domenica 31 gennaio 2016

è in una condizione di felicità che gli artisti lavorano meglio

Su Repubblica di oggi Alberto Manguel dedica un articolo molto interessante al rapporto tra genio e regolatezza e al mito che gli artisti debbano essere infelici e avere vite miserabili per poter creare. Il dolore indica la strada, permette di entrare in profondità in se stessi, nella vita e nelle emozioni. Ma si scrive bene quando si sta bene e scrivere aiuta a stare meglio.

Ecco alcuni frammenti dell'articolo:

L'idea che il tormento sia alla radice della mente creativa ha le sue origini in un frammento attribuito ad Aristotele, o meglio, alla scuola aristotelica. Oggi sarebbe smentita dalla ricerca di Kathryn Graddy della Brandeis University del Massachusetts. Prendendo in considerazione le opere di 48 artisti europei e americani – da Degas a Monet; da Pollock a Rothko – la studiosa ha scoperto che nei periodi più sereni della loro vita – non in quelli tormentati – questi maestri hanno realizzato i dipinti che oggi valgono di più. Ma da Aristotele in poi, filosofi, artisti, psicologi e teologi hanno tentato di trovare nello stato quasi indefinibile della malinconia la fonte dell’impulso creativo e perfino, forse, del pensiero stesso. L’essere malinconico, triste, depresso, infelice (secondo la credenza popolare) è una cosa buona per l’artista. Il tormento, si dice, produce la buona arte. 
(...)
 Naturalmente, a parte il fatto che le nostre emozioni sono meravigliosamente caleidoscopiche, sarebbe più giusto dire che è in una condizione di felicità che gli artisti lavorano meglio. Kafka trovava sollievo alla disperazione esistenziale e alla sofferenza fisica solo quando scriveva, ma se improvvisamente si sentiva felice e scriveva, o se cominciando a scrivere si sentiva improvvisamente felice, non lo sapremo mai. Possiamo dire che Dante, nel suo triste esilio, ebbe dei momenti di felicità, quando nel corso del poema incontra Casella sulla spiaggia del Purgatorio o Brunetto Latini sulla sabbia infuocata dell’Inferno, e possiamo supporre che dalla memoria del beato passato sorse il poema, nonostante quanto dice Francesca sul ricordo del tempo felice. Non furono gli attacchi di pazzia a portare Virginia Woolf a scrivere La signora Dalloway: fu piuttosto grazie ai momenti in cui ragionava con intelligenza e al suo orecchio attento alla musica del linguaggio.
Il mito secondo il quale l’artista ha bisogno di soffrire per creare, racconta la storia nel modo sbagliato. Non c’è dubbio che soffrire sia la sorte dell’uomo e, come disse Omero, gli dèi ci mandano le sofferenze perché i poeti abbiano qualcosa da cantare. Sì, ma il canto viene dopo, non nelle contorsioni del tormento, ma nel ricordo di quella sofferenza e nella tregua ad essa fornita dalla scrittura «Senza farsi mancare da bere e con un gran fuoco». Un secolo fa, Thomas Carlyle descrisse lo scrittore con queste parole: «Con i suoi copy-rights e i suoi copy-wrongs, in una squallida soffitta, nel suo vecchio cappotto; governa (perché questo è quello che fa), dalla sua tomba, dopo la morte, intere nazioni e generazioni che gli dettero, o non gli dettero, del pane quando era vivo». È molto più probabile, come tutti sappiamo, che non gliene abbiano dato. Quindi lui, o lei, si siede a un tavolino, e fissa una parete nuda, o magari piena di cose e cosette, di cartoline, di foto, di vignette e frasi memorabili, come la parete della cella di una prigione da cui non c’è scampo. Sul tavolo, gli strumenti del mestiere. Una volta erano carta e penna, o una traballante macchina da scrivere, ma oggi ovviamente parliamo di un programma di videoscrittura, di uno schermo che emana un misterioso bagliore verde come la kryptonite, che assorbe le energie di questo superman o di questa superwoman. Che altro c’è sul tavolo? Una collezione di figure totemiche che dovrebbero portare fortuna e allontanare gli spiriti maligni della distrazione, della pigrizia, del rimandare le cose... oggetti magici per proteggersi dalla maledizione dei gelidi spazi in bianco. Una tazza vuota di tè o caffè. Una pila di fatture non pagate. Da dove viene quest’immagine patetica dello scrittore? (...)

Se è vero che noi siamo ciò che amiamo, allora posso affermare di essere una busta della spesa stipata di romanzi

Conoscevo uno slavista assai in gamba che alla soglia dei quarant'anni decise di sbarazzarsi della sua biblioteca. Migliaia di volumi che occupavano per intero le pareti della grande casa in centro ereditata dal padre. Quando gli chiesi cosa avesse ispirato un gesto così drastico, mi spiegò che qualche mese prima si era reso conto di aver finito lo spazio. Continuava a ricevere libri dagli editori, a comprarli, ma non sapeva più dove metterli. Si era sentito costretto a dividerli in due gruppi — essenziali e trascurabili —, deciso a tenersi i primi e regalare gli altri. Era stato più o meno allora, nel pieno dello sfiancante censimento, che gli era venuta quell’idea bizzarra: conservare solo cento libri.Detto fatto. Da allora aveva preso a chiamarli con una certa pompa «I cento libri dell’umanità». Da Omero a Kafka. Aveva preso talmente alla lettera l’idea di canone da conferirle consistenza plastica. In realtà continuava a leggere un po’ di tutto: classici, gialli, poesie, saggistica, primizie editoriali. Per un po’ soggiornavano sul fratino di mogano all’ingresso, pronti a essere implacabilmente sfrattati.
(...)
Chi vive di libri e per i libri, chi li maneggia dalla mattina alla sera, si fa tentare dalle tassonomie, dai canoni, dalle classifiche. Vizi perniciosi che cambiano la natura stessa dell’amore esponendoci all'idolatria. Dopotutto i libri sono strumenti di piacere, non il fine ultimo della vita. Che poi io dico libri, ma di fatto penso ai romanzi. Quando i miei occhi devono scegliere fra un tramonto sul mare e una pagina scritta non vacillano mai, virando decisi verso il basso. Se è vero che noi siamo ciò che amiamo allora posso affermare di essere una busta della spesa stipata di romanzi, non sempre indimenticabili.
(...)
Il mondo dei romanzi, sebbene gli somigli parecchio, non ha niente a che fare con quello in cui viviamo. Nelle sue lezioni Foster notava come i personaggi romanzeschi possano stare anche diversi giorni senza mangiare. Non dormono mai. In compenso scopano molto più di noi. I romanzi obbediscono alle leggi delle fiabe. I paesaggi sono posticci come le città dei film western. Il narratore cerca la sintesi, se ne infischia della completezza. Il realismo è un’aspirazione, una tensione di chi scrive e di chi legge, non certo un fine realizzabile.
(...)
Dice bene Cheever: la narrativa deve illuminare e ristorare.

frammenti dell'articolo Un bel romanzo è come un cheeseburger di Alessandro Piperno su La Lettura di domenica 31 gennaio 2016

sabato 30 gennaio 2016

Raccontare le cose per non dimenticarle

Penso che dimentichiamo le cose quando non abbiamo qualcuno a cui raccontarle.

Questa è una battuta di un film che mi è piaciuto molto Lunchbox, la storia epistolare tra Ila e Saajan, una casalinga e un impiegato di Mumbai.
Lei vive tra le mura domestiche e parla solo con una zia invisibile che vive al piano di sopra e accudisce un marito paralizzato da quindici anni. 
Lui è un uomo di mezza età prossimo alla pensione, vedovo, silenzioso e un po' antipatico che tiene le persone alla larga. Un banale scambio di lunchbox, consegnate con un sistema complicatissimo, fa degustare a Saajan il pranzo che Ila ha preparato per il marito, indifferente e infedele, come scopriremo poi; il buon cibo e un primo bigliettino scatenano una fitta corrispondenza che scatena in entrambi un desiderio di cambiamento. Ma per cambiare bisogna avere coraggio e forse un po' di incoscienza. Lunchbox, del giovane regista indiano Ritesh Batra è un film delicato e poetico che si dipana per sottrazioni e sospension.
Una storia dove la vita quotidiana, che appare così difficile e povera, è invece fonte di gioia e allegria.

E.P.



venerdì 29 gennaio 2016

C’è fra di noi qualcosa che è meglio dell’amore: è una complicità

Spero che questo libro non venga mai letto.

*
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C’è fra di noi qualcosa che è meglio dell’amore: è una complicità.

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Assente, il tuo volto si dilata tanto da colmare l’universo. Passi allo stato fluido, quello dei fantasmi. Presente, si con-densa; e raggiungi la concentrazione dei metalli più pesanti, l’iridio, il mercurio. Mi fa morire, quel peso, cadendomi sul cuore.

Marguerite Yourcenar
Fuochi
traduzione di Maria Luisa Spaziani
Bompiani 2001

Questo è l'incipit di questo piccolo libro impreziosito da una prefazione dell'autrice e dalla traduzione della poetessa Maria Luisa Spaziani.
Ho deciso che un po' alla volta, seguendo il filo dei ricordi, copierò gli incipit dei libri che ho letto.
Sono tanti, tantissimi, più di quanti non immaginassi. 
Ma quei libri sono parte di me, sono parte della mia architettura interiore.
A chi può interessare i libri che ho letto? A tutti e a nessuno.
Ma a volte basta una piccola suggestione, una citazione che suscita in noi una curiosità,  un desiderio, una nostalgia ed ecco che il mondo si apre su nuovi significati. Anche per questo leggo molto e anche per questo restituisco parte dello stupore e del significato che i libri mi donano su questo blog.

Elena Petrassi



giovedì 28 gennaio 2016

Scrivere in una stanza chiusa a chiave

Sottoposta a un simile regime, acquistai, plasmai in me, con l'abitudine di lavorare, un temperamento da aggiustatrice di porcellane. Che sorta di laboratorio è una prigione! Parlo di ciò che conosco: la vera prigione, e
il rumore della chiave girata nella toppa, e la libertà restituita quattro ore dopo. «Esibite i documenti, prego...». Io invece dovevo esibire pagine scritte. Questi dettagli di cattività quotidiana non tornano a mio onore,
me ne rendo conto, e non mi piace far la figura della pecora. Ma il rispetto della verità strampalata, e un sapore un po' gotico, assegnano loro un posto qui. Dopotutto non c'erano sbarre alla finestra, e potevo benissimo
tagliare la corda. Pace dunque a quella mano, oggi morta, che non esitava a girare la chiave nella toppa. A lei devo la mia arte più sicura, che non è quella di scrivere, ma l'arte domestica di saper attendere, dissimulare,
raccogliere briciole, ricostruire, rincollare, rindorare, cambiare in meglio il peggio, perdere e riconquistare nello stesso istante il gusto frivolo di vivere... Ho imparato soprattutto ad avere, fra quattro mura, quasi tutte le mie evasioni, a transigere, comprare, e infine, quando mi piovevano addosso i «presto, per dio,
presto!», a insinuare: «Forse in campagna lavorerei più in fretta...».

Colette
Il mio noviziato
Adelphi 1981

Il 28 gennaio è il compleanno della scrittrice francese Colette che iniziò a scrivere costretta dal suo primo marito, Willy, giornalista e scrittore, uomo mondano che a lungo firmò i romanzi della giovane moglie.
A un certo punto Colette aprì quella porta e si liberò di quel marito ingombrante. Iniziò una vita trasgressiva e libera che la portò a diventare una delle più grandi scrittrici francesi. Leggerla in francese significa entrare in un mondo di delizie, ho imparato il francese da lei più che da qualunque altro scrittore. 
Ho comprato, in un inverno di tanti ann,i fa molti dei suoi libri in lingua originale nella vecchia libreria di Bruno Torciani in Corso di Porta Nuova a Milano.
Erano libri che arrivavano dalla biblioteca della moglie di un noto ministro del regime fascista. Gli eredi si erano sbarazzati senza molti pensieri dei libri e io frugando nel magazzino, senza sapere a chi fossero appartenuti, avevo trovato prime edizioni imperdibili. L'estate successiva ci fu il primo viaggio in Francia, un mese tra Bretagna, Normandia e poi Borgogna. I romanzi di Colette, tornati per qualche settimana nel paese d'origine, furono la compagnia letteraria di quel viaggio. La Francia reale coesisteva con la Francia narrata ed era più che vivere due volte. Era una gioia frenetica di leggere, parlare e ascoltare la mia seconda lingua più amata. Ma queste sono altre storie...

Elena Petrassi

mercoledì 27 gennaio 2016

Scrivere significa conoscere lo sfondo sul quale ogni cosa vive e cresce

La realtà non è del tutto reale per me, ed è per questo che non riesco a concretizzare le cose, perché me ne sfuggono sempre l’importanza e il senso. Un singolo verso di Rilke mi sembra più reale, per esempio, di un trasloco o di cose simili. La vita, dovrei passarla seduta a una scrivania. Eppure non credo proprio di essere una folle sognatrice, anzi, la realtà mi interessa terribilmente, anche se solo da dietro la scrivania, e non per viverla, per agire. Se vuoi comprendere persone e idee, devi pur conoscere il mondo reale e lo sfondo sul quale ogni cosa vive e cresce.

Etty Hillesum
Diario 1941-1943
edizione integrale
Adelphi 2012


martedì 26 gennaio 2016

Scrivere è abbandonarsi al mistero della terza persona

C'è in giro molta gente che scrive, professionisti bravi, efficienti, che sfornano prodotti spesso anche di buona qualità; ci sono pochi scrittori. J. M. Coetzee è uno scrittore. Non è semplicemente più bravo di altri, è un'altra cosa. Fa letteralmente un'altra cosa. Non produce libri - più o meno attuali, più o meno intonati ai gusti (prevedibili) del pubblico, con più o meno precisione mirati al successo di vendite. J. M. Coetzee da anni è impegnato nella costruzione di 
un'opera. Al centro, se stesso. Sia in Infanzia, sia in Gioventù (entrambi pubblicati da Einaudi nell'ottima traduzione di Franca Cavagnoli), la materia della narrazione è autobiografica; eppure, più lui scrive, più si congeda da sé stesso. Con postura kafkiana J. M. Coetzee si muove nel regno della terza persona, a confermare quella verità che sorprese Kafka, quando meravigliato osservò di essere entrato nella letteratura dal momento in cui aveva potuto sostituire il pronome «io» con «egli». Che cosa entra in gioco con la terza persona? Che cos'è la terza persona? Perché J. M. Coetzee dice «lui» parlando di sé? E' il mistero profondo della letteratura, non una questione grammaticale, ma filosofica; che riguarda, cioè, la filosofia delle forme narrative. Fa parte del mistero l'esperienza conturbante per il lettore di sostare in un racconto dove chi scrive rinuncia a dire «io» e delega ad altri questo potere. Se lo scrittore fa così, viene da pensare, è perché vuole che trionfi la narrazione, che l'elemento personale receda nel silenzio e in primo piano spicchi 
l'impersonalità della vicenda, quasi ad evocare il carattere anonimo per definizione dell'esperienza umana. Quel «lui», o «egli» di cui J. M. Coetzee si serve, diventa così tutti e nessuno.

incipit dell'articoli di Nadia Fusini dedicato a J. M. Coetzee
Repubblica 13 novembre 2002

lunedì 25 gennaio 2016

Scrivere è sempre un atto di rinuncia

Il secondo commento nel libro è dedicato a Henry James. È molto breve e riempirebbe, forse, due colonne sulle pagine della North American Review. Tuttavia, ci sembra che alla fine sia stato detto qualcosa di fondamentale, qualcosa che è sempre stato eluso, che non è mai stato espresso, su Henry James. Essendosi molte menti raffinate applicate a questo compito, ed essendo state riempite non solo molte colonne, ma degli interi volumi, con i loro commenti, in un primo momento riesce difficile rendersi conto di quanto Conrad, con grande facilità, le distanzi per poi superarle tutte. Forse è diverso il punto di partenza. Mentre tutti gli altri sono rimasti diligentemente a raccogliere frammenti e ammucchiare ritagli dal di fuori, Conrad ha in qualche modo sollevato la cortina ed è entrato all'interno. Quello che dice è frammentario; si presta a infinite elaborazioni; ma rinvia a ciò che è fondamentale e durevole. 

«Henry James è lo storico delle coscienze raffinate… Nessuno ha reso meglio di lui, forse, la tenacia di un carattere, o ha saputo come drappeggiare il manto dell’integrità spirituale sulla figura china di un vincitore in una lotta infruttuosa.» 

Questi sono colpi che mettono a nudo le fondamenta.
Naturalmente, è il romanziere e non il critico che parla. È l’uomo che ha fatto in prima persona ciò di cui parla e che, per questo, riesce a penetrare dentro la mente dello scrittore e vedere il suo disegno, curandosi meno, forse, dei particolari. Ma sebbene Conrad come romanziere parli con autorità, dobbiamo ancora tenere conto del particolare tono di quell'autorità, della convinzione che si sente sempre nella sua voce. Se i brevi saggi su Henry James, Maupassant, Turgenev, Anatole France hanno lo spessore e la coesione propri della vera letteratura e non del giornalismo, è soprattutto perché sono fondati su certi princìpi generali e duraturi che sono applicabili a tutta la narrativa e non soltanto ai volumi specifici presi in esame.

«Che sia necessario sacrificare qualcosa, che si debba rinunciare a qualcosa, è la verità incisa nei più riposti recessi del bel tempio costruito a nostra edificazione dai maestri della narrativa. Non c’è alcun altro segreto al di là del sipario. Tutte le avventure, tutto l’amore, ogni successo, sono tutti compresi nella suprema energia di un atto di rinuncia.»

Questa frase si trova nel saggio su Henry James. Voltiamo la pagina e troviamo che la consumata semplicità della tecnica di Maupassant è basata, «come tutte le grandi virtù», soprattutto sulla rinuncia a se stessi. Il suo notevole merito è di essere pietoso, coraggioso e giusto.

frammento dell'articolo A prince of prose, Times Literary Supplement del 3 marzo 1921

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011

domenica 24 gennaio 2016

le nuvole che cantano per chiamare il vento

Guardo il cielo bianco di Milano e
in una finestra della memoria sento
la neve cadere e il silenzio immenso
che attraversa gli alberi spogli

Sto sotto il cielo bianco di Milano,
dove gli alberi spogli scrivono
in una lingua che non conosco
ma che le mie nuvole cantano

Sono il cielo bianco di Milano
e sono il silenzio immenso
e le nuvole che cantano,

cantano per chiamare il vento.

Elena Petrassi
poesie inedite

certe volte le poesie arrivano così, alzando lo sguardo verso la finestra e in un attimo tutto accade

sabato 23 gennaio 2016

L'inverno in cui vivere è un verbo di fuoco

Tolstoj

Trascinerò l'inverno
nella tana del lupo
per decifrare
l'alfabeto di cristallo 
in cui vivere è un verbo di fuoco 

chiamerò il silenzio 
pesante larga patria 
il viaggio del freddo 
che le case ci rubano 

chi mi ritroverà 
- neve nessun eco 
avrà gli occhi bruciati 
un grande popolo d'uccelli 
vestirà il suo corpo 
il cammino si estenderà 
fino alla fine della sua ombra 

Guy Goffette
traduzione di Chiara De Luca
dal sito Nabanassar

J'entraînerai l'hiver
dans la tanière du loup
pour déchiffrer
l'alphabet de cristal
où vivre est un verbe de feu

J'appellerai le silence
grève large patrie
le voyage du froid
que les maisons nous volent

Qui me retrouvera
- neige nul écho
aura les yeux brûlés
un grand peuple d'oiseaux
investira son corps
le chemin s'étendra
jusqu'au bout de son ombre 

venerdì 22 gennaio 2016

Cercare l'iconografia interiore adatta alla propria vita

Il Libro rosso racconta come Jung è diventato Jung. Ciò che più ha toccato i lettori è stato il senso di assertività che comunica, incoraggiando ciascuno ad affrontare la propria esperienza, a scorgere il valore di questa impresa, a comprendere che per quanto folli possano essere sogni e fantasie rientrano comunque nel registro umano e c'è qualcun altro che ne ha avute di simili e si è preso la briga e ha avuto la pazienza di cercare di capirle. Ha dato ai lettori la sensazione di non essere soli. Quindi, a mio parere, il suo successo non riguarda né la psicologia di Jung né una sua particolare cosmologia. Il senso è che vale la pena appoggiarsi alla propria esperienza per spingersi più avanti in una qualsiasi iconografia interiore adatta alla propria vita.

frammento dell'intervista di Silvia Ronchey a Sonu Shamdasani
Repubblica 16 novembre 2015

C.G. Jung
Il Libro Rosso
Liber Novus
a cura di Sonu Shamdasani
traduzione di Anna Maria Massimello, Giulio Schiavoni e Giovanni Sorge
Bollati Boringhieri 2010


giovedì 21 gennaio 2016

Se non puoi farla come vuoi, la vita

Più che puoi

Se non puoi farla come vuoi, la vita,
sforzati almeno più che puoi
di non prostituirla
nei contatti eccessivi con la gente,
con i gesti eccessivi e le parole.

Non la prostituire col portarla
troppo sovente in giro, con l’esporla
ai commerci e alle pratiche
della dissennatezza quotidiana
finché diventi estranea ed importuna.

Kostantinos Kavafis
traduzione di Nicola Crocetti 

Poesia n. 278 gennaio 2013
Fondazione Poesia Onlus 2013

mercoledì 20 gennaio 2016

Leggere Ian McEwan come se fosse la prima volta

A volte capita che uno scrittore molto amato scivoli via dal nostro orizzonte senza che ce ne rendiamo conto. A me è successo con Ian McEwan che ho adorato ma che poi, e davvero non so perché, ho smesso di leggere. 
Nei giorni scorsi ho preso in mano Sabato e l'ho divorato. Un romanzo dov'è c'è tutta l'esistenza di un uomo raccontata in un giornata di sabato, il 15 febbraio 2003 per l'esattezza,  che diventerà unica, terrorizzante, speciale. Una giornata che inizia con un risveglio prima dell'alba e un areo in fiamme che sta cadendo e si chiude più o meno alla stessa ora della domenica. 
Henry Perowne, il protagonista è un neurochirurgo che conduce una vita piena e ricca. Ha un lavoro che lo coinvolge completamente, ama la musica, è sposato con una bella donna che ama ed è ricambiato, due figli giovani adulti, un talentuoso musicista blues e una poetessa che sta per pubblicare con un editore prestigioso il suo primo libro, una bella casa. Per un banale incidente questa bella vita, mentre l'Inghilterra sta per entrare in guerra contro l'Iraq e Londra è invasa dai manifestanti, rischia di finire all'improvviso e di entrare tra i casi di cronaca nera. C'è davvero tutto in questo romanzo straordinario, la fragilità della vita, l'incontro con la malattia e la morte, che Henry affronta tutti i giorni in sala operatoria, la felicità dell'amore coniugale, riflessioni sulla creatività artistica e scientifica, sullo sport, sulla decadenza fisica e la vecchiaia incipiente. Anche le riflessioni sulla politica e l'attualità, incluso lo scontro tra civiltà sono attuali al punto da sembrare scritte in questi giorni di inizio 2016.
La sensazione è di vivere istante dopo istante con lui, proprio quel che lui sta vivendo, di entrare nella sua pelle e nei suoi pensieri. Un libro magistrale, che finisce dritto dritto sul ripiano dei libri da rileggere. Di seguito l'incipit in italiano e in inglese.

Elena Petrassi

Ian McEwan
Sabato
traduzione di Susanna Basso
Einaudi 2005



Qualche ora prima dell’alba Henry Perowne, un neurochirurgo, si sveglia per ritrovarsi già in movimento, seduto nell’atto di scostare le coperte e quindi di alzarsi in piedi. Non sa esattamente da quanto è cosciente, né del resto la cosa risulta avere rilevanza. Non gli è mai successo nulla di simile ma non è allarmato e neppure vagamente sorpreso, perché si muove con assoluta disinvoltura, provando un piacere diffuso agli arti, e sentendosi schiena e gambe insolitamente vigorose. Eccolo in piedi, nudo accanto al letto - si corica sempre nudo - in tutta la sua statura, consapevole del placido respiro di sua moglie e dell’aria invernale della stanza sulla pelle. Anche quella è una sensazione gradevole. L’orologio sul comodino segna le tre e quaranta. Henry non ha idea di che cosa ci faccia alzato: non sente il bisogno di liberare la vescica, e neppure è turbato da un sogno o da qualche particolare del giorno precedente, o addirittura dalle condizioni in cui versa il mondo. È come se, lì in piedi al buio, si fosse materializzato dal nulla, in piena forma e in completa libertà. Non si sente stanco, a dispetto dell’ora e delle fatiche degli ultimi giorni, e non è nemmeno preoccupato per un caso recente. Anzi, è sveglio, sereno e inspiegabilmente euforico. Senza averlo deciso e per nessuna ragione al mondo, si incammina verso la più vicina delle tre finestre della stanza con un passo di tale agilità e scioltezza da fargli sospettare che si tratti di un sogno o di un episodio di sonnambulismo. Se è così, rimarrà deluso. I sogni non gli interessano; trova più promettente la possibilità che tutto questo sia vero. D'altronde è perfettamente lucido, ne è più che certo, e sa bene di essersi lasciato il sonno alle spalle: riconoscere la differenza tra sonno e veglia, distinguerne i confini, sono questi i fondamenti della sanità mentale.

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Some hours before dawn Henry Perowne, a neurosurgeon, wakes to find himself already in motion, pushing back the covers from a sitting position, and then rising to his feet. It's not clear to him when exactly he became conscious, nor does it seem relevant. He's never done such a thing before, but he isn't alarmed or even faintly surprised, for the movement is easy, and pleasurable in his limbs, and his back and legs feel unusually strong. He stands there, naked by the bed - he always sleeps naked - feeling his full height, aware of his wife's patient breathing and of the wintry bedroom air on his skin. That too is a pleasurable sensation. His bedside clock shows three forty. He has no idea what he's doing out of bed: he has no need to relieve himself, nor is he disturbed by a dream or some element of the day before, or even by the state of the world. It's as if, standing there in the darkness, he's materialised out of nothing, fully formed, unencumbered. He doesn't feel tired, despite the hour or his recent labours, nor is his conscience troubled by any recent case. In fact, he's alert and empty-headed and inexplicably elated. With no decision made, no motivation at all, he begins to move towards the nearest of the three bedroom windows and experiences such ease and lightness in his tread that he suspects at once he's dreaming or sleepwalking. If it is the case, he'll be disappointed. Dreams don't interest him; that this should be real is a richer possibility. And he's entirely himself, he is certain of it, and he knows that sleep is behind him: to know the difference between it and waking, to know the boundaries, is the essence of sanity. 

 

martedì 19 gennaio 2016

è con questi che sto scrivendo

I miei furti al Commissariato: due magnifici notes a quadretti (gialli, laccati), un'intera scatola di penne, una boccetta di inchiostro rosso inglese.
E' con questi che sto scrivendo.

Marina Cvetaeva
Indizi terrestri
Diario moscovita 
1917-1919
a cura di Serena Vitale
Guanda 1980

lunedì 18 gennaio 2016

i grandi cambiamenti arrivano così, senza preavviso, come le alluvioni o gli incendi

La sua nuova vita la stava aspettando dietro l’angolo. Bastava solo saltarci dentro. Non c’era nulla da temere. Dopotutto i grandi cambiamenti arrivano così, senza preavviso, come le alluvioni o gli incendi.

Francesca Marciano
Isola grande isola piccola
Bompiani 2015

domenica 17 gennaio 2016

Come un lupo è il vento

Tutto il giorno con questa poesia in testa, anche se questo è un vento invernale...


Vento
Come un lupo è il vento
che cala dai monti al piano,
corica nei campi il grano
ovunque passa è sgomento.
Fischia nei mattini chiari
illuminando case e orizzonti,
sconvolge l’acqua nelle fonti
caccia gli uomini ai ripari.
Poi, stanco s’addormenta e uno stupore
prende le cose, come dopo l’amore.


Attilio Bertolucci
Sirio
Alessandro Minardi Editore 1929

sabato 16 gennaio 2016

la primavera che si rigira nel suo letto di foglie e gelo

Oggi grande vento a Milano.

Si sente già la primavera che
si rigira nel suo letto
di foglie e gelo.

Elena Petrassi

venerdì 15 gennaio 2016

Prima riflettere, poi scrivere: la scrittura secondo Annie Ernaux

Nelle prime pagine de Il posto, lei parla di «scrittura piatta» per raccontare il suo rapporto con le parole, con il tempo che passa e con i ricordi che aiutano a metterle insieme in una nuova forma, particolare e universale, che non si approfitta dei sentimenti e che non cerca alcuna complicità con il lettore. Cosa prova ogni volta che si trova davanti a un foglio bianco? Cosa rappresenta per lei la scrittura? E ai lettori, ogni tanto ci pensa?
Non mi metto mai davanti a un foglio bianco senza avere a lungo riflettuto in precedenza, a volte anni, su un progetto di scrittura. C’è una fase preliminare di ricognizione, in cui mi concentro sulla struttura del testo, sulla sua importanza, e che si potrebbe definire una specie di «diario di scrittura». La sensazione, quando entro nella vera e propria fase di stesura, è quella di un lavoro che nessuno potrebbe fare all'infuori di me e nel quale mi devo impegnare, costi quel che costi.
La scrittura è innanzitutto per me un modo di esistere – quando non scrivo mi sento inutile, vuota – e anche di intervenire nel mondo portando alla luce ciò che mi colpisce ma che avrebbe potuto colpire chiunque. Sempre più, è anche una lotta contro l’oblio, quello della Storia, della nostra vita collettiva, in un’epoca che mi appare come quella della fugacità e delle emozioni senza memoria.
Non penso mai a un lettore in particolare mentre scrivo, mi immergo completamente in una dimensione dove l’unica cosa che conta è esprimere nella maniera più giusta situazioni ed emozioni. Allo stesso tempo, scrivo pensando che nella società in cui vivo, insieme alla quale costituisco un’epoca, questa scrittura troverà qualcuno che sarà colpito dai miei libri. Ma questo ipotetico lettore non influisce in nessun modo sulla mia maniera di concepirli. Significherebbe piegarsi al gusto dominante, e se l’avessi fatto di sicuro non avrei mai scritto Il posto o Gli anni. 
incipit dell'intervista di Giorgio Biferali a Annie Ernaux

giovedì 14 gennaio 2016

Un giorno così felice, dove vedevo il mare azzurro e vele

Dono

Un giorno così felice.
La nebbia si alzò presto, lavoravo in giardino.
I colibrì si posavano sui fiori del quadrifoglio.
Non c'era cosa sulla terra che desiderassi avere.
Non conoscevo nessuno che valesse la pena d'invidiare.
II male accadutomi, l'avevo dimenticato.
Non mi vergognavo al pensiero di essere stato chi sono.
Nessun dolore nel mio corpo.
Raddrizzandomi, vedevo il mare azzurro e vele.
Berkeley, 1971

Czeslaw Milosz
Poesie 
a cura di Pietro Marchesani
Adelphi 1983

mercoledì 13 gennaio 2016

Ispirarsi e cibarsi di altri scrittori prima di iniziare a scrivere

A otto anni da Olive Kitteridge, con il quale vinse il premio Pulitzer, e a meno di tre da I Fratelli Burgess, esce oggi negli Stati Uniti il nuovo romanzo di Elizabeth Strout, intitolato My name is Lucy Barton (in Italia uscirà a maggio tradotto da Einaudi). Il libro è stato preceduto da un’unanimità di critiche osannanti, che consacrano l’autrice del Maine come una delle voci più sincere e appassionanti dell’universo letterario contemporaneo. La finezza e la sensibilità con cui immortala ancora una volta ritratti indimenticabili di donne invita a interrogarsi se esista una letteratura prettamente femminile: in questo caso le protagoniste sono una madre e una figlia, riavvicinate
da una grave malattia. Nell'universo di Elizabeth Strout la condivisione, la confidenza e anche l’amore sembrano nascere unicamente attraverso il dolore, e anche i rapporti più intimi possono sopravvivere solo in virtù del perdono delle nostre debolezze. Da questa concezione scaturisce un sentimento nel quale la speranza si mescola alla malinconia, che rifiuta tuttavia il sentimentalismo: Claire Messud ha definito il romanzo sul New York Times, «potente, malinconico e squisito» e il Kirkus Review ha parlato di un libro «magistrale» e «pieno di poesia»
(...)

Esiste una scrittura squisitamente femminile?
«Molti non saranno d’accordo, ma io non penso affatto che sia così: un autore, maschio o femmina, quando è grande, è in grado di raccontare anche l’altro sesso. Io penso che le pagine di Alice Munro o Margaret Atwood siano semplicemente alta letteratura, e non parlerei di letteratura femminile ».

Direbbe lo stesso di Jane Austen?
«Riconosco che lei è forse un’eccezione: nel suo caso si sente in maniera prepotente lo sguardo femminile. Ma anche in quel caso vedo prima la grandissima autrice, poi il sesso».

Ci sono scrittrici che l’hanno ispirata?
«Certamente, ma anche scrittori: oltre alla Munro, faccio il nome di William Trevor, del quale mi sono cibata fin quando non mi sono sentita in grado di scrivere ».

Esistono autori che ammira, che trattano temi molto lontani dai suoi?
«Si molti, e voglio citare una donna: Elena Ferrante. Ne ho grande ammirazione, ma non potrebbe esistere autrice più diversa. E circola anche la voce che potrebbe essere in realtà un maschio ».

frammenti dell'intervista di Antonio Monda a Elizabeth Strout su Repubblica di oggi

martedì 12 gennaio 2016

La felicità delle parole

Non c'è bisogno di aver vissuto le stesse sofferenze del poeta per cogliere la felicità delle sue parole - una felicità che vince anche la tragedia.

Gaston Bachelard

lunedì 11 gennaio 2016

Marina Cvetaeva: scrivere da sé i libri mecessari

Bisogna scrivere soltanto i libri la cui mancanza ti fa soffrire.
In breve: i propri libri da capezzale.

Marina Cvetaeva
Indizi terrestri
Diario moscovita 
1917-1919
a cura di Serena Vitale
Guanda 1980

domenica 10 gennaio 2016

Non riesco a scrivere cinque parole senza cambiarne sette

Come scrive le sue storie? Ne fa una prima stesura che poi riscrive più volte, oppure quale altro metodo segue?

Per scrivere una storia mi ci vogliono sei mesi. Ci rifletto a lungo e poi la scrivo frase per frase, senza nessuna prima stesura. Non riesco a scrivere cinque parole senza cambiarne sette.


dall'intervista di Marion Capron a Dorothy Parker per la Paris Review 1956
tradotta nel volume
The Paris review 
Interviste vol. 1
Fandango 2009

sabato 9 gennaio 2016

Il chiaroscuro della scrittura secondo Marguerite Yourcenar

Ci sono anche scrittori che si mettono ogni mattina alla scrivania, all'ora stabilita, e aspettano che venga l’ispirazione. È il suo caso?

Quando mi metto alla scrivania so già esattamente quello che devo fare, perché ce l’ho tutto scritto nel pensiero. Naturalmente la scrittura dà luogo a una sorta di chiaroscuro; mette in risalto errori o dà adito a nuove scoperte ma i fatti, le idee sono già là. Per un saggio critico, il modo di procedere è molto diverso. Si può lavorare continuando per mesi e mesi a ricominciare da capo.
Il mestiere dello scrittore è un’arte, o meglio un artigianato, e il metodo dipende un po’ dalle circostanze. A volte prendo un blocco e butto giù il mio testo con una scrittura che sfortunatamente diventa illeggibile in capo a quattro o cinque giorni, che in qualche modo appassisce come i fiori. Ma succede anche che vada dritta alla macchina da scrivere e batta una prima versione. In ambedue i casi, per ogni frase, vado di slancio; successivamente, cancello, scelgo la frase che preferisco. Lavoro anche con forbici e colla, ma non sempre. E se le piacciono le piccole manie tipiche dello scrittore, gliene posso citare una: alla terza o quarta revisione, armata di matita, rileggo il mio testo, già quasi a posto, e tolgo tutto quello che può essere tolto, tutto ciò che mi pare inutile. E qui, esulto. Scrivo a piè di pagina: abolite sette parole, abolite dieci parole…Sono felicissima: ho soppresso l’inutile.

Conversazioni tra Matthieu Galey e Marguerite Yourcenar 
Ad occhi aperti
traduzione di Laura Guarino
Bompiani 1986

venerdì 8 gennaio 2016

La mente creativa è un campo innevato, è il silenzio dopo la caduta del fulmine

Questa poesia la sto rigirando tra mani e quaderno da qualche mese. 
È tratta dal film Words and pictures, che mi è piaciuto anche se sconta qualche ingenuità, con Juliette Binoche e Clive Owen, due artisti e insegnanti maturi e in crisi. Lo scontro tra le loro visioni, diffidenze reciproche, passioni, malattie e debolezze umane diventa uno straordinario detonatore per la creatività dei loro allievi.
Così questa poesia, delicata e immensa, che evoca la mente creativa come se fosse un campo innevato, come se fosse il silenzio dopo la caduta di un fulmine mi piace talmente tanto che ho deciso di condividerla. Anche se mi resta un margine di dubbio sull'autore perché forse la poesia, benché scritta dallo sceneggiatore Gerald Di Pego, forse è ispirata da una poesia della poetessa americana Mary Oliver che, nonostante abbia cercato in parecchi suoi libri, non sono riuscita a trovare. E la traduzione non è proprio quella nella versione italiana del film ma l'ho un po' rimaneggiata e continuerò a farlo perchè c'è ancora qualcosa che mi sfugge.
E.P.


Chi sei?

Sono una piccola poesia
Su una pagina con
Spazio per un’altra.

Condividi con me
Questo campo bianco
Largo quanto un acro
Di neve, intatta
Tranne per questi piccoli
Segni come le impronte
di uccelli.
Vieni, ora.
Questo è il ventre dell’onda
I secondi che seguono il fulmine
Sottile fetta di silenzio
Mentre la musica cessa
Il gelo prima dello scioglimento
Sdraiati accanto a me
Crea angeli, crea diavoli
Crea chi sei tu


Gerald Di Pego


Who are you?

I am a small poem
on a page with room
for another.

Share with me
this white field,
wide as an acre
of snow, clear
but for these tiny
markings like the
steps of birds.
Come now.

This is the trough
of the wave, the
seconds after
lightning, thin
slice of silence
as music ends,
the freeze before
the melting. Hurry.

Lie down beside me.
Make angels. Make devils.
Make who you are.








giovedì 7 gennaio 2016

Il percorso della luce

L'incidente

La luce sbatte contro i muri, sbalza,
scivola nel bicchiere, guizza via strozzata,
urta le mie iridi che flebili risuonano, dolenti,
poi si ritrae, torna indietro e arriva
alla tua bocca liscia come vetro, la frantuma,
sulla tua bocca si disegna una nervatura nera,
siamo gravemente feriti tutti e due, la luce
imita il nostro sangue.

Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007
traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

mercoledì 6 gennaio 2016

Se volete diventare uno scrittore prima leggete questi libri

Nel 1934 il giovane aspirante scrittore Arnold Samuelson andò a trovare Ernest Hemingway a Key West. Tra le molte cose che accaddero Hemingway diede a Samuelson la lista dei libri che ogni aspirante scrittore avrebbe dovuto leggere.

Questa è la lista:


  1. The Blue Hotel di Stephen Crane
  2. The Open Boat di Stephen Crane
  3. Madame Bovary di Gustave Flaubert
  4. I Dublinesi di James Joyce
  5. Il Rosso e il Nero di Stendhal
  6. Of Human Bondage di W. Somerset Maugham
  7. Anna Karenina di Lev Tolstoj
  8. Guerra e Pace di Lev Tolstoj
  9. I Buddenbrook di Thomas Mann
  10. Hail and Farewell di George Moore
  11. I Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij
  12. The Oxford Book of English Verse
  13. The Enormous Room di E.E. Cummings
  14. Cime Tempestose di Emily Brontë
  15. Far Away and Long Ago di W.H. Hudson
  16. The American di Henry James
La storia di questo incontro e le riflessioni che ne scaturirono vennero scoperte dalla figlia di Samuelson dopo la sua morte.




martedì 5 gennaio 2016

E ora mettetevi a scrivere

Lo so, è impossibile affrontare tutte le sfide, le insidie e le gioie del processo della scrittura armati di un’unica, arbitraria lista. Comunque, elenco qui sotto i problemi che, lo so per esperienza personale, continuano a presentarsi agli aspiranti scrittori. Ogni tanto devono combatterci anche quelli di noi che scrivono da molti anni. Le voci non sono in un ordine particolare: in un giorno qualsiasi, potrei invertire i numeri e l’impatto resterebbe lo stesso. Ognuna è significativa a modo suo. 

1. Essere un lettore  
Ritengo che uno degli attributi più importanti per uno scrittore sia di essere già un lettore appassionato. Spesso iniziamo a scrivere quando ammiriamo il modo in cui sono scritti i nostri libri preferiti. È attraverso la lettura che impariamo lo stile, la trama, la caratterizzazione. Leggere molto e attivamente è, a mio parere, la base essenziale per diventare scrittori. Quando dico attivamente, intendo imparando a essere consapevoli di come gli altri scrittori hanno creato e costruito i libri che amate. Cercate di capire che cosa vi piace, cosa per voi fa funzionare la trama, cosa rende autentici i personaggi. Una volta intuito questo, siete sulla buona strada. 

2. Non aspettate l’ispirazione  
Non so bene come si sia sviluppato questo mito: che gli scrittori se ne stanno seduti sulla loro chaise longue a sorseggiare pinot grigio, rilassati, in attesa che la Musa agiti la sua bacchetta magica. Voilà: una volta che lo scrittore è toccato dall'ispirazione, la storia fluisce, perfettamente formata, fuori dalla sua testa e finisce sulla pagina. Niente affatto. In realtà l’ispirazione nasce dall'atto stesso della scrittura. Scrivere è un processo organico: le idee si nutrono l’una dell’altra e crescono. Ma lo scrittore deve scriverle, alimentarle, svilupparle, e spesso cancellarle prima di ricominciare l’intero processo. Non esistono scorciatoie. 

3. Il patto  
Se non vi mettete alla scrivania, non riuscirete a scrivere nulla. L’inizio cruciale del processo della scrittura comporta mettere delle parole sulla pagina. Per poterci riuscire, dovete dedicare del tempo alla scrittura. Scrivere e basta: non andare a vedere Facebook o Twitter, non controllare la posta elettronica, non inviare sms. Scrivere. Da soli. In una stanza. Insieme ai vostri pensieri. In questa fase sarà utile allontanare il nostro Critico Interiore: costringerlo a restarsene fuori dalla porta, magari al freddo, senza mangiare né bere. Per il Critico Interiore non dev'esserci posto né nella vostra testa, né accanto a voi: quella vocina velenosa che vi dice che quello che avete scritto non va bene, che non valete niente, e comunque, chi vi credete di essere per desiderare di diventare scrittore? Gli anni mi hanno insegnato che il Critico Interiore non può essere ucciso, ma dev'essere allontanato, in modo da poter scrivere in pace la prima stesura con tutti i suoi difetti, problemi e imperfezioni. Perché è questa la natura delle prime stesure. 

4. Nutrite la vostra immaginazione  
Inventatevi delle storie. Inventatevi delle persone. Partendo da un personaggio immaginario, costruite un’intera esistenza e provate a vedere che succede… Dategli una data di nascita, una famiglia, amici, passioni. Metteteci dentro una delusione, o una tragedia, o una crisi inaspettata, e state a vedere come cambia. Tutte le opere migliori illustrano il comportamento umano, approfondiscono la nostra comprensione di quello che ci spinge a fare ciò che facciamo. Vivete con i vostri personaggi, cercate di mettervi nei loro panni. Siate comprensivi, quando sono in difficoltà. La gioia più grande dello scrivere è l’empatia immaginativa che gli scrittori provano verso i personaggi da loro creati. Provateci: dapprima con un personaggio alla volta. Provate a sentirlo. Esercitate i muscoli della scrittura. Niente di ciò che scriverete andrà sprecato. 

5. Trovate la vostra trama  
Aristotele era dell’opinione che ogni tragedia ha bisogno di un inizio, un centro e una fine. Lo stesso vale per le nostre storie, ma questo non significa che debbano essere scritte in quest’ordine. Nelle prime fasi, lavorate sui pezzi che più vi piacciono: una scena, una discussione, un incidente. Scrivete la parte in cui a qualcuno si spezza il cuore, in cui il vostro personaggio si sente tradito o si arrabbia. Spesso gli aspiranti scrittori si sentono consigliare di «scrivere ciò che conoscono», ma questo può essere molto limitante. Il compito dello scrittore è conoscere le emozioni umane. Gli eventi possono essere sistemati in ordine in seguito, nel modo più consono alla storia. Nel frattempo, il trucco sta nel continuare a scrivere. Continuate a mettervi alla scrivania. Continuate a esercitare il muscolo della scrittura. 

6. Non raccontate, mostrate  
Pensate ai film più belli: pensate a come la storia si sviluppa in maniera potente, colorata, visiva. Gli scrittori tentano di catturare quel colore, quell'energia, e di ricrearli dentro la testa del lettore. Quindi, non raccontateci che «Giovanni è caduto dalla moto». Invece, mostrateci com'è successo: l’auto che si avvicina, lo stridio dei freni, lo schianto del metallo contro il metallo, il tonfo spaventoso della testa di Giovanni sull'asfalto. 
Fate vivere il racconto. 

7. Tenete un taccuino…  
…sempre con voi. Appuntatevi i frammenti di sogno che quando vi svegliate vi riempiono la testa come fumo. Annotatevi le conversazioni che vi capita di orecchiare sull'autobus, a scuola, al lavoro, durante la giornata. Se l’aspetto fisico di qualcuno vi colpisce, scrivetene una descrizione. Ah, e ogni tanto toglietevi le cuffie o gli auricolari. Vi state perdendo tutte le storie che vagano nell'etere tutt'intorno a voi. 

8. Ogni scrittura è una riscrittura  
Dovete accettare che essere scrittori significa scrivere, riscrivere e riscrivere ancora tutto quello che avete messo su carta. Ogni stesura perfeziona e affina la precedente. Alcune versioni comporteranno cambiamenti radicali, altre quasi nulla, soltanto dettagli minuti. Continuate così finché sentite che non ce la fate più. Fino a quel momento, resistete alla tentazione di farla leggere a qualcuno, o di parlarne troppo. È il metodo migliore per far scomparire la magia della vostra storia. 
  
9. Guardate. Ascoltate. Osservate.  
Le storie sono tutt'intorno a noi. Dobbiamo soltanto essere ricettivi. Ogni famiglia è piena di storie. Chiunque incontriate ha una storia: le vite banali non esistono. Tutte le vite valgono la pena di essere raccontate. 

10. Passione. Perseveranza. Pazienza. Professionalità  
Questi quattro pilastri della scrittura parlano da soli.  
Dobbiamo essere appassionati, per spingerci oltre la vertigine da conquista della prima stesura. Perseveranti per riuscire a superare tutte le stesure successive.  
Pazienti per non precipitarci a pubblicare prima di avere qualcosa di pronto. Ciò che conta è il processo. Concentratevi su quello, e non sul prodotto. Ed essere professionali significa essere sicuri, prima di inviare qualcosa, che la grammatica sia corretta. Che la punteggiatura sia corretta. Che l’ortografia sia corretta. Avrete soltanto una possibilità di fare una prima impressione positiva. 
E ora mettetevi a scrivere. 

Le 10 regole per diventare scrittore di Catherine Dunne
la narratrice irlandese dispensa i suoi suggerimenti agli aspiranti romanzieri
newsletter dal sito del quotidiano La Stampa 14/05/2015
traduzione di Ada Arduini