domenica 26 marzo 2017

la poesia ti misurerà sul palmo della mano

La poesia non è parole, né un’azione
che culmini in fatti. Ed è una difficile cosa
e tu non puoi misurarla se non con la tua propria
misura
ed è la tua patria, promessa oppure no.
E lei ti misurerà sul palmo della mano,
ti sedurrà col bene e anche col male, in essa
costruirai la tua casa, altra casa non avrai
anche se il fuoco la divorerà o se d’un tratto sarà
distrutta

Tu senti ancora ciò che dicono nella stanza accanto
e di là dalla finestra
e ascolti o tiri su una tenda
e non c’è nulla là tranne l’eco
e questa è la via del mondo
e questo è il chiuso
oltre cui non passerai.

Nathan Zach
tratto da "Carteggi Letterari"

domenica 19 marzo 2017

Non conoscevo ancora il futuro, ma solo il tedesco

I viali dell’infanzia

I
Suonavano le orchestre nel parco. Il secolo marciava verso sé stesso
e noi sempre più lontani dalle origini.

Quand’ero ragazzino, mio padre mi prese sottobraccio. Nel suo
tono pratico mi disse, lo vedi, qui per noi non c’è futuro.
Tua madre ed io abbiamo deciso di emigrare.
Non capii. Non conoscevo ancora il futuro, ma solo il tedesco.
Mangiavo noccioline ed amavo lo zoo. Aspettavo le scimmie
ma annottava già e non uscivano dal loro nascondiglio. Luci
brillavano sui ponti. Pesci dorati guazzavano nell’acqua della vasca
e le fioraie avevano stille di rugiada nei capelli. Berlino. Città da cui
ricorderò di fuggire e fuggire ancora verso la mia città
da cui non si può fuggire.

Poi il fanciullo maturò, accumulò un po’ di forza,
i suoi incubi divennero realtà, i viali dell’infanzia
si fecero macerie o case dai molti piani.
Ora non scorderà più la parola futuro,
che sempre tornerà,
paurosa come orfanezza.
Qualcosa come alzarsi, partire, ricordare –
di pauroso come morire.

Nathan Zach
Sento cadere qualcosa
poesie scelte 1960 - 2008
a cura di Ariel Rathaus
Einaudi 2009

sabato 18 marzo 2017

il sogno non sente di essere già fuggito

Scrivere di sogni con parole secche
come bandiere flosce senza un alito di vento,
peccato che certi sogni sognino parole secche
come carta cianciata sulla via.
La pagina non sente di essere già schiacciata,
il sogno, di essere già fuggito.

Nathan Zach
tratto da "Carteggi letterari"

venerdì 17 marzo 2017

La poesia voleva rispondere ma l’abito di tacere è ormai radicato

Poi scorsero in me pensieri: forme di pensieri
più che pensieri. Molte
forme di pensieri. La poesia voleva rispondere
ma l’abito di tacere è ormai radicato.
Solo il dolore grida ancora
e poi, perplesso, ride.
Un tempo pensavo di scrivere
per la mia propria rovina e non per coloro che amavo.
Oggi non c’è neanche più la rovina
e tutto il conto è ormai liquidato.

Nathan Zach
tratto da "Carteggi Letterari"

giovedì 16 marzo 2017

Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.

Nell'inganno delle parole
I
È il sonno d’estate quest’anno ancora,
L’oro che chiediamo, dal fondo delle nostre voci,
Alla trasmutazione dei metalli del sogno.
Il grappolo delle montagne, delle cose vicine,
È maturato, è quasi il vino, la terra
È il seno nudo in cui la nostra vita riposa.
E respiri ci circondano, ci accolgono,
Come la notte d’estate, che non ha rive,
Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.
Amica mia, è qui nuovo cielo, nuova terra,
Un fumo incontra un fumo
Al di sopra della disgiunzione dei due bracci del fiume.
E l’usignolo canta una volta ancora
Prima che il nostro sogno ci prenda,
Ha cantato quando s’addormentava Ulisse
Nell’isola in cui faceva tappa la sua erranza,
E anche chi arrivava acconsentì al sogno,
Fu come un brivido della sua memoria
Per l’intero suo braccio d’esistenza sulla terra
Che aveva ripiegato sotto la sua testa stanca.
Penso che respirò d’un fiato eguale
Sul giaciglio del suo piacere poi del riposo,
Ma Venere nel cielo, la prima stella,
Volgeva già la prua, benché esitante,
Verso l’alto mare, sotto nubi,
Poi derivava, barca il cui vogatore
Avesse dimenticato, gli occhi ad altre luci,
D’immergere di nuovo il remo nella notte.
E per la grazia di quel sogno cosa vide?
Che fosse la linea bassa di una riva
Ove sarebbero state chiare delle ombre, chiara la loro notte
A causa di fuochi altri da quelli che ardono
Nelle nebbie delle nostre domande, successive
Durante la nostra avanzata nel sonno?
Siamo navi grevi di noi stessi,
Traboccanti di cose chiuse, guardiamo
Alla prua del nostro periplo tutta un’acqua nera
Aprirsi quasi e ritrarsi, per sempre senza lido.
Lui comunque, nelle pieghe del canto triste
Dell’usignolo dell’isola casuale,
Pensava già a riprendere il suo remo
Una sera, quando sarebbe sbiancata di nuovo la schiuma,
Per dimenticare forse tutte le isole
Su un mare in cui cresce una stella.
Andare così, con lo stesso oriente
Al di là delle immagini ciascuna delle quali
Ci lascia alla febbre del desiderare,
Andare fiduciosi, perderci, riconoscerci
Attraverso la bellezza dei ricordi
E la menzogna dei ricordi, attraverso il tormento
Di alcuni, ma anche la felicità
D’altri, il cui fuoco corre nel passato in cenere,
Nube rossa in piedi al frangente delle spiagge,
O delizia dei frutti che non abbiamo più,
Andare, per l’al di là quasi del linguaggio,
Con soltanto un po’ di luce, è possibile
O non è altro che l’illusorio ancora,
Di cui ridisegniamo sotto altri tratti
Ma iridati dello stesso ingannevole bagliore
La forma nelle ombre che si condensano?
Ovunque in noi soltanto l’umile menzogna
Delle parole che offrono più di quel che è
O dicono cosa altra da quel che è,
Le sere non tanto della bellezza che tarda
A lasciare una terra che ha amato,
Plasmandola con le sue mani di luce,
Quanto della massa d’acqua che di notte in notte
Precipita con gran fragore nel nostro avvenire.
Noi mettiamo i nostri piedi nudi nell'acqua del sogno
È tiepida, non sappiamo se sia un risveglio
O se la folgore lenta e calma del sonno
Già tracci i suoi segni in rami
Che un’inquietudine scuote, poi è troppo scuro
Perché vi si riconoscano figure
Che questi alberi scostano, davanti ai nostri passi.
Noi avanziamo, l’acqua sale alle nostre caviglie,
O sogno della notte, prendi quello del giorno
Nelle tue mani amorose, volgi verso te
La sua fronte, i suoi occhi, ottieni con dolcezza
Che il suo sguardo si fonda al tuo, più saggio,
Per un sapere che non laceri più
La disputa tra il mondo e la speranza,
E che unità prenda e conservi la vita
Nella quiete della schiuma, dove si riflette,
Sia bellezza, nuovamente, sia verità, le stesse
Stelle che s’accrescono nel sonno.
Bellezza, sufficiente bellezza, bellezza estrema
Delle stelle senza significato, senza movimento.
A poppa sta il nocchiero, più grande del mondo,
Più nero, ma di un’opacità fosforescente.
Il lieve sciacquio dell’acqua appena agitata,
Si fa presto silenzio. E non sappiamo ancora
Se è un nuovo lido, o lo stesso mondo
Che nelle pieghe febbrili del letto terrestre,
Questa sabbia che sentiamo stridere sotto la prua.
Non sappiamo se approdiamo a un’altra terra,
Non sappiamo se mani non si tendano
Dal grembo dell’ignoto accogliente per afferrare
La corda che lanciamo, dalla nostra notte.
E domani, al risveglio,
Forse le nostre vite saranno più fiduciose
In cui voci e ombre indugeranno,
Ma distolte, calme, disattente,
Senza guerra, senza rimprovero, mentre
Il bambino accanto a noi, sul sentiero,
Scuoterà ridendo la sua testa immensa,
Guardandoci con la goffaggine
Della mente che riprende alla sua origine
Il suo compito di luce nell’enigma.
Sa ancora ridere,
Ha afferrato nel cielo un grappolo troppo greve,
Lo vediamo portarlo via nella notte.
Il vendemmiatore, colui che forse coglie
Altri grappoli lassù nell’avvenire,
Lo guarda passare, benché senza volto.
Affidiamolo alla benevolenza della sera d’estate,
Addormentiamoci…
… La voce che ascolto si perde,
Il rumore di fondo che è nella notte la copre.
Le assi della prua, incurvate
Per dar forma alla mente sotto il peso
Dell’ignoto, dell’impensabile, si allentano.
Che mi dicono questi scricchiolii, che spezzano
I pensieri attestati dalla speranza?
Ma il sonno si fa indifferenza.
Le sue luci, le sue ombre: più nient’altro che
Un’onda che s’infrange sul desiderio.
II
E potrei
Fra poco, al sussulto del brusco risveglio,
Dire o tentare di dire il tumulto
Degli artigli e delle risa che si scontrano
Con l’avidità senza gioia delle vite primarie
Al bordo sconnesso della parola.
Potrei gridare che ovunque sulla terra
Ingiustizia e sciagura devastano il senso
Che la mente ha sognato di dare al mondo,
Insomma, ricordarmi di ciò che è,
Non essere che la lucidità che dispera
E, benché sia ritorta
Ai rami del giardino di Armida la chimera
Che inganna la ragione quanto il sogno,
Abbandonare le parole a chi cancella,
Prosa, per evidenza della materia,
L’offerta della bellezza nella verità,
Ma mi sembra anche che non sia reale
Che la voce che spera, fosse essa
Inconsapevole delle leggi che la negano.
Reale, solo, il fremito della mano che tocca
La promessa di un’altra, reali, sole,
Queste barriere che spingiamo nella penombra,
Quando si fa sera, di un sentiero di ritorno.
So tutto quello che occorre cancellare dal libro,
Una parola comunque resta a bruciarmi le labbra.
O poesia,
Non posso impedirmi di chiamarti
Con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
Oggi tra le rovine della parola.
Oso rivolgermi a te, direttamente,
Come nell’eloquenza delle epoche
In cui si ponevano, alla vigilia dei giorni di festa,
In cima alle colonne dei saloni,
Ghirlande di foglie e di frutti.
Lo faccio, confidando che la memoria,
Insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
Di far essere il senso malgrado l’enigma,
Farà decifrare loro, sulle sue grandi pagine,
Il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
In silenzio, un fuoco chiaro,
I sarmenti dei loro dubbi e delle loro paure.
«Guardate, lei dirà, nel solo libro
Che si scriva attraverso i secoli, vedete crescere
I segni nelle immagini. E le montagne
Inazzurrarsi in lontananza, per essere a voi terra.
Ascoltate la musica che delucida
Con il flauto sapiente alla vetta delle cose
Il suono del colore in ciò che è.»
O poesia,
Io so che ti disprezzano e ti negano,
Che ti considerano un teatro, perfino una menzogna,
Che ti gravano delle colpe del linguaggio,
Che dicono infetta l’acqua che tu porti
A quelli che tuttavia desiderano bere
E delusi si allontanano, verso la morte.
Ed è vero che la notte gonfia le parole,
Venti girano le loro pagine, fuochi sfiancano
Le loro bestie atterrite fin sotto ai nostri passi.
Abbiamo creduto che ci avrebbe condotto lontano
Il sentiero che si perde nell'evidenza,
No, le immagini cozzano contro l’acqua che sale,
La loro sintassi è incoerenza, cenere,
E presto nemmeno vi sono più immagini,
Più libro, più grande corpo caloroso del mondo
Che stringa le braccia del nostro desiderio.
Ma so comunque che non esiste altra stella
Che si muova, misteriosamente, auguralmente,
Nel cielo illusorio degli astri fissi,
Se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre
Si raggruppano a prua, e perfino cantano
Come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva
Davanti a loro, alla fine del lungo viaggio,
La terra nella schiuma, e brillava il faro.
E se rimane
Altro che un vento, uno scoglio, un mare,
Io so che tu sarai, anche di notte,
L'ancora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia,
E la legna raccolta, e la scintilla
Sotto i rami umidi, e, nell'inquieta
Attesa della fiamma che esita,
La prima parola dopo il lungo silenzio,
Il primo fuoco che prenda in fondo al mondo morto.


Yves Bonnefoy
Le assi curve
in L’opera poetica
traduzione di Fabio Scotto
I Meridiani 
Mondadori 2010

martedì 14 marzo 2017

la mia mano che sorreggeva un tempo i tuoi occhi

6
Ora sto qui e mi guardo allo specchio.
Posso ringiovanire e invecchiare a piacimento.
Se voglio, posso assomigliare a un animale
o a una pianta, o persino
al progetto di una macchina volante.
Sopra le mie sembianze come lava
vulcanica colasti tu una volta, ma io no, io non divenni pietra,
la prova è quanto accade nello specchio,
le sue stagioni in connubio,
le mutazioni, e soprattutto la mia mano
che sorreggeva un tempo i tuoi occhi
perché non cadessero dalle orbite, come due gocce immense,
quella stessa mano scrive ora che,
ecco, non ti amo.


Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007

traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

lunedì 13 marzo 2017

Scrivo a un tavolo di legno

4
Ti scrivo questa quarta lettera
in una stanza di legno, a un tavolo di legno,
legno dappertutto, incredibilmente tanto legno,
e dappertutto scritte, con l’inchiostro,
la matita chimica, la punta del coltello,
nomi, date, usignoli, treni,
chiavi. (Puoi aprire un
treno con la chiave e calpestare l’usignolo
intirizzito sui binari e apporre la tua firma con
tanto di data). Ho paura.
Oltre la cornice di legno della finestra
palpita la manica scura dell’abete
notturno; una notte
mi aspettavi, era estate, sul letto avevi messo i miei libri.
Quando entrai, vidi me stessa,
forse non dovevo rimpiazzare
il mio corpo di libri, di carta, di legno,
il mio corpo effimero, così la penso ora,
ora che non ti amo.

Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007

traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

domenica 12 marzo 2017

domenica — non so che cosa voglia dir domenica

5
Se tu cercassi di tirarmi addosso
il lunedì, il martedì, il mercoledì,
lunedì, martedì e mercoledì rimbalzerebbero
cadendo a terra senza suono,
giovedì e venerdì
non possono più ferirmi,
non possono lasciarmi neanche il segno
di un minuscolo ombrello giapponese, del vaccino,
giovedì e venerdì non hanno forze,
sabato non ha forze,
domenica — non so che cosa voglia dir domenica
— non ti amo.

Nina Cassian
C'è modo e modo di sparire
Poesie 1945-2007

traduzione di Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica
Adelphi 2013

sabato 11 marzo 2017

Lo scrittore crea l'intimità nascente del lettore

Nella misura in cui scrivere vuol dire staccarsi dall'impossibilità e divenire possibile, lo scrivere assume allora i caratteri dell'esigenza di leggere, e lo scrittore diventa l'intimità nascente del lettore ancora infinitamente futuro.


Maurice Blanchot
Lo spazio letterario
traduzione di Gabriella Zanobetti
Einaudi 1975

venerdì 10 marzo 2017

E restiamo nell’ora e nel tempo, nel silenzio e nella luce, restiamo nelle sillabe

Preludio


Nessuno ascolta il tempo
né vola in orbita, cieco
leggendo sogni
nell’albero cavo del mentre

Nessuno gioca nel silenzio
in quest’ombra mattutina
muovendo la pedina
sulla pietra che spinge

Nessuno è più il tempo di sé
un ritaglio nello specchio
a evitare la menzogna,
carte che non riesci a confondere

Ti accorgi ora che noi siamo
la parola migliore,
non pane né assenzio, la passione
di chi è già in ginocchio.

Vorrei aspettarti se il terreno
non mi lasciasse ad ogni passo
e sparisse nel mio petto
ad ogni respiro

Padre, nel buio tu pensi
a quel germoglio ch’è già
vita e stelo
rifugio d’energia.

La strada che percorri
è sempre sdegno e rincorsa
perché non sono con te

La mia è un cuscino di legno
senz’odore né cesello,
strada che non conosco.

La tua strada attraverso
con piede d’incenso,
l’occhio bianco nel sole

E non vedo non colgo non sono
e pur sento che mi scopri,
levando la cenere
dal rimpianto

Brezza brillante
emersa dall’acqua della vita
scuote la fibra
dalle foglie

Abbiamo sofferto ma sappiamo
amare questo nostro vivere
oltre il dolore
occhi sbarrati
ai confini del verificato,
e l’anima più non scotta come
labbra convulse di neonato

E restiamo, nell’ora e nel tempo
nel silenzio e nella luce,
restiamo nelle sillabe
rapiti come stranieri.


Dario Arkel
Ritrovarsi a Esztergom
Atì editore 2015

giovedì 9 marzo 2017

È quasi primavera. L’albero trattiene ancora le gemme.

Convalescenza di fine inverno
(a conclusione dei lavori di ristrutturazione)


Spiace lo squallore di questo paesaggio.
È quasi primavera.
L’albero trattiene ancora le gemme.
Il cielo trattiene una pioggia battente.
Le finestre chiuse trattengono
il caldo dentro le stanze.
Fuori da queste quattro cose
c’è uno spazio freddo
con sempre meno luce e senza vento.
La casa – sono sola –
mi cederebbe tutte le sue stanze,
è la stagione che si allarga
ma sono io che non le voglio, non le accetto.
È forse la stanchezza della malattia
che mi fa stare in guardia,
sebbene far la guardia sia per niente
visto che i buoi sono scappati
col carro pieno della roba mia.
Ma gli occhi, che mi restano fedeli,
continuano a inviarmi questi esterni,
stanze vuote, piene di spazio per l’ospitalità.
L’ospitalità mi chiede almeno un ospite
io sono invece un’altra stanza vuota
accanto a quella nuova appena sistemata.
Si chiamino ancora i muratori
che facciano a me controsoffittatura,
pavimento e diano il bianco
– almeno due mani, per favore –
adesso che si va nella stagione bella,
alle orme interne, vuote,
di stomaco, fegato, cuore, budella.

mercoledì 8 marzo 2017

dentro quest’albero spoglio ci sono foglie e fiori bianchi di ciliegio

Inverno


Vedi, dentro quest’albero spoglio, grigio
fra palazzi grigi e tetti,
ci sono foglie e fiori bianchi di ciliegio.

Dentro le facciate fredde dei palazzi
ci sono stanze, spazi che si aprono in spazi,
case che rifugiano uomini, sentimenti.

Vedi, questo striminzito cielo nuvoloso

ha sole, luna e innumerevoli stelle.


Annalisa Manstretta
Gli ospiti delle stagioni
Atì editore 2015

martedì 7 marzo 2017

Canto, cammina adagio sul mio cuore

Canto, cammina adagio sul mio cuore,
cammina adagio come erica sull'acquitrino,
come uccello su ghiaccio vecchio d’una notte.
Se spezzi la crosta del dolore
annegherai, canto.

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

lunedì 6 marzo 2017

Si vedono terreni inzuppati di pioggia e stelle di marzo

Stelle di marzo

Ancora la semina è lontana. Si vedono
terreni inzuppati di pioggia e stelle di marzo.
Nella formula di pensieri infecondi
si configura l’universo seguendo l’esempio
della luce, che non sfiora la neve.

Sotto la neve ci sarà anche polvere
e, non disfatto, il futuro nutrimento
della polvere. Oh il vento che si leva!
Altri aratri dirompono l’oscurità.
Le giornate tendono a farsi più lunghe.

Nelle lunghe giornate, non richiesti,
veniamo seminati entro quei solchi storti
e diritti, e si eclissano stelle. Nei campi
prosperiamo o ci corrompiamo a caso,
docili alla pioggia, e infine anche alla luce.

Ingeborg Bachmann
Poesie
traduzione di Maria Teresa Mandalari
Guanda 1988

Sterne im März

Noch ist die Aussaat weit. Auf treten 
Vorfelder im Regen und Sterne im März. 
In die Formel unfruchtbarer Gedanken 
fügt sich das Universum nach dem Beispiel 
des Lichts, das nicht an den Schnee rührt.

Unter dem Schnee wird auch Staub sein 
und, was nicht zerfiel, des Staubes 
spätere Nahrung. O Wind, der anhebt! 
Wieder reißen Pflüge das Dunkel auf. 
Die Tage wollen länger werden.

An langen Tagen sät man uns ungefragt
in jene krummen und geraden Linien,
und Sterne treten ab. Auf den Feldern
gedeihen oder verderben wir wahllos,
gefügig dem Regen und zuletzt auch dem Licht.

domenica 5 marzo 2017

Sorella maggiore, sorella minore

Caterina il sole, io nella sua ombra.
Caterina che piange di rabbia, io che rido per niente.
Caterina e le sue storie, io il suo pubblico.
Caterina l'avvocato, io il cliente assolto.
Caterina rossa, tra i rovi e l'erba secca, io mora, tra i papaveri e le ginestre.
Caterina continente, io isola minore.

Lorenza Pieri
Isole minori
edizioni e/o 2016

Ascolta, mia cara, ascolta la dolce notte in cammino

Lalla Romano, la roccia e l'aria

La scrittura di Lalla Romano, ha la semplicità, la casta semplicità che, come dice Benjamin, è "già la metà dell'arte di narrare": un'arte costituita da realtà, sogno e e silenzio. È una scrittura di tessitura omologa alla vita, ma più luminosa. Forse viene dal simbolismo e dall'impressionismo.

Entends, ma chère, entends, la douce Nuit qui marche.

È un'immagine di Baudelaire. Lalla Romano scrisse nella Giovinezza inventa d'essere rimasta incantata da questo verso, sentito a una lezione universitaria. Vi si parla della notte. Della dolce notte in cammino, di un'estasi in movimento. Vi si può trovare una profonda analogia con l'arte di Lalla Romano. Anche nella sua scrittura vi è il continuo spostarsi di un'estasi: variazioni della memoria come di una brezza.


Francesco Biamonti
Scritti e parlati
a cura di Gian Luca Picconi e Federica Cappelletti
prefazione di Sergio Givone
Einaudi 2008

venerdì 3 marzo 2017

Cerco una prosa rapida e meditante.

Breve nota autobiografica

Tutta la vita psichica è investigazione, investigazione che cerco di tradurre in immagini. E ognuno è solo su questa terra su sfondi di cielo, di mare o di montagne.
Cerco una prosa rapida e meditante.
Per ciò che c'è di infinito nella vita, vivere è un po' come navigare. Per Baudelaire il mare è una metafora dell'anima. Nella scrittura si vorrebbe imprigionare il canto delle sirene.
Amo il francese, lo spagnolo, il provenzale. In quest'ultimo, come nel dialetto, cerco un'acre verdezza.

Francesco Biamonti
Scritti e parlati
a cura di Gian Luca Picconi e Federica Cappelletti
prefazione di Sergio Givone
Einaudi 2008

giovedì 2 marzo 2017

Lo sguardo sul mare causa la contemplazione dell'infinito

Noia, malinconia, vibrazioni liriche

La noia è un blocco dell'atto, un vuoto tra due progetti, ma passa, perché lo spazio si riempie da solo. La coscienza umana non può restare vuota, si popola di versi di poeti, visi di donne, ricordi, e sensi di colpa. Si pensa sempre a qualcosa, e per me la malinconia prevale sulla noia, che diventa così una specie di rêverie mista a tristezza intorno alle cose che mi circondano. Da questo stato nasce la prosa dell'elegia, che è un modo di sfuggire al sadomasochismo dei rapporti umani troppo stretti.
La noia permette di contemplare quello che appare in lontananza, a metà strada tra il dolce e il funebre, e di sottrarsi in questo modo alla polemica e alla collera. Questa noia malinconica ci pone al di là dell'angoscia paralizzante, favorisce lo slancio dell'immaginazione e anche della lucidità, e dispensa dall'alzare il tono e lanciare delle grida: «Gettare il proprio cuore tra le cose e allontanarsene per meglio contemplarle e oggettivarle», diceva Camus.
La noia è più arida, la malinconia è più musicale, ha una vibrazione lirica. Sul mare l'aridità prevale. Per me, niente può essere concepito senza legame con il paesaggio, e quando le cose riappaiono sul mare, nel mezzo dei ricordi, hanno questo tono di spoliazione e di dolcezza, non tanto dal punto di vista della malinconia romantica quanto da quello dell'universalità. Lo sguardo sul mare causa la contemplazione dell'infinito. Le rocce mi riportano alle cose antiche. Il minerale è più vicino all'essenza, mentre il deserto è più superficiale. La letteratura della mia regione è fatta di questo linguaggio aspro, teso verso l'essenziale. Oggi vedo scrittori che si buttano con rabbia nel bel mezzo della mischia, della lotta, della carneficina, del saccheggio. Non amo questo tipo di letteratura, preferisco la contemplazione.

Une manière de contempler le lointain, in «Magazine Littéraire», n. 400, luglio-agosto 2001, p. 32. Il testo, con quelli di altri scrittori, fa parte di un dossier dal titolo Variations sur l'ennui; la testimonianza è stata raccolta da Valérie Marin Le Meslée. La traduzione è dei curatori

Francesco Biamonti
Scritti e parlati
a cura di Gian Luca Picconi e Federica Cappelletti
prefazione di Sergio Givone
Einaudi 2008

mercoledì 1 marzo 2017

Scrivo di notte. Scrivo prosa come se facessi poesia

Quando hai cominciato a scrivere?
Ho l'impressione di avere sempre scritto. Subito dopo essermi laureata con una tesi su Henry James sono tornata a New York e cominciato a scrivere un romanzo, To Mercy, Pity, Peace, and Love (da un verso di William Blake). Ci ho lavorato per sette anni, poi mi sono interrotta. Avevo deciso che, visto che il mercato editoriale premiava in quel momento gli scrittori di short story e che bastavano tre racconti brevi per fare un libro, dovevo produrne uno anch'io in non più di sei settimane.
Così ho cominciato a scrivere quello che doveva essere un semplice racconto e mi ci sono voluti esattamente sette anni per finirlo e darlo alle stampe. Si tratta di Trust. Al mio primo romanzo non sono mai più tornata. (...)

Hai sempre e soltanto scritto o hai fatto anche altri lavori?
Ho fatto un po' d'insegnamento, un po' di pubblicità, qualche conferenza, ma io non voglio insegnare. L'ultima volta che ho tenuto un corso è stato bellissimo, anzi troppo bello. Avevo dodici studenti e non me ne sono ancora liberata. Era finita che si sono trasformati tutti in figli miei e io ne ero orgogliosissima. Ma non posso fare da madre a migliaia di persone. È una cosa che consuma. È che mi innamoro di questi giovani scrittori, provo dei veri e propri sentimenti nei loro confronti. Diventano tutta la mia vita. e non rimane niente altro. Per me e per il mio modo di scrivere è un grosso problema. Io sono infatti una scrittrice lentissima. Ho bisogno di molto tempo per pensare, per riflettere. Mi ci vuole un'eternità anche per scrivere una sola frase, perché continuo a fare cambiamenti, esperimenti. Non mi capita mai di correre. Scrivo prosa come se facessi poesia. Sono tutta presa dai problemi di costruzione ed equilibrio, di cadenza. È poesia.

Come scrivi?
In modo antiquato: con carta e penna. Fino a poco tempo fa senza orari precisi, ma sempre di notte. Più o meno fino alle sei del mattino. Un anno fa mi sono ammalata e non ho ancora ritrovato l'energia sufficiente per riprendere i miei ritmi originari. 
Scrivo di notte per due ragioni. Primo perché sono stata allenata a lavorare di notte. I miei genitori durante gli anni della Depressione avevano un drugstore. I loro orari di lavoro erano feroci, tenevano aperto fino all'una, due di notte. Poi venivano a casa e si cenava e lì cominciava la nostra socialità familiare. Un training che risale alla mia infanzia.
La seconda ragione è che il mondo se ne va attorno a mezzanotte. Il telefono smette di squillare. Si è quieti durante le ore notturne, non c'è nessuno a disturbarti e non ci si sente responsabili di nessuno. Ci si sente liberi e io per scrivere ho bisogno di libertà. In particolare adesso che ricevo tutta questa attenzione di pubblico e di critica le giornate sono scoraggianti. In teoria non dovrei fare altro che rispondere al telefono, leggere e scrivere lettere.
Tutte queste responsabilità. Ci sono settimane in cui il tempo non mi basta neppure per tenermi al passo con la corrispondenza. Non voglio essere scortese con nessuno, ma è un gran peso e non ho ancora capito come districarmi. Mi chiedo come se la cavi John Updike, tanto per nominare il più popolare degli scrittori americani di oggi. (...)

frammenti dell'intervista "Il senso esiste" a Cynthia Ozick in 

Maria Nadotti
Prove d'ascolto
Incontri con artisti e saggisti del nostro tempo 
edizioni dell'asino 2011