ha scoperti e lodati, in questo
amore che ha molte parole e
poche gocce di pioggia che
piano scendono sul palmo
della mia mano.


A una bella poesia non resisto mai. Il misterioso architetto torna in giardino ad accogliere Soledad.

Mi piego di nuovo alle bizzarrie del tempo e dello spazio, una sola materia, un solo cammino.


La poesia è mia e l’ho scritta per questa Cronaca 101.
Le citazioni di Leonardo sono prese dal Trattato sulla pittura. Quella di Alvaro Mutis da Trittico di mare e di terra. Traduzione di Fulvia Bardelli. Einaudi 1997

mercoledì 8 luglio 2015

Ogni poesia un lento naufragio del desiderio

Ogni poesia

Ogni poesia un uccello che fugge

dal luogo indicato dalla piaga.
Ogni poesia un vestito della morte,
attraverso strade e piazze invase
dalla cera letale dei vinti.
Ogni poesia un passo verso la morte,
una moneta falsa di riscatto,
un tiro al segno nel bel mezzo della notte
traforando i ponti sul fiume,
le cui acque addormentate viaggiano
dalla vecchia città verso i campi,
dove il giorno prepara i suoi falò.
Ogni poesia il tatto irrigidito
di chi giace sulla lastra di pietra delle cliniche,
avida esca animale che percorre
la melma morbida delle sepolture.
Ogni poesia un lento naufragio del desiderio,
uno scricchiolio di alberi maggiori e di sartie
che reggono il peso della vita.
Ogni poesia un boato di tele che precipitano
sopra il ruggito gelido delle acque
con il crollo del pallido paranco delle vele.
Ogni poesia tesa a invadere e a lacerare
l'amara ragnatela della noia.
Ogni poesia nasce da una sentinella cieca
che urla nel vuoto profondo della notte
la parola d'ordine della propria sofferenza.
Acqua di sogno, fonte di cenere,
pietra porosa dei mattatoi,
legno in ombra dei semprevivi,
metallo che suona per i condannati,
olio funereo a doppio taglio,
quotidiano lenzuolo funebre del poeta,
ogni poesia semina nel mondo
l'aspro cereale dell'agonia.

Alvaro Mutis

Le opere perdute
traduzione di Martha Canfield
dalla rivista Fili d'Aquilone

CADA POEMA

Cada poema un pájaro que huye
del sitio señalado por la plaga.
Cada poema un traje de la muerte,
por las calles y plazas inundadas
en la cera letal de los vencidos.
Cada poema un paso hacia la muerte,
una falsa moneda de rescate,
un tiro al blanco en medio de la noche
horadando los puentes sobre el río,
cuyas dormidas aguas viajan
de la vieja ciudad hacia los campos
donde el día prepara sus hogueras.
Cada poema un tacto yerto
del que yace en la losa de las clínicas,
un ávido anzuelo que recorre
el limo blando de las sepulturas.
Cada poema un lento naufragio del deseo,
un crujir de los mástiles y jarcias
que sostienen el peso de la vida.
Cada poema un estruendo de lienzos que derrumban
sobre el rugir helado de las aguas
el albo aparejo del velamen.
Cada poema invadiendo y desgarrando
la amarga telaraña del hastío.
Cada poema nace de un ciego centinela
que grita al hondo hueco de la noche
el santo y seña de su desventura.