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martedì 17 agosto 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/527. Ti regalerò temporali e una nuova storia da raccontare

 



In questa giornata gradevole, nel cuore dell’estate e cullata da immensa pigrizia, vi propongo un frammento del mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese (2007). La voce narrante principale è la città di Milano e la protagonista si chiama Caterina. 

Nella fotografia c'è piazza Sicilia angolo via Sacco, proprio di fronte alla scuola elementare, dove negli anni Trenta, c'era la fabbrica tessile De Angeli-Frua, andata distrutta con i bombardamenti del 1943. Dopo anni di abbandono, un tentativo di speculazione edilizia nel 1991, quando volevano costruire un silos per auto di 7 piani fuori terra e di altri 3 sotterranei, della fabbrica è rimasto in piedi solo un pezzo di muro e l'ingresso degli operai, che ora porta a un palazzetto, frutto di un secondo tentativo di speculazione edilizia sempre all'inizio degli anni Novanta, ci volevano fare un ristorante ma dal 2004 c'è la Biblioteca Sicilia.

Buona lettura da me e da questa Cronaca ancor più pigra di martedì 17 agosto del secondo anno senza Carnevale.

§

 Agosto, il giardino di piazza Sicilia

Una mappa del cielo estivo disegnata scivolando per le vie della città, per le mie vie. Ma non del cielo diurno perché in esso sono visibili solo nuvole di passaggio, le ombre metalliche delle auto rarefatte, il segno dei lamenti che salgono dall’asfalto incandescente. È il cielo notturno che offre una possibilità di navigazione e con esso la necessità di una mappa buona per ritrovare la strada e il senno. Poche volte qui accade di scorgere sopra i tetti una luna rossa come le fiamme di una candela, un evento inaspettato che lascia i pochi residenti a bocca aperta. Quando la luna piano si avvolge nel suo scuro mantello e l’aria non è gravida di umidità, si possono scorgere le stelle. Bello sarebbe impararne i nomi, quel che non abbiamo fatto da bambini. Ma le stelle non bastano a dare un senso alle forme del cielo oscuro. Di notte

i fantasmi abbandonano i loro sentieri terrestri e si lasciano trasportare dalle brezze sottili fin sulle cime dei palazzi più alti. Qui stanno seduti tutta la notte a ripetere, senza stancarsi mai, le storie che hanno udito durante il giorno uscire dalle bocche dei vivi. Questo è quel che più di ogni altra cosa i fantasmi invidiano, la possibilità di vivere, così da avere poi delle storie da raccontare. Nelle notti d’agosto e solo in quelle, la città è interamente avvolta nei sogni dei dormienti. Ogni sogno è il filo di un tessuto, ogni sognatore telaio e tessitore insieme. Cosa ne verrà da questa notte d’estate, breve come un sospiro? Il primo sognatore cammina solo tra montagne altissime, le cui cime si perdono tra nuvole gravide di pioggia. Il secondo sognatore incontra sua madre giovane, abbracciata a un uomo che non sarà suo padre. Il terzo che viene avanti è una sognatrice perduta in un deserto di sabbia rossa che raccoglie e guarda un unico seme prima di piantarlo nel terreno. Poi è la volta di un uomo anziano che sogna, notte dopo notte, di tornare nelle terre che lo hanno visto bambino e lì ritrovare il padre che ha perduto prima di averne imparato il viso, la madre amorosa che gli portava cibo e panni caldi nelle lunghe notti di lavoro in campagna, i due fratelli maggiori partiti per il Brasile e mai tornati indietro. Di nuovo è una donna che lascia i suoi sogni liberi di vagare. Cammina in una piazza dalla forma circolare piena di mercanti e bancarelle colorate, di servi che fanno la spesa. Guarda se stessa nel sogno e scopre di abitare il corpo di un giovane uomo. I sogni di un bambino assomigliano a una favola che la madre gli ha letto la sera prima. Una bambina sogna

la strega di Biancaneve che cerca un’allieva, così si sveglia urlando nella notte.

Sognano tutti gli abitanti di questa città, ma mai nessuno che sogni di abitarci. E se sognano la città, è quella del passato, quella che li ha visti bambini ansiosi di diventare adulti. I fantasmi sono avidi di sogni, più di quanto non lo siano delle narrazioni dei vivi. Dei sogni ci si può appropriare e portarli con sé, perché si levano verso il cielo avvolti in sfere di cristallo.

Alcuni ne fanno incetta per la loro collezione. Ma nessuno sa dove i fantasmi custodiscano i loro tesori, le case dei fantasmi sono ignote ai vivi. Man mano che il buio si attenua, i fantasmi scivolano giù dai tetti importunando i gatti ancora addormentati. Nell’ora incerta che tra la notte e il giorno sta, diventano per qualche attimo di nuovo tangibili. Così si lavano alle fontane che zampillano acqua fresca, camminano a piedi nudi sui prati, staccano le locandine delle edicole, sfogliano la prima edizione del Corriere della Sera. Dato che possono toccare le cose, qualcuno suona ai citofoni o fa suonare telefoni in case addormentate. Ma è solo questione di pochi momenti, non appena la luce sale, di nuovo diventano invisibili e anche i loro gemiti diventano inudibili alle orecchie umane. Chi erano i fantasmi che vivono nell’ombra dei miei cortili?

Forse quelli che hanno lasciato cose incompiute, saranno in molti a ritrovarsi su queste stesse strade in un tempo che chiamano futuro. Ora l’atmosfera è cambiata anche d’estate. Sarà perché le grandi fabbriche non ci sono più, sarà perché la gente ha imparato a fuggire la città anche in altri mesi, io non sono più un teatro di desolazione in agosto. Solo, che ora si esauriscono molto più rapidamente sia idee che risorse. Visitati i pochi musei aperti, visti i film perduti l’inverno precedente, letti tutti i libri accumulati, privi a dire il vero di qualsiasi energia, dopo tanto vagare. Però i mie abitanti potrebbero ancora cercare piume d’angelo sui tetti delle case e scarpe dei fantasmi fuggiti all’alba. Possono cercare se stessi bambini in luoghi che, a occhi chiusi, sono sempre uguali, così come accade solo quando si è bambini. Seduti ai tavolini all’aperto finiscono sempre con il chiacchierare con sconosciuti, come in altre stagioni non avrebbero fatto mai. Anche gli uffici aperti sono sonnolenti e inoperosi. Sfogliano il giornale sino a mezzogiorno, chiacchierano al telefono con l’amica che sta al mare. Contano i giorni che mancano alle ferie e rievocano quelle appena trascorse con i colleghi che si fingono interessati.

Soprattutto d’agosto possono godere di un silenzio sconosciuto in tutto il resto dell’anno. Di notte, con la finestra aperta, si sentono frusciare le foglie, si sente il ronzio dei lampioni e qualche sirena lontana che non allarma ma culla il sonno. E in questo silenzio ritrovano, poco a poco, il senso delle parole che credevano perdute e che invece ancora dimorano in loro. Così da alimentare i fili del telaio per i tessitori notturni e il fiato per i narratori diurni. Possono abbandonarsi alla furia del temporale e dimenticarsi di ogni cosa, e per questo farsi invidiare

dai miei palazzi, possono costruirsi una casa con i ricordi e le prime foglie cadute. Dare rifugio ai fantasmi e respirare l’odore di terra bagnata che sale sino alle finestre. Così cullati dal rombo del tuono e illuminati dalla folgore più vicina, possono avviarsi dentro se stessi, pronti a cercare la strada che porti alla scoperta del non ovvio e del non banale. E trovare così insediate molto in fondo, quasi vicino al loro cuore, molte città che stanno nell’attesa di essere scoperte, molte case che devono essere costruite, molte storie che vogliono essere vissute prima che narrate.

In questo scorcio di secolo che ha la fortuna di non avere bisogno di eroi. In questo tempo che si sforza di essere normale senza rivelare mai quale sia la pietra di paragone, quale lo scandalo da tacere. Agosto è l’ultimo mese dell’anno, qui in città lo sanno tutti che è settembre il mese degli inizi, l’inizio dell’anno nuovo. Ad agosto resta tutta la rassegna delle malinconie inspiegate, dei ricordi luccicanti d’acqua, dei cambiamenti repentini di direzione. Caterina in agosto non va mai via, i suoi occhi sono i miei occhi, i suoi passi quelli che non potrò segnare mai. Le regalerò temporali e una storia nuova da raccontare.

lunedì 5 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/211: il cielo di ottobre sotto un ombrello rosso

 


Giro intorno a questo mese ancora nuovo, giro e non lo vedo poi così diverso da tutti i suoi fratelli ottobre che ho già incontrato. Ma com’erano quei mesi un tempo? Com’era ottobre prima che la pandemia divorasse il senso del futuro? Ecco la summa dei mesi che abbiamo conosciuto, qui nella città silenziosa e già ricoperta di foglie.

 

Ottobre, via Molino delle Armi (dove Milano parla ai suoi abitanti)

 

La notte sale come un lamento, ora fa buio presto. Proibito restare in cortile dopo le sei. A quell’ora i genitori che lavorano stanno per arrivare a casa. I bambini finiscono i compiti e poi sono di nuovo incollati davanti al televisore. È proprio autunno, lo si vede dalle foglie che giacciono avvizzite per le strade. Sono così numerose che gli spazzini fanno fatica a starci dietro. Sotto le scarpe è tutto uno scricchiolare. Una bambina sta girovagando sotto degli alberi di betulla. Sta cercando le foglie perfette, una simile all’altra nella forma, ma di colore digradante, così da poter illustrare la sua ricerca sull’autunno. Eccole, sono undici, sono proprio tutte uguali. La bambina torna in casa e le incolla con cura sul quaderno a quadretti grandi. In cucina sua madre sta cucendo un cappottino blu da bambino, tra poco le chiederà di provarlo. Con indosso il cappotto che non le appartiene, la bambina si chiederà chi è il bambino che lo indosserà al suo posto, se gli piace andare a scuola, che cartoni animati guarda in TV. In strada c’è qualcun altro che rovista, non tra le foglie secche, ma nei cestini della spazzatura. È un ragazzo i cui abiti hanno assunto un uniforme colore marrone. Porta i capelli lunghi e intrecciati, pronti per fare da nido ai passeri cittadini. Se esce un po’ di sole, si sentono ancora i loro cinguettii. Ma mancano le rondini e il cielo appare ancora più grande e vuoto. Il cielo di ottobre. Ha perduto ogni colore, è sempre bianco sporco per tutto il giorno e spesso lo è anche di notte. Un cielo bianco, a volte fa venire solo voglia di urlare. Ma le urla si perderebbero nel frastuono della città. Un cielo maledetto che ci tiene prigionieri, soffocati nell’abbraccio senza calore di questo agglomerato di case, dove il caso ci ha destinato. Poi finalmente tutto quel biancore cede alla forza delle nuvole d’autunno, piove. Piove sulle foglie secche e ne fa macero, piove sulle macchine che sembrano nuove. Piove, ma è una pioggia senza sollievo, perché solo altra pioggia seguirà. Le tane sono state preparate. Possono camminare i miei abitanti rasente ai muri e pensare solo al momento in cui chiuderanno la porta di casa dietro di sé. Come se in casa ci fosse qualcuno ad aspettarli, come se un tetto sopra la testa fosse un sollievo. Nel buio della casa vuota potranno raccontarsi che domani sarà diverso, che finiranno tutto quello che hanno iniziato. Che domani parleranno con la vecchia signora che incontrano tutte le mattine sul tram. Qualcuno si schianta sotto il peso di ottobre e si contorce nel letto vuoto. Strano, inconsueto, attacco di nostalgia, la nostalgia è compito di settembre, l’estate graffia ancora le gambe in settembre. Ma ottobre? Se fossero felici tutto brillerebbe nell’oro delle foglie cadute, nella calda intimità di una vita quotidiana con un senso anche se senza un fine. Attimi di felicità, quanti ne toccano in una vita, quanto tempo passeranno a rimpiangerli, dopo? Ma se fossero felici proprio in questo momento, anche la pioggia non sarebbe il devastante lamento di questa città che muore, schiacciata tra il cuore metallico delle auto in circolazione e quello freddo dei suoi abitanti distratti. Io muoio, lo sanno? Lo sentono che sto morendo con loro? Camminate sotto la pioggia, tenete a bada la malinconia. Ma ottobre ha bisogno di un ombrello rosso e di un amore sotto quell’ombrello. Gli amori scolastici nascevano in ottobre, lunghi percorsi dalla periferia verso la scuola a parlare della prossima interrogazione, gli occhi di lei che paiono smisurati e un desiderio di sentirle la bocca che sale dalle gambe fino alla testa. Iniziavano anche le occupazioni delle scuole in ottobre, ai tempi in cui trovare un lavoro non era una preoccupazione. Ai tempi in cui i vostri occhi avevano sguardi diversi su un mondo uguale. Erano occhi di sedicenni e ottobre il mese delle castagne arrosto mangiate per strada. Infaticabili nello stare il più lontano, per il più lungo tempo possibile, dalla scuola, a cronometrare le uscite dei genitori da casa e alle nove essere sicuri che fossero tutti al lavoro. Tornavate a casa di corsa senza farvi vedere dalla portinaia e passavate la mattina nel letto grande a fare l’amore. Poi vi facevate trovare alle sette di sera ancora insieme, chini sui libri e bofonchiare qualcosa sulla giornata passata a scuola, la complicità tenuta insieme dalle ginocchia unite sotto il tavolo della cucina. Vi davate un bacio sulla porta di casa e sentivate di avere un marchio stampato sulla fronte e le labbra: sono stata baciata tutto il giorno. Uscire di sera con la scuola era più difficile, meglio guardare un po’ di TV mangiando cioccolatini, fingendo coi vecchi che andasse tutto bene, chiudersi in camera a leggere Ungaretti e Montale, Rimbaud e Baudelaire, perdersi con lo sguardo oltre la finestra, le parole che vi danzavano sulla lingua. Ottobre, ottobre, il tuo nome come una pestilenza, come una malattia. Vagate miei prigionieri per le vie della città, insonni e immemori di ogni cosa, incapaci di ogni guarigione. Vedete negli occhi degli altri passanti la stessa malattia, lo stesso lamento da incurabili. Dell’essere vivi, prima di tutto, e abbandonati alla foga del destino. Rifugiatevi in un cinema e nel buio della sala sperate che all’uscita sia tornata l’estate. Inutile speranza, vano gioco da bambino. Tornate a casa e riascoltate la collezione completa dei Genesis, sulla canzone del carillon ricordare i capelli di lei buttati indietro nel momento del piacere. Svegliatevi di colpo e capite che non era un ricordo ma un sogno ad avervi afferrato la gola. Andate in cucina e mangiate gli avanzi di ieri. Sentitevi male al pensiero di dovere tornare in ufficio domani. Chiedetevi che cosa ne sarà stato di quella compagna di scuola. Poi guardate il calendario e contate quanti giorni mancano alla fine dell’anno. Buttate i giornali della settimana passata, bevete una birra anche se non è stagione. Ben tornato autunno, stagione della malinconia. Ben tornato in questa città dove l’estate passa come l’ombra di un sogno, dove non c’è sollievo a nessuna tristezza, dove perdersi e non trovarsi mai è la principale occupazione di chi, in questa città, dice di viverci e invece forse nemmeno ci respira. Ben tornato autunno, signore dal mantello grigio, ti combatterò con quell’ombrello rosso stretto tra le mani. Sarò sconfitta un’altra volta ancora, ma almeno saprò di non essermi arresa alla furia dell’inverno che si avvicina, in questa cartografia che non ho scelto ma che non riesco a modificare. In queste strade dove cerco con i miei occhi invecchiati, di rivedere i colori della mia adolescenza, del tempo in cui tutto ancora sembrava possibile. E forse lo era davvero.


Avete riconosciuto la vostra adolescenza in questo brano che racconta dei mesi di ottobre di un tempo lontano? Avete mai avuto nostalgia della vostra adolescenza? Io no. Io mai. Guardo avanti e con incrollabile cieca fiducia nel futuro mi dico che “il meglio deve ancora venire”.

 

Oggi è il primo lunedì del decimo mese dell’anno senza Carnevale. Il brano centrale è un capitolo del mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese. Per fortuna si è adolescenti solo una volta. “Il meglio deve ancora venire” è un verso di Robert Browning.


 


martedì 29 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/205: settembre è una cantilena, è il volo gentile delle foglie tra le braccia del vento

 Giornata quieta, prima fresca, poi calda. Molto da fare qui nella città silenziosa e anche nella Casa delle Parole. Lunghi dibattiti sul senso del nostro fare, su questo autunno incerto, sul mondo in bilico tra due mondi. Sui cambiamenti che stentano a manifestarsi, sulla tristezza che è il primo frutto di questo autunno, sulle foglie che cambiano colore e poi si schiantano.

Settembre è quasi finito, così ho deciso di salutarlo con un brano dal mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese che ancora oggi continua a raccontare con la sua stessa voce Milano, città che amo e amo sempre più. Non so se ho ancora nostalgia del mondo raccontato in quel capitolo che oggi, mi appare ancora più remoto. Ed è davvero remota, questa Milano che non esiste più se non nei nostri ricordi.

Settembre, al Molinetto del Lorenteggio

 

Il mese delle tane. Nell’aria si sente l’odore dell’inverno che si avvicina. Nelle strade risuonano i passi di chi sta cercando rifugio. Le albe arrivano piano, ammantate dalle prime foschie. Odore di bagnato, è questo che regalo a settembre. Fermarsi nell’autogrill al casello di Melegnano, annusare l’aroma forte della benzina, nei bagni dietro la stazione, quello acre di chi ha trascorso la notte viaggiando. Entrare nel bar e ordinare un caffè e un cappuccino, comprare il giornale, leggere i progetti nei visi stanchi degli altri viaggiatori. Tra poco saranno a Milano, le vacanze sono davvero finite. È questo l’inizio dell’anno nuovo. Rituali di un mondo in estinzione, si compiono di nuovo in questo inizio di mese. Riaprono le grandi fabbriche del nord, benché non si sappia fino a quando. L’aria già pesante si ispessisce ancora di più. Entrano gli operai, ormai invisibili nelle statistiche e nella nuova sociologia. Finito il lavoro, finita la fabbrica come luogo di creazione di identità. Finito il modello fordista, dicono. Chi lo viveva, quel modello, ne sentirà davvero la mancanza? Non credo, come si può sentire la mancanza di otto ore di schiena spezzata, a mettere insieme pezzi di oggetti destinati all’usura e in quei gesti consumare la propria vita? Ma almeno si poteva dire: sono un operaio dell’Alfa, della Breda, della Marelli, dell’Ansaldo. Ora sono un cassaintegrato, un pensionato, nessuno. Se non produco non sono nessuno, ecco la folla degli invisibili che sale, come un’onda di marea, per le vie deserte della città.

Tra poco riapriranno anche le scuole, il traffico lieviterà come un fungo impazzito, madri frettolose e padri distratti porteranno i figli sino al portone delle elementari. I negozi hanno cambiato di nuovo colori. Ora è tutto un apparire di zaini sgargianti quasi sempre più grandi dei bambini, di diari di eroi dei fumetti, uno in particolare dovrebbe traslocare a Milano, si chiama Dylan e qui in città lo leggono tutti. I suoi fantasmi, i suoi incubi, già ci abitano in questa città.

Riappaiono puntuali anche i venditori ambulanti, tanto dopo un po’ non ci si fa più caso. Riappaiono gli strilloni dei giornali di strada, sono tanti, anche se forse il più famoso è Terre di Mezzo. Le terre abitate dagli invisibili, da quelli che noi vorremmo non vedere. Ma ritornano, indisponenti come coscienze che non si arrendono allo spirito del tempo. Sono terre che i nostri passi rifiutano di calpestare, sono mondi che i nostri cuori rifiutano di conoscere. Ma sono una delle anime di questa città desolata che non spera in nessuna redenzione e cieca annega, nel lavoro e nelle apparenze, la sua umanità dolente. Ma se si ha questo piccolo coraggio, varcare quella soglia, quest’ora che pare avvolta in veli pesanti, può placare le inutili preoccupazioni delle notizie lette sui giornali, dei pettegolezzi variamente mascherati da attualità e cultura che infestano anche i pochi di buon senso. Ecco che uno squarcio si apre sul mondo degli invisibili, un varco in uno degli universi paralleli che popolano questa città. I più avventurosi, degli abitanti visibili della città, frequentano i ristoranti etnici che aumentano di giorno in giorno: eritrei, senegalesi, indiani. Qualcuno riesce anche a stupirsi della povertà di quelle cucine, meglio non andarci più di un paio di volte all'anno.

Ma queste porte sugli altri universi si chiudono tanto veloci quanto veloci si sono aperte. A nessuno è dato di abitare per più di qualche ora in un mondo che non gli appartiene.

Tutti tornano alla fabbrica, alla banca, all'ufficio, ai panini veloci, mangiati in piedi, tornano ai telefoni che squillano incessanti, tornano alle code serali del supermercato, all'aperitivo rubato prima di tornare a casa, allo sguardo prolungato di un collega nuovo che lavora al secondo piano. Se avessi un respiro sarebbe il respiro di un sofferente.

A settembre non piove quasi mai, a causa dell’ozono si sconsiglia a vecchi e bambini di uscire per strada. Ma uscire per strada, per fare cosa? Intrappolarsi in corso Vercelli o in Corso Buenos Aires a guardare i negozi, ecco che appaiono i primi vestiti invernali. Quest’anno ancora le scarpe con le punte quadrate, come quando eri bambina. Vedere tornare di moda capi d’abbigliamento di adolescenze e infanzie lontane, questo è segno dell’essere passati di moda. Grande intuizione e addio moda, tra poco cominciano le sfilate di non si sa mai quale futura stagione. Chissà se faremo vacanze l’anno che verrà. Cos’altro succede di questi tempi?

Escono i nuovi film nelle sale di prima visione, pare che ci sia più gente che in passato al cinema, soprattutto di pomeriggio. Escono mucchi di nuovi libri, è un po’ una rentrée, anche se di consistenza di molto inferiore a quella francese o americana. Questo preteso cosmopolitismo è la mia più evidente malattia che finisce con il far risaltare tutti i tratti da città di provincia che posseggo. Però riprendono anche le attività culturali, fioriscono le associazioni e questo è un tratto che della città piace, e non solo agli intellettuali.

Libreria Utopia, Casa della Cultura, Punto Rosso, Libreria delle Donne, Casa Zoiosa, Libera Università delle Donne. Ce ne sono tanti, ma non abbastanza per sfamare tutti i bisogni inconfessati dei divoratori di libri, degli affamati di idee. Ce ne sono più di quanti non si creda in questa strana città. Consumatori abituali di razioni massicce di parole stampate.

Leggere per essere altro da quel che si è, leggere per scoprire quel che si è, leggere per essere altrove, leggere per alzare gli occhi e non vedere intorno a sé solo palazzi e visi annoiati, ma scorgere la nuvola a forma di drago, i bambini che corrono tra passanti esausti, vecchi che giocano con i cani.

Ma è settembre, settembre, ripeterlo come una cantilena.

È settembre, le giornate si accorciano, gli amori finiscono. Meglio non innamorarsi a settembre, questi amori nascono difettosi, è raro che vadano oltre le lunghe nebbie dell’inverno.

Meglio prepararsi, preparare le tane, foderarle di libri e scorte contro il freddo e contro il buio. Chiudersi nelle proprie piccole malinconie, andare a letto presto la sera. Ma prima uscire a passeggiare poco dopo il tramonto, mentre i lampioni si illuminano e per un momento quasi impercettibile tutto si acquieta e io divento silenziosa. Poi tornare in casa, ascoltare Köln Concert di Jarret e respirare l’aria umida della sera incombente. Indossare abiti neri e prepararsi a una notte di festa, anche senza molta voglia di stare in mezzo alla gente.

 

Sì, è davvero tutto cambiato nella città dove vivo. Anche senza la pandemia le cose sono mutate, un po’ grazie all’Expo, molto a causa delle tecnologie e dei social. Come se quest’epoca di relazioni virtuali avesse scelto il Covid-19 come virus prediletto, per costringerci a stare lontani, a stare chiusi nelle nostre case.

 

Questa Cronaca 205 è molto sociologica e un po’ nostalgica e accompagna il ventinovesimo giorno di settembre dell’anno senza Carnevale. La foto l'ho scattata dal tram 12 qualche anno fa.

martedì 30 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/114: indovinare l’estate in un cortile del mondo, amore e solitudine, e vento


Salutiamo giugno che finisce e respiriamo la luce trasparente, le nuvole bizzarre, le onde piccole del nostro mare interiore.

In bilico tra la primavera e l’estate è un mese di delizie dove maturano le ciliegie, si consolidano gli amori, il mare ci chiama alle sue rive e le conversazioni procedono lente sdraiati tra la spiaggia e il porticato.

Il primo saluto è una poesia di Antonella Anedda:


giugno, notte

 

Si abbassa il cono della luce.
Presto sarà notte completa.
Guardo i corpi ardenti alle finestre
i gesti delle braccia confusi agli alberi d'estate.
Sarà notte tra poco. Qualcosa già comincia a velarsi
il tempo di passare a un'altra stanza
appena un po' più angusta
di cui ci fa soffrire solo l'angolo cupo di uno specchio.
Allora non le case o i volti
ma le ombre dei volti e delle case premeranno sui vetri
tremendi, incerti per annuncio o ricordo.
Diremo amore in un diverso spazio
e sarà sabbia la voce che trasmuta.

Eppure non è notte, amore - ancora non è notte.
È giugno -
      lento - di buio.


Proseguo la mia opera alla Sherazade con un frammento del mio primo romanzo.
La voce narrante è la città di Milano:


Giugno, Via Morigi


All’improvviso le giornate si sono allungate, le notti sono un respiro corto d’amante, le albe un frullare di canti e voli d’uccello.

È bello dormire poco nelle notti brevi dell’estate, io pure dormo poco e mi attardo volentieri nei cortili.

Ne scelgo uno nel quartiere Magenta, vicino a via Morigi, dove la strada svanisce come un sogno mattutino.

Il portone è alto, di legno scuro e massiccio, si entra solo con la chiave perché non esistono citofoni.

Il padrone del palazzo ha dimenticato di possederlo, il palazzo ha dimenticato di esistere e il tempo di trascorrere. Lampade fioche illuminano l’ingresso altissimo. La vecchia portinaia sonnecchia nella guardiola. Le cassette della posta sono vecchie e rose dai tarli e dal sale, più vecchie del palazzo stesso, perché il legno è stato recuperato da una nave affondata al largo di Genova e finito fin quassù con un vecchio marinaio che ha smesso di navigare. Lui pure vive in questa casa e ha quasi cent’anni, la sua memoria è la memoria del cortile. Ora che è così vecchio non esce più perché le scale sono una fatica insostenibile. Però non si sente prigioniero, ha una terrazza proprio all’ultimo piano e ogni primavera le rondini tornano a fare il nido sotto il suo tetto. La vista che si gode da lassù è incomparabile, ma questo non lo sa nessuno, perché un muro di piante cela la terrazza allo sguardo degli altri inquilini. Da lì, lui guarda a piacimento quel che succede in tutte le altre case. Le sue osservazioni sono facilitate dalla mancanza di persiane in molte finestre. Ciò è dovuto al fatto che un tempo la casa era il magazzino di una fabbrica di filati.

Le due terrazze gemelle del secondo piano sono in perenne gara, ogni estate, per quale delle due sarà la più fiorita. I proprietari hanno gusti diversi in fatto di fiori e questo rende ancora più bella la vista che il vecchio marinaio gode dalla sua postazione.

Nell’appartamento più grande vive un architetto dagli occhi di fuoco verde e azzurro che ha smesso di invecchiare. Nel cuore degli anni sessanta, quando si è trasferito a vivere in quella casa, non era solo. Il numero degli inquilini variava fra i tre e i quindici, a seconda dei periodi. Ora è rimasto l’unico abitante di quella grande casa sovraccarica di ricordi. Lui sembra non badarci e continua imperterrito a disegnare case che non costruirà mai e tavoli sui quali nessun banchetto verrà imbandito.

A volte l’architetto e il marinaio si parlano, uno affacciato alla finestra e l’altro alla terrazza, ma solo d’estate, perché il marinaio non sopporta il freddo umido dell’inverno. Nell’appartamento di fronte abita un pittore con la sua terza moglie e un numero
incredibile di tele accatastate.

Dipinge da trent’anni ma ama a tal punto le sue creazioni, da non essere mai riuscito a staccarsene e così non ne ha venduta neppure una. L’inverno scorso non aveva neppure i soldi per pagare le bollette e così, per scaldarsi, ha bruciato prima i mobili e poi le cornici dei quadri, utilizzando le stufe e i caminetti che prima non usava mai perché ha paura del fuoco. I soldi per la sopravvivenza gli arrivavano da collaborazioni con agenzie di pubblicità, ma in questo momento c’è molta crisi anche in questo settore, così stenta pure lui a tirare la fine del mese. Ma non per questo si metterà a vendere i suoi quadri, questo mai, meglio la fame.

All’ultimo piano di fronte al marinaio, vive una donna bellissima che canta e insegna musica. Non è raro, verso il tramonto, tornare a casa e sentire la sua voce cristallina che si alza verso il cielo. Anche le rondini tacciono al suono della sua voce. Il vecchio pensa che quello doveva essere il canto delle sirene che lui ha sempre sperato di incontrare e non ha veduto mai quando, da giovane, navigava.

Nell’ultimo appartamento, sullo stesso piano, vive un fotografo che è nato sotto altri cieli. Arriva da una terra lontana, separata dal resto del mondo da montagne altissime e da un oceano infinito. Porta nella sua voce un poco di quella solitudine estrema e con il suo sguardo abituato a terre sconfinate vaga per la città, cercando di svelare i misteri che si dice certo esistono. Ha già catturato visi di donne tormentate e giovani inconsapevoli, di vecchi dimenticati dal tempo, di bambini dallo sguardo pieno di futuro. Da tempo cerca di ritrarre anche la cantante, ma lei si nega, più per gioco che per reale avversione.

Al primo piano ha lo studio e l’abitazione anche un analista junghiano dai capelli ormai bianchi da lunghissimo tempo. Se le sue mura potessero parlare quante storie, quante leggende, quanti miti ricreati in questa città di misteri evidenti. Anche lui è stato sposato più di una volta, ma da quando è morta la sua ultima compagna, ha deciso che non è più tempo per lui di dedicarsi all’amore. Quando non riceve i clienti, passa il tempo a studiare e a scrivere il suo nuovo saggio. Peccato che l’esperienza degli uni non serva mai agli altri, ognuno deve scendere da solo nel suo inferno personale e ritrovare poi la via di uscita. E smarrire il senno vagando tra i sogni altrui, oltre che nei propri, è rischio che sa di avere corso tutta la vita. Ora che è vecchio non ne ha più paura, sa di sedere al centro di se stesso e in se stesso di avere trovato il proprio riposo e la propria ragione di essere al mondo. È grato a tutti quanti ha incontrato durante la sua lunga carriera. Ha imparato ad amare quelle donne e quegli uomini che gli hanno fatto dono della propria umana fragilità. Si sente retorico a volte, però è come se tutte le costellazioni ruotassero nel suo cuore e tutti i cieli fossero visibili attraverso i suoi occhi. Questo è il suo concetto di felicità terrena.

Accanto a lui abita, in una casa di libri e specchi, la rossa Caterina. Conosce tutti e tutti la conoscono, si ferma a fare chiacchiere per le scale e presta i libri a chi glieli chiede.

Il resto del piano è occupato da una sartoria teatrale gestita da due sorelle anch’esse anziane. Loro vivono e lavorano tra quelle mura quasi da quanto il vecchio marinaio. Non danno molta confidenza agli altri inquilini, ma sono simpatiche e cucinano torte indimenticabili.

Caterina si presta volentieri a indossare i costumi e a giocare alla bella dama dei tempi andati.

Non è facile entrare in questo cortile perché è uno dei luoghi dove ogni cosa palpita, respira ed è viva.

Altre storie si aggiungono a quelle degli abitanti del cortile, portate dallo sciamare degli amici della cantante e del fotografo che vanno e vengono per le scale, dai pazienti dell’analista, dagli attori che vanno a provare i costumi.

Il modo migliore per coglierle è predisporsi all’ascolto così come fa il vecchio gabbiere dalla sua terrazza invisibile nelle sere d’estate.

Bisogna dormire nel pomeriggio, per accumulare molta energia.

Poi ripescare dal frigorifero una bottiglia di vino bianco vivace, indossare abiti leggeri e telefonare all’uomo dagli occhi di fuoco dicendogli: “sto arrivando”.

In terrazza ci saranno sedie a sdraio e lettini, una tavola già pronta per la cena e qualche altro naufrago estivo che non ha lasciato la città.

A volte è possibile trovare, tra gli ospiti della terrazza, anche una poetessa che dice i suoi versi con gli occhi chiusi: “Indovinare l’estate in un cortile del mondo, amore e solitudine, e vento”.

Qui nascono poeti e invecchiano, scrivono di me in continuazione, io li osservo e gliene chiedo conto.

Su questa terrazza mi fermo stasera, la meraviglia sarà completa se il padrone di casa avrà molta voglia di raccontare. Si accenderanno le candele e la notte sarà chiara fino a molto tardi. L’uomo parlerà a lungo e tutti si lasceranno trascinare dalle sue parole. È estate, anche io, città malandata, lo so.

Da una delle terrazze un uomo si affaccia ad ascoltare la nuova storia. Ma per poco perché le ultime nuvole screziate di viola attirano il suo sguardo e irrimediabilmente lo trascinano via. Si chiama Roberto, è l’unico che ancora non conosce Caterina.



Ecco che ho svelato la mia passione per le storie affollate di personaggi.
I miei coinquilini pare abbiano apprezzato.

La notte scende, accendiamo le candele, prepariamo la tavola in riva al mare.
Sul filo dell’orizzonte un’enorme balena blu salta e si rovescia sulla schiena, riemerge, pare ci stia salutando.

Scegliete anche voi una storia o una poesia per salutare il mese a cavallo tra estate e primavera.



La poesia di Antonella Anedda è tratta da Notti di pace occidentale, Donzelli editore 2001

Il mio primo romanzo – la cui voce narrante è la città di Milano – si intitola Frammenti del tredicesimo mese, Atì editore 2007.

Il titolo di questa cronaca 114 è un verso della poetessa Anna Lamberti Bocconi.

Le terrazze di questa Cronaca appartengono a palazzi di Via Morigi e Via San Marco. Soprattutto appartengono a un’altra epoca.

venerdì 19 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/103: il coro dei cori di nuvole, stelle e pensieri


Cosa pensano le stelle, ve lo siete mai chiesto? Cosa pensa l’ulivo millenario in fondo al campo e cosa la quercia altrettanto vasta e silenziosa?

Come possiamo chiedere alle stelle, all'ulivo e alla quercia quali pensieri assedino luce e lontananza, corteccia e radice?

Cosa ci risponderebbe il vento se parlassimo la sua lingua di ostacoli e aria?

Cosa ci risponde il mare che interroghiamo a ogni onda che tocca la riva?

Sono sdraiata sulla mia spiaggia preferita, reale o immaginaria, poco importa.

Lascio in pace le onde piccole di questo ultimo pomeriggio di primavera, non disturbo il vento e il sole. Mi concentro sulle nuvole di cui ho scritto in un romanzo di qualche tempo fa:

“Oggi ho visto Dio, è un enorme ragno dalla pancia azzurra che se ne sta appeso sopra le nostre teste. A dire il vero non è dalla pancia azzurra che ho capito il suo essere divino, né da qualche particolare anatomico, solo ho intuito il suo essere ragno. (…)
Le nuvole, ora ricordo, ora so, ho capito. Quel primo mattino in cui ho intuito la presenza di Dio, parecchie nuvole inframmezzavano la perfezione della sua pancia azzurra. Le nuvole sono la sua tela di ragno e, non avendo Dio una voce umana da farmi ascoltare, è con le nuvole che mi sta parlando. Le nuvole sono la sua lingua, le bianche meravigliose nuvole di questa mattina piena di sensi e significati nuovi. Ma cosa dicono due nuvole piccine che si disperdono in rivoli di vapore, prima ancora di essere arrivate abbastanza in alto per poter essere straziate dal sole?”.

Se le nuvole sono la lingua di Dio, in questo mese di giugno che si avvia alla fine, Dio ha avuto davvero molto da dire. Non c’è stato un solo pomeriggio che non sia stato oscurato da una moltitudine di nuvole come ne ho viste, forse, solo in Norvegia e Irlanda, lì dove le nuvole nascono.

Ma non voglio considerare gli elementi come mezzi di un pensiero altrui.

Dunque, cosa pensano le nuvole?


Corro, corro, cado, pioggia
e temporale, corro, mi schianto,
respiro, il vento mi strappa,
il vento mi avvolge, nera,
sono nera, mi alzo, non vedo
più la terra, la pioggia,
la pioggia, cade, mi fa male
quando cade. Finisce,
finisce il temporale, ritorno
nel vento, evaporo, svanisco.


Provate a moltiplicare questa voce per tutte le nuvole che vedete in cielo. Questo è un coro che canta all'unisono anche se ogni nuvola ha una sua voce singolare.

Facile dare voce alle nuvole che, in fin dei conti, sono vicine.

Ma le stelle? Cosa pensano le stelle? Le distanze tra noi e le stelle sono infinite, impensabili nell'ordine di grandezza di una vita e di un pensiero umano.

Come le nuvole pensano al singolare, come le nuvole si avvicinano a noi in un coro.

Giro, giro e non mi fermo,
dall'esplosione primordiale fino
alla fine dell’eternità, continuerò
a girare e mai potrò guardarmi
indietro. La mia luce vive in uno
spazio che non mi appartiene,
mi guardate voi da laggiù? E cosa
vedete se non la luce fredda della
mia passione? Ricambio la vostra
devozione indicandovi la strada,
suscitando l’inguaribile nostalgia,
per ciò che non siete stati. Nel
buio illumino il desiderio degli
amanti, incorono la regina della
notte e il suo adorato re. Mi
guardate ancora? Guardate
anche stasera quando sorgo
poco dopo la fine della luce
vera.


Ecco che nel coro delle nuvole e delle stelle sentiamo spirare il coro del vento.

Il vento ha voce, lo sappiamo, il vento ha anche forma e anche questo sappiamo.

E tutte queste voci si intrecciano quassù, prima sul mare e poi sull'Altipiano.

Sono voci che portano pensieri immaginari e reali. Sono i nostri pensieri a dare voce agli elementi, a credere che la nostra voce basti a dare voce al creato.

Sono lunghi e brillanti tutti questi pensieri degli elementi, come diamo voce e pensiero al vento, lo stesso facciamo con la rosa e il temporale.

Solo quando la pioggia è finita, vediamo la rosa risplendere ancora più vera.

Da quaggiù, un punto infinitesimale dell’unico universo di cui abbiamo certezza, vi saluto in compagnia delle rose che cantano al vento il loro amore e a me offrono la bellezza fragile di ogni desiderio celeste e terrestre.

Vorrei avere mani piccole per sfiorare le rose e uno sguardo acuto per coglierne il colore.

Ma tutto quello che ho sono le parole, queste parole, le mie parole.

Nient’altro, non più.

Dopo il temporale e le rose sfiorite, resta il racconto di chi le ha vedute.


* La citazione è tratta dal capitolo La pancia azzurra dio Dio del mio romanzo Frammenti del tredicesimo mese. Atì editore 2007.
**Le due poesie le ho scritte per questa Cronaca 103.

domenica 18 settembre 2016

Settembre, al Molinetto del Lorenteggio

Il mese delle tane. Nell’aria si sente l’odore dell’inverno che si avvicina. Nelle strade risuonano i passi di chi sta cercando rifugio. Le albe arrivano piano, ammantate dalle prime foschie. Odore di bagnato, è questo che regalo a settembre. Fermarsi nell’autogrill al casello di Melegnano, annusare l’aroma forte della benzina, nei bagni dietro la stazione, quello acre di chi ha trascorso la notte viaggiando. Entrare nel bar e ordinare un caffè e un cappuccino, comprare il giornale, leggere i progetti nei visi stanchi degli altri viaggiatori. Tra poco saranno a Milano, le vacanze sono davvero finite. È questo l’inizio dell’anno nuovo. Rituali di un mondo in estinzione, si compiono di nuovo in questi inizio di mese. Riaprono le grandi fabbriche del nord, benché non si sappia fino a quando. L’aria già pesante si ispessisce ancora di più. Entrano gli operai, ormai
invisibili nelle statistiche e nella nuova sociologia. Finito il lavoro, finita la fabbrica come luogo di creazione di identità. Finito il modello fordista, dicono. Chi lo viveva, quel modello, ne sentirà davvero la mancanza? Non credo, come si può sentire la mancanza di otto ore di schiena spezzata, a mettere insieme pezzi di oggetti destinati all’usura e in quei gesti consumare la propria vita? Ma almeno si poteva dire: sono un operaio dell’Alfa, della Breda, della Marelli, dell’Ansaldo. Ora sono un cassaintegrato, un pensionato, nessuno. Se non produco non sono nessuno, ecco la folla degli invisibili che sale, come un’onda di marea, per le vie deserte della città. Tra poco riapriranno anche le scuole, il traffico lieviterà come un fungo impazzito, madri frettolose e padri distratti porteranno i figli sino al portone delle elementari. I negozi hanno cambiato di nuovo colori. Ora è tutto un apparire di zaini sgargianti quasi sempre più grandi
dei bambini, di diari di eroi dei fumetti, uno in particolare dovrebbe traslocare a Milano, si chiama Dylan e qui in città lo leggono tutti. I suoi fantasmi, i suoi incubi, già ci abitano in questa città. Riappaiono puntuali anche i venditori ambulanti, tanto dopo un po’ non ci si fa più caso. Riappaiono gli strilloni dei giornali di strada, sono tanti, anche se forse il più famoso è Terre di Mezzo. Le terre abitate dagli invisibili, da quelli che noi vorremmo non vedere.
Ma ritornano, indisponenti come coscienze che non si arrendono allo spirito del tempo. Sono terre che i nostri passi rifiutano di calpestare, sono mondi che i nostri cuori rifiutano di conoscere. Ma sono una delle anime di questa città desolata che non spera in nessuna redenzione e cieca annega, nel lavoro e nelle apparenze, la sua umanità dolente. Ma se si ha questo piccolo coraggio, varcare quella soglia, quest’ora che pare avvolta in veli pesanti, può
placare le inutili preoccupazioni delle notizie lette sui giornali, dei pettegolezzi variamente mascherati da attualità e cultura che infestano anche i pochi di buon senso. Ecco che uno squarcio si apre sul mondo degli invisibili, un varco in uno degli universi paralleli che popolano questa città. I più avventurosi, degli abitanti visibili della città, frequentano i ristoranti etnici che aumentano di giorno in giorno: eritrei, senegalesi, indiani. Qualcuno riesce anche a stupirsi della povertà di quelle cucine, meglio non andarci più di un paio di volte all'anno.
Ma queste porte sugli altri universi si chiudono tanto veloci quanto veloci si sono aperte. A nessuno è dato di abitare per più di qualche ora in un mondo che non gli appartiene.
Tutti tornano alla fabbrica, alla banca, all'ufficio, ai panini veloci, mangiati in piedi, tornano ai telefoni che squillano incessanti, tornano alle code serali del supermercato, all'aperitivo rubato prima di tornare a casa, allo sguardo prolungato di un collega nuovo che lavora al secondo piano. Se avessi un respiro sarebbe il respiro di un sofferente.
A settembre non piove quasi mai, a causa dell’ozono si sconsiglia a vecchi e bambini di uscire per strada. Ma uscire di strada per fare cosa? Intrappolarsi in corso Vercelli o in Corso Buenos Aires a guardare i negozi, ecco che appaiono i primi vestiti invernali. Quest’anno ancora le scarpe con le punte quadrate, come quando eri bambina. Vedere tornare di moda capi d’abbigliamento di adolescenze e infanzie lontane, questo è segno dell’essere passati di moda. Grande intuizione e addio moda, tra poco cominciano le sfilate di non si sa mai quale futura stagione. Chissà se faremo vacanze l’anno che verrà. Cos’altro succede di questi tempi?
Escono i nuovi film nelle sale di prima visione, pare che ci sia più gente che in passato al cinema, soprattutto di pomeriggio. Escono mucchi di nuovi libri, è un po’ una rentrée, anche se di consistenza di molto inferiore a quella francese o americana. Questo preteso cosmopolitismo è la mia più evidente malattia che finisce con il far risaltare tutti i tratti da città di provincia che posseggo. Però riprendono anche le attività culturali, fioriscono le associazioni e questo è un tratto che della città piace, e non solo agli intellettuali.
Libreria Utopia, Casa della Cultura, Punto Rosso, Libreria delle Donne, Casa Zoiosa, Libera Università delle Donne. Ce ne sono tanti, ma non abbastanza per sfamare tutti i bisogni inconfessati dei divoratori di libri, degli affamati di idee. Ce ne sono più di quanti non si creda in questa strana città. Consumatori abituali di razioni massicce di parole stampate.
Leggere per essere altro da quel che si è, leggere per scoprire quel che si è, leggere per essere altrove, leggere per alzare gli occhi e non vedere intorno a sé solo palazzi e visi annoiati, ma scorgere la nuvola a forma di drago, i bambini che corrono tra passanti esausti, vecchi
che giocano con i cani. Ma è settembre, settembre, ripeterlo come una cantilena.
È settembre, le giornate si accorciano, gli amori finiscono. Meglio non innamorarsi a settembre, questi amori nascono difettosi, è raro che vadano oltre le lunghe nebbie dell’inverno.
Meglio prepararsi, preparare le tane, foderarle di libri e scorte contro il freddo e contro il buio. Chiudersi nelle proprie piccole malinconie, andare a letto presto la sera. Ma prima uscire a passeggiare poco dopo il tramonto, mentre i lampioni si illuminano e per un momento quasi impercettibile tutto si acquieta e io divento silenziosa. Poi tornare in casa, ascoltare Köln Concert di Jarret e respirare l’aria umida della sera incombente. Indossare abiti neri e prepararsi a una notte di festa, anche senza molta voglia di stare in mezzo alla gente.


Elena Petrassi
Frammenti del tredicesimo mese
Atì editore 2007

martedì 30 giugno 2015

ogni frammento è sempre più grande del tutto

credevo che il viaggio frammentasse
e che tornare ricomponesse la memoria
un semplice andata e ritorno è bastato
per farmi dimenticare che ogni frammento
è sempre più grande del tutto

Jean Portante
Aperto Chiuso
Euroma 1994

mercoledì 17 settembre 2014

Scrivere è la costruzione lenta e laboriosa di un'immagine del mondo

Ancora prima di accennare ai suoi argomenti, mi sembra che La sposa di Mauro Covacich (Bompiani) sia un libro da lodare per come è stato concepito dal punto di vista formale. Purtroppo, si parla sempre meno di questi aspetti, per così dire, artigianali e di bottega della scrittura, che invece sono sempre interessanti e rivelatori. Tendiamo spesso a dimenticare che la letteratura per essere efficace è un’opera d’arte, la costruzione lenta e laboriosa di un’immagine del mondo, e non semplicemente una serie di argomenti, di storie più o meno ben scritte.
Ebbene, l’esperimento tentato da Covacich, in questo suo ultimo libro, è molto
ben riuscito. 
La strada scelta è quella di un discorso narrativo che è a metà strada fra la raccolta di racconti e il romanzo
Utilizzando con intelligenza un vecchio trucco (i vecchi trucchi sono i soli che funzionano), Covacich ha costruito un libro di storie autonome, ma legate tra loro da fili sottili e tenaci, così che il protagonista di un racconto può apparire sullo sfondo di un altro, dando all'insieme un effetto di realtà unicaconsiderata da vari punti di vista.
Lo scopo dichiarato dell’autore non è però quello di aggredire la famigerata «realtà » in quanto tale, ma di dare un certo ordine e un certo significato a un «flusso di pensieri sul presente». 
Anche se è una confusione facile e quasi naturale, non dobbiamo mai confondere l’interesse per il presente e quello per la realtà. 
Così come la realtà genera molti tentativi di realismo artistico,
così l’idea del presente ispira qualcosa che, per analogia, potremmo definire
«presentismo». 
Ma non è che il presente sia più facile da rappresentare della
realtà. Lo scrittore spronato da questo interesse è sempre costretto a confrontarsi con la natura più intima e reale del presente, che è quello di essere effimero, e quasi privo di sostanza, prossimo all'illusione.

Le storie autonome legate tra loro da fili sottili e tenaci sono la mia passione, il mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese l'ho scritto usando questo "vecchio trucco".

Dal Corriere della Sera sabato 13 settembre 2014 questo è l'incipit della recensione di Emanuele Trevi al nuovo romanzo di 
Mauro Covacich
La sposa
Bompiani 2012