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mercoledì 6 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/59: una parola è notte, l’altra solo sogno


Nessun giorno è uguale a un altro, nessun mattino annuncia le stesse ore.

Il bello dell’infanzia e della gioventù è che non bisogna impegnarsi per scoprire tutte le cose nuove che ogni giorno offre.

Poi inizia il tempo della ripetizione, il tempo del disincanto, il tempo della disillusione.

Il mondo sembra un’eterna ripetizione, la noia è in agguato all’angolo di ogni ora.

Ma poi, poi accade che guardandoli meglio quegli angoli sono uno diverso dall’altro e scavano giù verso il centro della terra, e si elevano verso il cielo e oltrepassano le nuvole.

Come può avvenire questo cambio di prospettiva in questo tempo blindato, in quest’aria respirata attraverso un tessuto, in queste notti che si chiamano insonnia e in questi giorni che si chiamano lontananza?

Passeggio nella brughiera verso le Montagne della Nebbia e rifletto sulle mie parole, ma cosa sono le mie parole in questo mondo innaturale, in questa terra di nessuno che sta aspettando solo che qualcuno inizi a dargli forma e colore?

Come sempre le domande si moltiplicano e le risposte arrivano intessute di poesia:


Ora canta di nuovo il mio fiume interiore,
e un limpido vento spira da fresche terre notturne,
in cui vette azzurre di sogno si rispecchiano
in altri mari.

Ma cosa sono le mie parole?
Un bosco piegato dalla tempesta
verso il nord,
barriere di montagne
contro il devastante
fuoco del giorno.


Le mie barriere sono queste montagne di nebbia, qui sull'altipiano riesco a sopportare le maschere e il tempo blindato e il fuoco del giorno che vorrebbe bruciare ogni cosa perché stenta a trovare un senso e un significato.

Ognuno si ingegna come può, i lupi sono guidati dalla loro indole lupesca, giocano, corrono, cacciano, si rifugiano nella loro tana piena dei fiori che sono rimasti intrappolati nelle loro pellicce.

La sacerdotessa vaga tra il bosco e la brughiera cercando erbe e levando al cielo implorazioni e preghiere per quelli che sono e per quelli che verranno.

Il re è sempre in attesa della sua regina e le scrive lettere d’amore infuocate che poi affida al vento, perché lei è ancora al di là delle Montagne della Nebbia e nessuno sa quando sarà il giorno in cui la vedremo arrivare.

Il poeta esce di rado e si arrabbia spesso per questo mondo di poche sillabe e troppe buone intenzioni che si disperdono nel pulviscolo animato dalla luce.

Poi ci sono io, la narratrice, a volta poetessa, a volte invisibile testimone dei tempi nuovi che arrivano. Annoto i minimi cambiamenti, conto le nuvole e le rondini, accarezzo gli alberi e i lupi, rassicuro i piangenti e gli insonni.

C’è sempre un modo per non darsi in pasto alla disperazione, se le risorse che abbiamo in noi scarseggiano ci sono la poesia e la musica, la notte e l’amore, i lupi che giocano e nuovi libri da studiare.

Bisogna cercare ogni mattina il bello del mondo.

A volte basta andare molto indietro nel tempo e in compagnia di un poeta del Novecento, il mio secolo, il secolo che è davvero morto con questa clausura e rivolgersi a chi, tra i primi ha colto la natura delle cose:


Lucrezio lo sapeva:
Apri il baule,
vedrai, è colmo di neve
che turbina
e a volte due fiocchi
s’incontrano, unendosi
oppure uno si volta, graziosamente
nella sua poca morte.
Di dove quel chiarore
in alcune parole
quando l’una non è che notte,
l’altra, solo sogno?
Di queste due ombre
che, ridendo, vanno
e l’una raggomitolata
in una lana rossa?


Lucrèce le savait:
Ouvre le coffre,
Tu verras, il est plein de neige
Qui tourbillonne.
Et parfois deux flocons
Se rencontrent, s’unissent,
Ou bien l’un se détourne, gracieusement
Dans son peu de mort.
D’où vient qu’il fasse clair
Dans quelques mots
Quand l’un n’est que la nuit,
L’autre, qu’un rêve?
D’où viennent ces deux ombres
Qui vont, riant,
Et l’une emmitouflée
D’une laine rouge?


Se una parola è notte e l’altra solo sogno, insieme come diranno la nostra inquietudine?

A quali parole intessute di luce daranno vita quando lasceranno che l’oscurità si ritiri oltre le montagne?

Una parola sarà giorno e l’altra solo attesa.

Una parola sarà luce e l’altra la nostra pazienza.

Una parola sarà amore e l’altra il tuo nome.


La prima poesia Ma cosa sono le mie parole è di Olav H. Hauge, tratta da
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

La seconda poesia è De natura rerum di Yves Bonnefoy, tratta da
Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve 

traduzione di Davide Bracaglia
Einaudi 2001

giovedì 16 marzo 2017

Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.

Nell'inganno delle parole
I
È il sonno d’estate quest’anno ancora,
L’oro che chiediamo, dal fondo delle nostre voci,
Alla trasmutazione dei metalli del sogno.
Il grappolo delle montagne, delle cose vicine,
È maturato, è quasi il vino, la terra
È il seno nudo in cui la nostra vita riposa.
E respiri ci circondano, ci accolgono,
Come la notte d’estate, che non ha rive,
Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.
Amica mia, è qui nuovo cielo, nuova terra,
Un fumo incontra un fumo
Al di sopra della disgiunzione dei due bracci del fiume.
E l’usignolo canta una volta ancora
Prima che il nostro sogno ci prenda,
Ha cantato quando s’addormentava Ulisse
Nell’isola in cui faceva tappa la sua erranza,
E anche chi arrivava acconsentì al sogno,
Fu come un brivido della sua memoria
Per l’intero suo braccio d’esistenza sulla terra
Che aveva ripiegato sotto la sua testa stanca.
Penso che respirò d’un fiato eguale
Sul giaciglio del suo piacere poi del riposo,
Ma Venere nel cielo, la prima stella,
Volgeva già la prua, benché esitante,
Verso l’alto mare, sotto nubi,
Poi derivava, barca il cui vogatore
Avesse dimenticato, gli occhi ad altre luci,
D’immergere di nuovo il remo nella notte.
E per la grazia di quel sogno cosa vide?
Che fosse la linea bassa di una riva
Ove sarebbero state chiare delle ombre, chiara la loro notte
A causa di fuochi altri da quelli che ardono
Nelle nebbie delle nostre domande, successive
Durante la nostra avanzata nel sonno?
Siamo navi grevi di noi stessi,
Traboccanti di cose chiuse, guardiamo
Alla prua del nostro periplo tutta un’acqua nera
Aprirsi quasi e ritrarsi, per sempre senza lido.
Lui comunque, nelle pieghe del canto triste
Dell’usignolo dell’isola casuale,
Pensava già a riprendere il suo remo
Una sera, quando sarebbe sbiancata di nuovo la schiuma,
Per dimenticare forse tutte le isole
Su un mare in cui cresce una stella.
Andare così, con lo stesso oriente
Al di là delle immagini ciascuna delle quali
Ci lascia alla febbre del desiderare,
Andare fiduciosi, perderci, riconoscerci
Attraverso la bellezza dei ricordi
E la menzogna dei ricordi, attraverso il tormento
Di alcuni, ma anche la felicità
D’altri, il cui fuoco corre nel passato in cenere,
Nube rossa in piedi al frangente delle spiagge,
O delizia dei frutti che non abbiamo più,
Andare, per l’al di là quasi del linguaggio,
Con soltanto un po’ di luce, è possibile
O non è altro che l’illusorio ancora,
Di cui ridisegniamo sotto altri tratti
Ma iridati dello stesso ingannevole bagliore
La forma nelle ombre che si condensano?
Ovunque in noi soltanto l’umile menzogna
Delle parole che offrono più di quel che è
O dicono cosa altra da quel che è,
Le sere non tanto della bellezza che tarda
A lasciare una terra che ha amato,
Plasmandola con le sue mani di luce,
Quanto della massa d’acqua che di notte in notte
Precipita con gran fragore nel nostro avvenire.
Noi mettiamo i nostri piedi nudi nell'acqua del sogno
È tiepida, non sappiamo se sia un risveglio
O se la folgore lenta e calma del sonno
Già tracci i suoi segni in rami
Che un’inquietudine scuote, poi è troppo scuro
Perché vi si riconoscano figure
Che questi alberi scostano, davanti ai nostri passi.
Noi avanziamo, l’acqua sale alle nostre caviglie,
O sogno della notte, prendi quello del giorno
Nelle tue mani amorose, volgi verso te
La sua fronte, i suoi occhi, ottieni con dolcezza
Che il suo sguardo si fonda al tuo, più saggio,
Per un sapere che non laceri più
La disputa tra il mondo e la speranza,
E che unità prenda e conservi la vita
Nella quiete della schiuma, dove si riflette,
Sia bellezza, nuovamente, sia verità, le stesse
Stelle che s’accrescono nel sonno.
Bellezza, sufficiente bellezza, bellezza estrema
Delle stelle senza significato, senza movimento.
A poppa sta il nocchiero, più grande del mondo,
Più nero, ma di un’opacità fosforescente.
Il lieve sciacquio dell’acqua appena agitata,
Si fa presto silenzio. E non sappiamo ancora
Se è un nuovo lido, o lo stesso mondo
Che nelle pieghe febbrili del letto terrestre,
Questa sabbia che sentiamo stridere sotto la prua.
Non sappiamo se approdiamo a un’altra terra,
Non sappiamo se mani non si tendano
Dal grembo dell’ignoto accogliente per afferrare
La corda che lanciamo, dalla nostra notte.
E domani, al risveglio,
Forse le nostre vite saranno più fiduciose
In cui voci e ombre indugeranno,
Ma distolte, calme, disattente,
Senza guerra, senza rimprovero, mentre
Il bambino accanto a noi, sul sentiero,
Scuoterà ridendo la sua testa immensa,
Guardandoci con la goffaggine
Della mente che riprende alla sua origine
Il suo compito di luce nell’enigma.
Sa ancora ridere,
Ha afferrato nel cielo un grappolo troppo greve,
Lo vediamo portarlo via nella notte.
Il vendemmiatore, colui che forse coglie
Altri grappoli lassù nell’avvenire,
Lo guarda passare, benché senza volto.
Affidiamolo alla benevolenza della sera d’estate,
Addormentiamoci…
… La voce che ascolto si perde,
Il rumore di fondo che è nella notte la copre.
Le assi della prua, incurvate
Per dar forma alla mente sotto il peso
Dell’ignoto, dell’impensabile, si allentano.
Che mi dicono questi scricchiolii, che spezzano
I pensieri attestati dalla speranza?
Ma il sonno si fa indifferenza.
Le sue luci, le sue ombre: più nient’altro che
Un’onda che s’infrange sul desiderio.
II
E potrei
Fra poco, al sussulto del brusco risveglio,
Dire o tentare di dire il tumulto
Degli artigli e delle risa che si scontrano
Con l’avidità senza gioia delle vite primarie
Al bordo sconnesso della parola.
Potrei gridare che ovunque sulla terra
Ingiustizia e sciagura devastano il senso
Che la mente ha sognato di dare al mondo,
Insomma, ricordarmi di ciò che è,
Non essere che la lucidità che dispera
E, benché sia ritorta
Ai rami del giardino di Armida la chimera
Che inganna la ragione quanto il sogno,
Abbandonare le parole a chi cancella,
Prosa, per evidenza della materia,
L’offerta della bellezza nella verità,
Ma mi sembra anche che non sia reale
Che la voce che spera, fosse essa
Inconsapevole delle leggi che la negano.
Reale, solo, il fremito della mano che tocca
La promessa di un’altra, reali, sole,
Queste barriere che spingiamo nella penombra,
Quando si fa sera, di un sentiero di ritorno.
So tutto quello che occorre cancellare dal libro,
Una parola comunque resta a bruciarmi le labbra.
O poesia,
Non posso impedirmi di chiamarti
Con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
Oggi tra le rovine della parola.
Oso rivolgermi a te, direttamente,
Come nell’eloquenza delle epoche
In cui si ponevano, alla vigilia dei giorni di festa,
In cima alle colonne dei saloni,
Ghirlande di foglie e di frutti.
Lo faccio, confidando che la memoria,
Insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
Di far essere il senso malgrado l’enigma,
Farà decifrare loro, sulle sue grandi pagine,
Il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
In silenzio, un fuoco chiaro,
I sarmenti dei loro dubbi e delle loro paure.
«Guardate, lei dirà, nel solo libro
Che si scriva attraverso i secoli, vedete crescere
I segni nelle immagini. E le montagne
Inazzurrarsi in lontananza, per essere a voi terra.
Ascoltate la musica che delucida
Con il flauto sapiente alla vetta delle cose
Il suono del colore in ciò che è.»
O poesia,
Io so che ti disprezzano e ti negano,
Che ti considerano un teatro, perfino una menzogna,
Che ti gravano delle colpe del linguaggio,
Che dicono infetta l’acqua che tu porti
A quelli che tuttavia desiderano bere
E delusi si allontanano, verso la morte.
Ed è vero che la notte gonfia le parole,
Venti girano le loro pagine, fuochi sfiancano
Le loro bestie atterrite fin sotto ai nostri passi.
Abbiamo creduto che ci avrebbe condotto lontano
Il sentiero che si perde nell'evidenza,
No, le immagini cozzano contro l’acqua che sale,
La loro sintassi è incoerenza, cenere,
E presto nemmeno vi sono più immagini,
Più libro, più grande corpo caloroso del mondo
Che stringa le braccia del nostro desiderio.
Ma so comunque che non esiste altra stella
Che si muova, misteriosamente, auguralmente,
Nel cielo illusorio degli astri fissi,
Se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre
Si raggruppano a prua, e perfino cantano
Come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva
Davanti a loro, alla fine del lungo viaggio,
La terra nella schiuma, e brillava il faro.
E se rimane
Altro che un vento, uno scoglio, un mare,
Io so che tu sarai, anche di notte,
L'ancora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia,
E la legna raccolta, e la scintilla
Sotto i rami umidi, e, nell'inquieta
Attesa della fiamma che esita,
La prima parola dopo il lungo silenzio,
Il primo fuoco che prenda in fondo al mondo morto.


Yves Bonnefoy
Le assi curve
in L’opera poetica
traduzione di Fabio Scotto
I Meridiani 
Mondadori 2010

lunedì 23 marzo 2015

Per disfarsi dell'albero e del mare

Le dita, è vero, erano contratte,
Era come se fossero memoria,
Bisognò dissuggellare le meste forze vigilanti
Per disfarsi dell'albero e del mare.

Yves Bonnefoy
Ieri deserto regnante

traduzione di Diana Grange Fiori
Guanda 2005

Hier Régnant Désert

Mercure de France 1958


Il y a que les doigts s'étaient crispés,
Ils tenaient lieu de mémoire,
Il a fallu desceller les tristes forces gardiennes
Pour jeter l'arbre e la mer.

giovedì 19 marzo 2015

Le molte parole che noi fummo insieme

Una pietra

Il giorno in fondo al giorno salverà
Le molte parole che noi fummo insieme?
Quanto a me, ho tanto amato quei giorni fiduciosi, veglio
Su qualche parola spenta nel camino dei nostri cuori

Yves Bonnefoy
Pietra scritta
traduzione di Diana Grange Fiori
(tranne l'ultimo verso che ho ritradotto)
Guanda 2005


Une pierre
Le jour au fond du jour sauvera-t-il
Le peu de mots que nous fûmes ensemble ?
Pour moi, j'ai tant aimé ces jours confiants, je veille
Sur quelques mots éteints dans l'âtre de nos coeur.

lunedì 9 marzo 2015

La stella sulla soglia. Il vento chiuso

Il paese scoperto

La stella sulla soglia. Il vento, chiuso
Fra le immobili mani della morte.
Vento e parola furono lunga lotta,
Poi venne il silenzio nella calma del vento.

Il paese scoperto era di pietra grigia.
Lontano giaceva, basso, il lampo di un non fiume.
Ma le piogge notturne sull'attònita terra
Destarono l'ardore che tu chiami tempo.

Yves Bonnefoy
Ieri deserto regnante

traduzione di Diana Grange Fiori
Guanda 2005

Hier Régnant Désert

Mercure de France 1958


Le pays découvert

L'étoile sur le seuil. Le vent, tenu
Dans les mains immobiles de la mort.
La parole et le vent furent de longue lutte,
Puis le silence vint dans la calme du vent.

Le pays découvert était de pierre grise. 
Très bas, très loin gisait l'éclair d'un fleuve nul. 
Mais les pluies de la nuit sur la terre surprise 
Ont réveillé l'ardeur que tu nommes le temps.

venerdì 6 marzo 2015

Verità di parola e verità di vento

Minacce del testimone

I

Che volevi erigere su questo desco,
Se non il doppio fuoco della nostra morte?
Ho avuto paura,
Ho distrutto in questo mondo il desco
Rossastro e nudo, in cui si dichiara il vento morto.

E poi sono invecchiato.
Verità di parola e verità di vento
Non combattono più, là fuori.
Si è ritirato il fuoco, ed era la mia chiesa.
Non ho più neanche paura ormai, non dormo.

Yves Bonnefoy
Ieri deserto regnante
traduzione di Diana Grange Fiori
Guanda 2005

Hier Régnant Désert
Mercure de France 1958

Menacés du témoin

I

Que voulais-tu dresser sur cette table,, 
Sinon le double feu de notre mort ? 
J'ai eu peur, j'ai détruit dans ce monde la table 
Rougeàtre et nue, où se déclare le vent mort.

Puis j'ai vieilli. Dehors, vérité de parole 
Et vérité de vent ont cessé leur combat. 
Le feu s'est retiré, qui était mon église. 
Je n'ai même plus peur, je ne dors pas.

giovedì 5 marzo 2015

La pioggia e la lucerna

Una pietra

Scendi, ma dolce pioggia, sul viso.
Spegni, ma lentamente, la ben povera lucerna.

Yves Bonnefoy
Pietra scritta
traduzione di Diana Grange Fiori
Guanda 2005

venerdì 13 febbraio 2015

Sulle rovine di un cielo immenso

Così cammineremo sui ruderi di un cielo immenso,
Lontano il luogo si compirà
Come un destino nella luce chiara.

Il paese più bello a lungo cercato
Si stenderà davanti a noi terra di salamandre.

Guarda, tu dirai, questa pietra:
Reca in sé la presenza della morte.

Luce segreta è lei che arde i nostri gesti,
Così camminiamo rischiarati.

Yves Bonnefoy
Movimento e immobilità di Douve
traduzione di Diana Grange Fiori
Einaudi 1969

L'orangerie

Ainsi marcherons-nous sur les ruines d'un ciel immense, 
Le site au loin s'accomplira 
Comme un destin dans la vive lumière.

Le pays le plus beau longtemps cherché 
S'étendra devant nous terre des salamandres.

Regarde, diras-tu, cette pierre :
Elle porte la présence de la mort.
Lampe secrète c'est elle qui brûle sous nos gestes,
Ainsi marchons-nous éclairés.

venerdì 28 novembre 2014

La poesia si decide al bivio aperto nel cuore della parola

A ogni istante due vie s'aprono nel cuore della parola; e la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s'inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s'accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d'estate.



Yves Bonnefoy 
«A Silvia» e le neuroscienze
Il Sole24ore 16 luglio 2011

lunedì 8 settembre 2014

Far essere il senso malgrado l’enigma

Far essere il senso malgrado l’enigma: è la definizione canonica e il compito della poesia secondo Bonnefoy. Qui, in questo poema del tempo delle rovine e delle devastazioni, la poesia parla di persona e rassicura facendo ascoltare la musica sapiente, quella musica che rende chiaro e percettibile, dall’ interno delle cose, il legame della presenza:
Ascoltare la musica che delucida
 Col flauto sapiente alla cima delle cose
 Il suono del colore in ciò che è.”

Jacqueline Risset
Il silenzio delle sirene
Donzelli 2006

venerdì 3 gennaio 2014

La magnifica rapidità di queste nuvole

La rapidità delle nuvole
Il vento, la finestra vicina, la valle, il cielo,
La magnifica rapidità di queste nuvole.
L’artiglio della pioggia sul vetro, all'improvviso,
Come se il nulla siglasse il mondo.
Nel mio sogno di ieri
Il grano di altri anni ardeva in brevi fiamme
Sul suolo lastricato, ma senza calore.
I nostri piedi nudi lo scostavano come un’acqua limpida.
O amica mia,
Come era esigua la distanza tra i nostri corpi!
La lama della spada del tempo che s’aggira
Avrebbe invano lì cercato il luogo per vincere.

Yves Bonnefoy
Quel che fu senza luce/Inizio e fine della neve
traduzione di Davide Bracaglia
Einaudi 2001

domenica 22 dicembre 2013

Apri il baule, vedrai è colmo di neve

De natura rerum

Lucrezio lo sapeva:
Apri il baule,
vedrai, è colmo di neve
che turbina
e a volte due fiocchi
s’incontrano, unendosi
oppure uno si volta, graziosamente
nella sua poca morte.
Di dove quel chiarore
in alcune parole
quando l’una non è che notte,
l’altra, solo sogno?
Di queste due ombre
che, ridendo, vanno
e l’una raggomitolata
in una lana rossa?


Lucrèce le savait:
Ouvre le coffre,
Tu verras, il est plein de neige
Qui tourbillonne.
Et parfois deux flocons
Se rencontrent, s’unissent,
Ou bien l’un se détourne, gracieusement
Dans son peu de mort.
D’où vient qu’il fasse clair
Dans quelques mots
Quand l’un n’est que la nuit,
L’autre, qu’un rêve?
D’où viennent ces deux ombres
Qui vont, riant,
Et l’une emmitouflée
D’une laine rouge?

Yves Bonnefoy
Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve 
Einaudi 2001


lunedì 9 dicembre 2013

Anche il cielo ha queste nuvole la cui evidenza è figlia della neve

Su rami carichi di neve
Da un ramo innevato all’altro, di anni
Trascorsi senza che alcun vento ne spaventasse le foglie,
Come un disseminarsi della luce
A tratti, mentre avanziamo in questo silenzio.
E questa polvere ricade infinita,
Non sappiamo bene se un mondo esiste
Ancora, o se raccogliamo nelle nostre mani umide
Un cristallo di realtà perfettamente puro.
Colori per il freddo più denso, di porpora e di azzurro
Che chiamate più in lontananza del frutto,
Siete forse il nostro sogno più duraturo
Di quanto non lo siano prescienza o via?
Anche il cielo ha queste nuvole
La cui evidenza è figlia della neve,
E se svoltiamo per la strada bianca,
È la stessa luce e la stessa pace.

Se non che, è vero, il mondo ha solo immagini
Simili a fiori che bucano la neve
Di marzo, e poi si schiudono, rigogliosi,
Nel nostro sognare un giorno di festa.
E non appena ci chiniamo là a raccogliere
Bracciate della loro gioia nella nostra vita,
Eccoli subito morire, non tanto nell'ombra
Del loro cuore appassito ma nei nostri cuori.
Ardua è la bellezza, quasi un enigma,
E sempre da rincominciare è l'apprendistato
Del suo vero senso sul pendio del prato in fiore
Coperto qui e là di chiazze di neve.


Yves Bonnefoy
Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve
Traduzione di Davide Bracaglia

Einaudi 2001

domenica 14 ottobre 2012

La prima parola era "la nube"


La prima parola era "la nube", la seconda ancora "la nube", la terza, la quarta, ecc., erano "la nube", o "il cielo", o "l'aria", non era ben chiaro.

Ma già la settima si gualciva, si cancellava, non si distingueva più dalla gualcitura e dalla cancellatura di altre più sotto, di altre all'infinito, di altre cenere, di altre come una polvere bianca, che vanamente, qualcuno rimescolava nel gran sacco di tela grossolana, ciò che rimaneva del linguaggio.

Yves Bonnefoy
Racconti in sogno
traduzione di Cesare Greppi
Egea 1992

sabato 13 ottobre 2012

Tornare a casa, la sera

Il viale di un giardino botanico, e sopra gli alberi umidi, molto cielo rosso. E le acciaierie, un padre, una madre che vi hanno portato il loro bambino.

Poi, dal lato della sera, i tetti sono una mano che tende a un'altra mano una pietra.

E subito un quartiere di negozietti bassi e bui, e la notte che ci ha seguiti passo passo ha un respiro corto, che a tratti vien meno. E la madre è immensa accanto al bambino che cresce.

Yves Bonnefoy
Racconti in sogno
traduzione di Cesare Greppi
Egea 1992

sabato 16 giugno 2012

La poesia non si interessa alla forma del mondo in sè

La poesia non si interessa alla forma del mondo in sé, ma al mondo che questo universo diventerà. La poesia parla solo di presenze - o di assenze.


Yves Bonnefoy


Citato da Paul Auster 
L'arte della fame 
Incontri, Letture, Scoperte, saggi di poesia e letteratura
Einaudi 2002
traduzione di Massimo Bocchiola

lunedì 28 maggio 2012

Le poesie di Bonnefoy

Eravamo vicini, con
la stessa intensità della
luce di mattina.
Tu tenevi acceso il
fuoco, io leggevo
Bonnefoy a bassa voce
solo per te.

Non c'era altro mondo
fuori dalle sue parole.

Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Morett&Vitali 2004

Questa poesia è una delle mie preferite tra le novanta del primo libro.
Quando nel novembre 2004 Yves Bonnefoy è venuto alla Triennale di Milano per la  lectio magistralis "La poésie et l'avenir", gli ho regalato il calvario e gli ho raccontato che c'era una poesia che si intitolava "Le poesie di Bonnefoy".
Lui si è seduto e l'ha letta davanti a me. 
Bonnefoy che leggeva "Le poesie di Bonnefoy" davanti a me è stato un momento di meta-poesia che mi ha riempita di gioia perché lui è uno dei più grandi poeti del Novecento e uno dei miei maestri.
Qualche anno dopo, il teologo e critico letterario francese Jean-Pierre Jossua l'ha tradotta e ha citato il libro in un lungo articolo, dedicato proprio a Bonnefoy, uscito nel volume 2/2010 del "Bulletin de théologie littéraire".
Ecco la sua versione.


Les poèmes de Bonnefoy

Nous étions proches
partageant l'intensité
de la lumière du matin.
Tu gardais le feu
allumé et moi je lisais
Bonnefoy à voix basse
pour toi seul.

Il n'y avait nul monde 
hors de ces mots