Visualizzazione post con etichetta Danilo Bramati. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Danilo Bramati. Mostra tutti i post

mercoledì 28 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/507. Nell’ombra di una rosa troverai l’uscita

 


Storie dall’arcipelago del tempo/2


Fino a che avremmo avuto cibo e acqua e una certa sicurezza, avremmo potuto continuare a vivere così come avevamo scelto? Ce lo chiedevamo tutti i giorni, era il nostro argomento di conversazione principale e pensavamo di essere stati fortunati a ritrovarci in così tanti nel territorio che un tempo era l’amena località di Bellagio. Proprio sulla biforcazione dei due rami del lago di Como avevamo insediato la nostra comunità. Utilizzammo tutte le case ancora agibili, iniziammo a coltivare i giardini per farne orti, ma cercando di preservare fiori e cespugli che davano grazia al luogo. La fitta rete di canali, fiumiciattoli e stagni era molto pescosa e dopo un primo inverno dove eravamo sopravvissuti grazie al cibo in scatola recuperato dalle case svuotate dai loro abitanti, gli ortaggi e il pesce fresco andarono a costituire la nostra dieta. A tutti mancavano gli agi della vita di “prima”, ma avevamo imparato a non lamentarci, eravamo vivi, eravamo stati in grado di dare vita a una piccola comunità di gente che sentiva e parlava. All’inizio eravamo circa un migliaio, non fu difficile scegliere di organizzarci in una forma di democrazia diretta dove tutti i maggiorenni si esprimevano per alzata di mano. E non fu neanche difficile scegliere le nostre guide, i nostri “portavoce”, come suggerì qualcuno che aveva studiato antropologia e le popolazioni della foresta amazzonica. Certo, non potevamo poetizzare quanto ci stava accadendo, ma eravamo vivi e in buona salute. Molti tra noi erano sopravvissuti a una delle tante pandemie che avevano colpito il pianeta, alcuni neanche si erano ammalati. Tra questi, i discendenti di una donna che aveva diciotto anni quando era scoppiata la pandemia di Spagnola nel lontanissimo 1918 e che non si era neanche ammalata, come tutta la sua famiglia, mentre nel paesello dove viveva prima di emigrare a Milano, più di metà della popolazione si era ammalata e non aveva superato la malattia. La donna aveva raccontato a una delle nipoti questa storia e lei aveva fatto altrettanto. Fu dopo averla ascoltata, che decidemmo di raccogliere le testimonianze e i racconti di noi sopravvissuti. La decisione venne presa all’unanimità dopo che il Consiglio dei cinque Portavoce si fu insediato. Era composta da tre donne: Anna, medico chirurgo; Silvia, fito-biologa; Elisabetta, ingegnere e architetto. I due uomini erano Davide, un informatico convertito all’agricoltura ben prima dell’ultima catastrofe, e Giovanni, geologo e ingegnere delle acque. I loro titoli accademici non valevano più nulla, ma l’esperienza e la competenza che avevano maturato nelle loro vite precedenti, nessuno aveva meno di quaranta anni, furono decisive per far diventare la nostra nuova casa un luogo dove poter vivere. A partire dalla bonifica dell’acquitrino fangoso che era diventato il grande lago.

 

Poi arrivò il giorno in cui la Rete smise di funzionare e così smettemmo di angosciarci per eventi su cui non avevamo alcun controllo e di perdere tempo a scrivere arguti commenti sui social che nessuno mai avrebbe letto. Fino a che riuscimmo a far funzionare le auto elettriche con le scorte di energia, i coraggiosi e i forti andavano esplorando il territorio e recuperavano tutto quello che ci poteva servire per vivere: cibo, acqua, vestiti, mobili, medicine. I palazzi in miglior stato diventarono i nostri magazzini gestiti da Raffaella che dirigeva un centro commerciale un tempo, insieme a una dozzina di altre persone che avevano lavorato come commessi. Cercammo, almeno all’inizio, di non dare più valore alla forza, all’età, all’intelligenza, ma trovammo il modo di far sì che a ciascuno fosse data la possibilità di avere ciò di cui aveva bisogno e di dare ciò di cui era capace. Non credo che il sistema funzionasse perché noi fossimo buoni o migliori, funzionava perché eravamo spaventati, perché eravamo quasi tutti ben oltre la trentina. I giovani, gli adolescenti e i bambini non erano che una cinquantina, così come gli anziani. I virus avevano decimato prima gli anziani in ogni ondata, ma poi avevano iniziato a morire anche i bambini e nessun medico o virologo riusciva a capire perché. Per questo tenevamo in grande considerazione questa parte di popolazione e riuscimmo a organizzare anche una scuola aperta a chiunque volesse apprendere. La priorità venne data alle arti manuali, chi sapeva cucinare, cucire, scolpire, assemblare, coltivare, insegnava ai giovani. Tra noi c’era anche una violinista di mezza età che aveva salvato il suo violino durante la grande fuga da Milano. Iniziò a insegnare musica e gli strumenti via via recuperati nelle case e nelle scuole abbandonate, le permisero di avere un discreto numero di allievi.

Tra i grandi vecchi c’era anche un anzianissimo poeta che aveva scritto centinaia di poesie e i cui libri avevamo trovato nella biblioteca comunale del paese. Aveva confessato di essere proprio lui dopo che, durante une delle serate dedicate alle arti, uno dei ragazzi aveva letto tutto uno dei suoi libri. Quando il ragazzo stava per leggere le ultime poesie, il vecchio poeta si era alzato e ne aveva recitata una guardandoci a turno:

 

 

Fuga

 

Quando sei nel labirinto

il filo della fuga si aggroviglia

ma nell’ombra di una rosa

troverai l’uscita.

 

 

Noi, non solo eravamo nel labirinto, noi eravamo il labirinto stesso. Bisognava solo capire a quale rosa si riferisse e in quale ombra dovevamo cercare l’uscita. Ma quelli che arrivavano da un altro tempo la trovarono prima di noi.

 

 

Un altro mondo sta emergendo, lo lascio affiorare, lascio che prenda casa in queste Cronache e che mi guidi in uno degli altrove dove la mia immaginazione si nutre, pesce e mare allo stesso tempo. Ringrazio Danilo Bramati per avermi fatto utilizzare una delle sue poesie della raccolta Una ruggine nel sangue, che uscirà subito dopo l’estate.

Oggi è mercoledì 28 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 507 è ancora smarrita nel giardino delle rose.

sabato 24 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/503. Immagina una moltitudine di persone imprigionate fin dalla nascita in uno spazio di luce abbacinante


 


 Nel bizzarro clima milanese fatto di acquazzoni e vento fresco, oggi pomeriggio sono andata a vedere la mostra di Mario Sironi al Museo del Novecento. È una bella retrospettiva, molto ricca, con tante opere giovanili, i bozzetti per le grandi opere murali, molti autoritratti, e molti quadri appartenenti a collezioni private che difficilmente ci sarà occasione di rivedere.

Sironi è un artista geniale e monumentale come le sue opere. La storia della sua vita è in qualche modo la storia del primo Novecento italiano. Fascista dalla prima ora, nevrotico, futurista, illustratore, padre di due figlie di cui una suicida a soli 18 anni, salvato dalla fucilazione per mano dei partigiani verso la fine della guerra grazie, così ha raccontato il salvatore, ma ci sono altre versioni, a Gianni Rodari che lo aveva riconosciuto.

Fondatore con altri artisti del movimento Novecento, Sironi è diventato Sironi, senza più maestri, epigoni o compagni di strada. Ho visto questa mostra con i miei amici Grazia e Danilo, che di Sironi sa tutto e gli ha dedicato un’opera teatrale davvero bellissima: Il mito rovesciato. Sironi incontra le ombre, che in premessa recita “Fiaba drammatica in due atti e un atto finale”. Potrei continuare a elencare le emozioni che questo artista sa trasmettermi, la commozione, i paesaggi urbani che mi struggono perché rappresentano la Milano industriale che emerge dalle rovine di quella contadina. Però preferisco che siano le parole scritte da Danilo Bramati a introdurvi nell’universo sironiano.

 

(sul lato destro rispetto al pubblico c’è una foresta di alberi spogli in stile sironiano che occupa quasi metà palcoscenico e si perde fra le quinte. Al margine sono sparse pietre in stile sironiano. Su una pietra è seduto Sironi. Una ragazza bionda esce dalla foresta cantando questi versi di Michelangelo:

 

“Cosa mobil non è che sotto il sole

non vinca morte e cangi la fortuna...”.

 

poi rientra nella foresta. Dal lato opposto si fa avanti il Personaggio e va verso il proscenio)

 

Personaggio.

È quell’uomo laggiù. Brusco, scontroso, onesto. Non lusingò nessuno. Non si pentì di niente. La sua opera sfida il tempo. Non puntò mai alla felicità. (raggiunge Sironi e siede su una pietra)

 

SIRONI.

Immagina una moltitudine di persone imprigionate fin dalla nascita in uno spazio di luce abbacinante che violenta e percuote ogni angolo di mondo, ogni foglia sottile, ogni impronta lieve figurata nella sabbia, ogni pensiero appena accennato nei cuori e nelle menti. Immagina una miriade di sentieri allucinati da un sole a picco, percorsi in lungo e in largo da una marea di gente di ogni razza, età, e tutti quanti se ne vanno in giro brancolando e si portano le mani sulla fronte per dar sollievo agli occhi folgorati. Ai lati dei sentieri, innumerevoli muretti circondati da una gran folla, simili a quelli dove i burattinai fanno muovere i burattini, e le persone ci salgono sopra, ci improvvisano scene, si inventano delle storie, piangono, ridono, fanno amicizia e poi si tradiscono, si azzuffano e rifanno pace. Altri assistono allo spettacolo e aspettano il loro momento. Ma a dispetto di quelle farse nessuno può sfuggire alla luce devastante che infierisce sui corpi, nelle anime... ora immagina, alle spalle della gente, l’ingresso di una caverna, una voragine buia, profonda, nascosta da una gran massa arruffata di sterpi. Immagina che uno del pubblico – forse annoiato dalle recite, forse per via di un’intuizione improvvisa – giri la testa e veda! (si alza e si rivolge al pubblico) Incalzato dalla frenesia lui si lancia verso la caverna, si apre un varco fra le sterpaglie, trova l’entrata, è dentro! Dentro, in una notte elementare... (la luce cala lentamente) E non ha paura, la cecità non gli spezza il fiato mentre incespica nell’eco dei suoi passi fra sporgenze di calcare e tufo. (nel buio, sullo sfondo a sinistra, viene proiettato lo studio preparatorio per l’affresco l’Italia tra le arti e le scienze) ma all’improvviso, su quella parete laggiù, laggiù, fra spigoli di roccia, quelle figure che si affollano come ombre proiettate su un lenzuolo e si tingono di grigi, ocra, terre, bruni van dyck e grumi sanguinanti e spatolate azzurre come le vene che rigano i polsi... lui guarda stupefatto, si smarrisce in quell’evento misterioso, il tempo non scorre più mentre le ombre si fanno concrete, prendono corpo fra quelle tenebre, vengono, gli vogliono parlare, un enigma si scioglie lentamente e lui è sul punto di afferrarlo... (l’immagine sparisce. Si ode un crollo spaventoso. Il Personaggio fugge fuori scena. Fine del crollo) Sono il pittore Mario Sironi. Sono stato fascista e futurista. Futuristi e fascisti mi hanno coperto d’insulti. Sono esistito in bilico fra due mondi. Sono morto in una clinica milanese il tredici agosto del sessantuno. (Sironi entra nella foresta. Lo intravediamo fra gli alberi. Dal lato opposto irrompono i gemelli Fafù. Fa è vestito da squadrista e ha un manganello alla cintura, Fu indossa un abito futurista e sfoggia grandi baffi a manubrio. Dalla cintura gli pende un aggeggio bizzarro. Avanzano aggressivi)

 

All’uscita dalla mostra ho scattato la foto che vedete e poi è scoppiato un acquazzone e ci siamo salutati in fretta, in questo sabato 24 luglio del secondo anno senza Carnevale e in questa Cronaca 503 sironiana con gli occhi ancora pieni di bellezza e meraviglia.

venerdì 23 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/502. Oggi ti penso come si pensa al sorriso del ciliegio

 

 


Un’altra giornata afosa e zanzarosa, le cicale devono avere terminato il loro ciclo vitale perché non le sento più e di notte non ho ancora sentito i grilli. Questa è la città mai più silenziosa in questi giorni. Ma poi c’è il mio giardino incantato dove mi rifugio a leggere e scrivere, un luogo dell’anima prima ancora che fisico, un luogo dove poter respirare e lasciarmi rapire dalla bellezza della poesia. Anche oggi vi offro da leggere Danilo Bramati, dalla sua raccolta appena pubblicata L’ultima promessa.

 

 

Il rito

 

Oggi ti penso come si pensa

al sorriso del ciliegio.

Hai salutato il mondo?

Hai ruotato la sfera

nel palmo della tua mano,

accarezzato le terre e gli oceani?

 

Anch’io, sai, oggi mi sento

come uno che abita,

la mia casa è questo vento

che non distingue.

E adesso voglio compiere

il rito, adesso apparecchio la tavola

come un altare

poi tufferò le dita

nella tazza benedetta,

mi segnerò la pelle.

 

 

 

Abitare nel vento, accarezzare le terre e gli oceani, compiere un rito per rendere sacro anche il giorno più normale. È in questa dimensione fuori dal tempo e in un diverso spazio, dove la grande poesia ci può condurre anche a contemplare il sorriso di un ciliegio.

 

La vita è fatta soprattutto di questo, di attimi che diventano eternità, attimi che viviamo, scriviamo, ricordiamo, rileggiamo.

 

Oggi è venerdì 23 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 502 anch’essa immersa nella bellezza e nella gioia della poesia.

giovedì 22 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/501. In questo andare nel fuoco dei sentieri

 

 


 

Sui siti dei maggiori quotidiani italiani oggi prevalgono le informazioni sul Green Pass, riforma della Giustizia, colori delle zone d’Italia che dipendono dalle percentuali dei ricoveri e delle terapie intensive, che dire?

“Andate in vacanza, ma potreste non partire, o magari non tornare”, “Andate al teatro, al cinema, al ristorante, ma solo se avete il Green”. Da un lato il messaggio è liberi tutti, dall’altro state attenti. Il caos regna sovrano dal punto di vista comunicativo, ma le persone partono, cercano di vivere un’estate normale, negano l’evidenza, negano che il virus sa un problema. Il mondo è pieno di complottisti che continuano a scrivere post su “loro” che ci vogliono proni, asserviti e vaccinati. Ma la maggior parte delle persone che conosco si è vaccinata, alcuni con timore, alcuni ritardano perché hanno problemi di salute. Ma almeno nella mia bolla non è venuta meno la fiducia nella scienza e nell’autorevolezza di chi sa di cosa sta parlando. Seguendo il filo di questo elementare ragionamento non dovrei neanche star scrivendo questa Cronaca, la mia è un’opinione tra centinaia di migliaia, non sono medico, né tanto meno virologo, mi fido perché ho scelto di fidarmi.

Per tornare a scrivere in un campo di maggior confidenza com’è la poesia per me, stasera rileggerò un libro straordinario di Danilo Bramati che è appena uscito. Vi parlerò più e meglio di queste poesie meravigliose, per questa sera prendo commiato con le prime due poesie che aprono la raccolta:

 

 

L’ultima promessa

 

Al bordo di quale fiume

ho attraversato il sonno dei canneti

con un piede oltre il confine?

Smarriti i limiti

ero platano fra i platani,

una sostanza verde,

una crescita incosciente

ma avevo sogni, figure come sfingi

mi traducevano gli oracoli.

 

Era l’ultima promessa. Ora

il fiume giace in un bicchiere,

la riva accoglie

creature di fumo

che prima erano respiri.

 

§

 

Nel fuoco dei sentieri

 

Labile cosa il mondo,

labile cosa la poesia,

labile cosa anche la morte.

Guarda la primula sul ciglio

come si sfa, come si sfoglia

e si tramuta in soffio…


Ma tu sei vivo, abiti lo spazio

dove creature vanno e vengono,

non parli la lingua scura,

l’alfabeto delle ombre.

 

Quanti giri faranno le lancette

prima che l’ultima foglia autunnale

si stacchi, cada nella nebbia?

Perché ancora, ancora ti ossessiona

la memoria del platano

folgorato dalla luce?

 

Ma tu resta nel presente,

nelle cose elementari,

un germoglio, un canneto, un fiume, un sasso,

non consultare oracoli,

il destino è già qui,

in questo andare nel fuoco dei sentieri

con la polvere negli occhi.

 

 

Oggi è giovedì 22 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 501, avvolta in una nube di poesia e speranza.

mercoledì 24 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/381. L’intenzione, l’opera, un’immagine e quello che ne rimane



Voglio scegliere una scultura come simbolo di questa pandemia, ci penso, sfoglio vecchi cataloghi e immagini su Internet e poi è la Pietà Rondanini di Michelangelo, conservata a Milano nel Museo del Castello Sforzesco, che mi strappa una volta di più gli occhi e il cuore.

Le figure sono appena accennate, ancora imprigionate nel marmo opaco e niente hanno della magnifica opulenza della ben più nota Pietà conservata in Vaticano, scolpita da Michelangelo tra i ventidue e i ventiquattro anni, l’opera di un genio senza dubbio.

Ma la Pietà Rondanini, frutto dell’opera di un vecchio che ci lavora e lavora sino alla morte, è straziante proprio perché incompiuta, perché il corpo della madre e il corpo del figlio sono ancora un tutt’uno nella stessa materia, come prima della nascita del Cristo.

A partire da quest’opera mi sono chiesta se amo di più l’incompiuto, il mai finito, il frammento incompleto o se mi attraggano di più le rovine, le statue senza braccia, i busti senza testa. Nel primo caso possiamo contemplare soprattutto le intenzioni dell’artista, nel secondo quello che il tempo non ha sbriciolato dell’opera e delle intenzioni. In entrambi i casi possiamo fantasticare intorno alla figura intera che non conosceremo mai.

Il morire, la morte, un verbo e un sostantivo che avevamo espunto dalla nostra lingua quotidiana per relegarli nei film e nei videogiochi, si sono riappropriati della nostra narrazione e ci costringono a fare i conti con la pandemia e con quanto stiamo facendo, o non facendo, delle nostre vite.

A causa del virus si sono ammalate e sono morte moltissime persone che ho conosciuto: ex-colleghi, genitori di amici e conoscenti, amici d’infanzia. Tra loro l’ultimo è stato Don Antonio Attanasio, mio coetaneo; frequentavamo la stessa parrocchia e lo stesso oratorio, le stesse scuole da bambini. Lui aveva cercato di insegnarmi a suonare la chitarra, con scarsi risultati visto il mio orecchio latitante. Me lo ricordo molto bene quando suonava e quando cantava, mi ricordo le conversazioni, la sua profonda spiritualità e la vocazione precoce. Nel tempo ci eravamo persi di vista, come spesso accade, ma il sapere della sua morte mi ha addolorato. Non so se sua madre sia ancora viva, ma posso immaginarla aggrappata a quel figlio non più carne viva, ma simbolo del sacrificio.

In questo momento siamo tutti opere incompiute, opere senza intenzione e senza autore. Alcuni tra noi, quelli che sono già mancati in questi quattordici mesi, quelli che cadranno sotto gli attacchi del virus prima che la campagna vaccinale sia efficace, resteranno tali per sempre. Certo anche prima morivano centinaia di persone al giorno per le più svariate cause, anche oggi non ci sono solo i morti a causa del virus, ma oggi stiamo affrontando un evento collettivo ed epocale, un trauma le cui conseguenze a livello psicologico, emergeranno con il tempo. La maggior parte tra noi ricomincerà a breve a progettare, a costruire la propria vita, a pianificare il futuro, perché questa è la nostra natura, uno slancio continuo verso il futuro.

 

Per noi che siamo forma e spazio

 

Non scegliamo il marmo, non

scegliamo né il basamento, né

lo scalpello, solo la forma e

l’intenzione sono frutto della

nostra volontà e del nostro

ingegno. Per questo vale sempre

la pena di iniziare l’opera, anche

se del marmo fatichiamo a intuire

le venature profonde e una rottura

improvvisa potrebbe impedirci di

terminare e di girare intorno per

guardare e sentire che siamo forma

e spazio, non solo tempo che ci

attraversa e frantuma.

 

Questa poesia inedita e scritta oggi pomeriggio, la dedico al mio amico poeta Danilo Bramati: la preferenza della scultura alla pittura “perché possiamo girarci intorno” è sua. Il suo sguardo mi ha fatto scoprire proprio la consistenza della materia e la consistenza della poesia: un’opera cui possiamo lavorare intorno e sopra e sotto sino a quando non ne potremo più. Come Michelangelo immaginava nel blocco di marmo la statua e poteva affermare che la sua opera avveniva “per forza di levare”, così il poeta immagina nell’invisibile i versi e li trascina in questa realtà per farli risuonare. Ma sempre mi chiedo: viene prima l’immagine o prima il suono? E il ritmo è solo suono o anche perfetta forma geometrica? Penso, ci penserò ancora, e con questi pensieri torno a sedermi davanti al mio camino nella Casa delle Parole, la mia casa.

Questa è la Cronaca 381 di martedì 24 marzo 2021, secondo anno senza Carnevale.


 

lunedì 1 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/358: dove i nomi spariscono nel buio


 
 

La mia passione per gli alberi è cosa nota, e non solo per gli alberi ma per tutto il mondo vegetale: cespugli, fiori, erbe spontanee, semi in volo. Raccolgo le foglie cadute da quando ero una scolara delle elementari, cerco di imparare a riconoscere le specie a partire dalle foglie, tocco i tronchi e accarezzo le cortecce. Le creature del mondo vegetale mi trasmettono gioia e serenità, mi piace passare il tempo a contemplarli. Cosa che posso fare più nel giardino della Casa delle Parole che nella città silenziosa, ma anche qui non mancano le occasioni. Oggi, durante la lunga passeggiata a ora di pranzo, ho visto le prime forsythie fiorite e mi sono commossa. Poi quando sono tornata a casa il mio amico Danilo mi ha letto una sua nuova poesia che gli ho chiesto per inserirla in questa Cronaca:

 

Ode: alberi ignoti

 

Pensare agli alberi

è la cosa più difficile.

Non gli alberi nominati,

la magnolia, il tiglio

ma quelli muti, che non chiedono niente,

hanno un cuore che riposa in solitudine

e stanno lì, indifesi

e il vento, le ali non li sfiorano.

 

Quante volte nei sentieri

vi ho incontrato senza riconoscervi

e i vostri rami sfioravano le nuvole

senza lasciare traccia…

Ignoti, ignoti perfino a voi stessi!

Quale Orfeo vi canterà?

 

Ma vi restano le notti

dove i nomi spariscono nel buio,

i viali inferi dove

tigli, oleandri, platani, pioppi

e voi, alberi senza nome

siete tutti uguali.

 

Ignoti a noi stessi come lo sono gli alberi, tutti noi cerchiamo un Orfeo che canterà noi o la nostra assenza. Anche noi siamo senza nome, persi nella folla, tutti uguali, tranne che allo sguardo di chi ci riconosce perché ci ama.

Buona serata amiche e amici delle Cronache, oggi mi lascio cullare da questi versi inediti di Danilo Bramati e chiudo presto la Cronaca 358 di lunedì primo marzo del 2021, il secondo anno senza Carnevale. Gli alberi e il cielo appartengono alla città silenziosa e li ho fotografati la settimana scorsa.

venerdì 19 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/348: gli occhi non riflettono le immagini, gli occhi sono le immagini

 


I misteri della geometria, la rappresentazione del mondo in forme nette e riconoscibili, mi hanno affascinata sin da bambina (e tornerò su questo tema). Ieri ne ho sentito parlare con ardore e passione dal mio amico pittore Roberto Plevano, che conosco da oltre vent’anni e con cui ho collaborato molte volte, scrivendo poesie e prose poetiche a partire dalle sue opere che continuano a riempirmi di meraviglia e di stupore. In questi ultimi due anni Roberto ha lavorato a una monumentale autobiografia che intreccia vita privata, vita pubblica e opere. Compiuti i 70 anni, Roberto ha deciso che doveva e voleva raccontare se stesso e la sua pittura. Il tempo, le delusioni e le sconfitte non hanno mai fatto venire meno la sua passione, perché la sua è un’arte necessaria che dal mondo arriva nei suoi occhi e ne esce trasfigurata. Le forme geometriche che tanto gli sono care, popolano i suoi quadri e ritornano a noi accompagnate dai paesaggi che lo hanno colpito nel corso degli anni. Dopo il periodo figurativo, che segna gli esordi della sua carriera, dove sono protagoniste la casa natale e le montagne di Chiavenna, sono i Navigli milanesi, colti nella loro dimensione metafisica, a segnare il suo percorso negli anni Settanta del secolo scorso. E poi arriva la libertà delle vele dispiegate nelle sue “Regate veliche”, un’armonia di forme e di colori che mi ha suscitato uno dei miei racconti giovanili che più amo, “La città di vetro”. Negli anni Ottanta sono state le rocce della Gallura e quel mare dove lui ha nuotato sin quasi a smarrirsi per poi ritornare a riva e dipingere. Una collaborazione significativa tra di noi arriva a fine anni Novanta, inizio degli anni Duemila, quando ho scritto una poesia per ciascuna delle sue “Donne allo specchio” e insieme al compianto Mario Galzigna, abbiamo presentato le sue opere e le mie poesie alla Libreria Bocca di Milano, in Galleria Vittorio Emanuele.


Anche i “Big Bang” hanno caratterizzato le sue creazioni degli anni Novanta, insieme agli “Alberi della vita”. Una fase successiva, quella del “Tempo e le tracce” gli suggerirà anche il titolo per l’autobiografia, mentre andavano crescendo le collaborazioni con jazzisti del calibro di Guido Manusardi, Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia, con i quali anch’io partecipai a una serata fantastica in quel di Corsico. Nella sua vulcanica vitalità Roberto è stato anche direttore della rivista della Libreria Bocca e ha organizzato incontri con alcuni dei più importanti intellettuali italiani, tra cui Giulio Giorello. Il periodo delle “Crocefissioni” è stato un altro momento fecondo della nostra collaborazione, ma stare dietro all’evoluzione e alla ricerca di Roberto, al suo lavorare caparbiamente a prescindere dai riscontri della macchina economica e culturale che ruota intorno al mondo dell’arte, non è facile, bisogna avere buone gambe, risoluzione e fiato, proprio com’è lui. La “Route des serres” provenzale è una delle altre fasi della vita pittorica e personale di Roberto, un uomo in cui la bellezza del mondo e la gioia di vivere riverberano l’una nell’altra. “Anatomia del tempo, dello spazio e della materia” è un’altra delle fasi esplosive dell’opera di Plevano e poi, dato che il mondo lo permea, la pandemia ancora in corso non poteva non entrare nei suoi dipinti. Non sappiamo ancora quando il libro uscirà, ma speriamo molto presto. Roberto, per me, è il simbolo della resistenza umana e artistica, un uomo che ha molto vissuto, sofferto e amato, un artista che vive non solo in questo mondo, ma anche in quello che ha creato nei suoi quadri. Concordo con Danilo Bramati, grande amico e grande poeta, che così scrive in una poesia che fa parte della raccolta L’ultima promessa, di prossima pubblicazione nella collana Il passo di Efesto di Atì editore.

 

Sul margine

 

Sul margine del taccuino

trascrivo questo proverbio:

“Gli occhi non riflettono le immagini,

gli occhi sono le immagini”.

 

Per questo un artista e la sua opera sono un tutt’uno, per queste le forme e l’architettura dell’opera sono fondamentali, derivano dal nostro occhio e, a loro volta, lo plasmano, lo modellano.

Questa è la Cronaca 348 di venerdì 19 febbraio del secondo anno senza Carnevale ed è figlia di riflessioni, letture e sguardi che si perdono nel tempo, e che ascoltare Roberto ieri pomeriggio e leggere le poesie di Danilo questa mattina, hanno generato.

venerdì 5 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/334: dove ogni parola cerca la giusta collocazione e una rana felice gracida alle stelle

 



Siamo immersi nel mondo e nelle cose del mondo, nelle relazioni e negli slanci e fermarsi a cercare i confini tra il mondo esterno e la nostra casa, tra il mondo che percepiamo con i sensi e quello che abbiamo interiorizzato con la memoria e l’immagine è un esercizio, da filosofo e da poeta.

Io che filosofo non sono, amo le brevi incursioni in un campo del sapere che ho arato solo in un piccolo appezzamento occidentale.

Mi lascio andare alle mie interpretazioni poetiche mentre aro il campo che meglio conosco e lascio che siano i buoi a trascinare l’aratro e io tengo i piedi ben saldi tra le zolle e guardo il cielo che rispecchia l’aratura e so che i germogli arriveranno anche dal suo lato.

Gli stretti legami tra poesia e filosofia mi hanno sempre attratto e affascinato, a partire dal noto libro di Maria Zambrano. Però, ho anche sempre pensato che i filosofi attraversano il mare della poesia in barca, mentre i poeti lo fanno a nuoto. Diversa la prospettiva, diverso il metodo.

La filosofia si è costituita in disciplina e ha storia, pensatori, epoche e strumenti. Non che la poesia non abbia protagonisti, storia, epoche e strumenti. Ma la poesia non viene trasmessa e sperimentata nelle aule universitarie e nei cenacoli, almeno non in Italia, mentre la filosofia sì.

In questa epoca di passioni fredde e tristi, di tristezza conseguente alla pandemia, di fatica, di sgomento, credo che poesia e filosofia possano continuare a illuminare con le loro luci che arrivano dal passato, proprio come le stelle illuminano il cielo notturno. Per sprazzi e sguardi fugaci. Poi ci sono gli astronomi e gli astrofisici che scrutano il cielo con i loro potenti telescopi e cercano regole e ragioni laddove noi non vediamo che luce.

Anche i poeti hanno regole e ragioni che sono meno visibili di quelle della fisica e della storia della poesia stessa. Regole e ragioni sono venute meno durante tutto il Novecento, certe avanguardie, che non amo, hanno contribuito a una perdita di senso senza precedenti e a un confinamento della poesia ai margini del mondo.

Ma la poesia è pervasiva come la polvere: si infila in ogni dove, ne troviamo traccia anche dove non dovrebbe esserci e i poeti continuano a scriverne, come io stessa faccio quasi ogni giorno, perché il ritmo della poesia è qualcosa che appartiene al ritmo del respiro e dell’immaginazione. Inoltre, sono più che mai certa che per scrivere poesia, come per scrivere narrativa, si debba averne letta moltissima. L’orecchio e l’occhio poetico vanno educati come si fa per la musica e per la pittura.

Così me ne sto immersa nel mare della poesia e a volte emergo e salgo in barca con i filosofi e discuto, non solo tra me e me stessa, utilizzando gli strumenti che la mia arte mi ha concesso di forgiare con materiali sconosciuti.

Alchimia e poesia hanno molto in comune, credo. Scrivere poesia è un processo alchemico che si innesca anche solo con una piccola irruzione del mondo in noi. L’esito non è prevedibile, ma quando la poesia è buona e bella poesia, si stacca da chi l’ha scritta e vola via come fanno gli uccellini che lasciano il nido dopo che hanno imparato a volare. Il poeta, la poetessa sanno che una poesia che riconoscono e al contempo sentono distante, è una poesia riuscita.

Nella poesia continuo ad avere fiducia e a riporre la mia speranza perché i nostri cuori, le nostre emozioni continuino a essere permeabili al mondo e a desiderare.

 

La poesia ama il caffè e le sigarette

 

Ecco, ti vedo, mentre scrivi su

un taccuino intonso con gesti

rapidi e febbrili. La tazzina

del caffè non è ancora vuota,

la sigaretta accesa illumina

lo spazio ristretto che ti circonda.

Scrivi, poi ricopi, cancelli e

inizi da capo. Modifichi perché

la parola giusta reclama proprio

quella collocazione. Tu lo sai,

così cancelli, finisci il caffè e

accendi un’altra sigaretta.

 

Nel mio immaginario chi scrive ha sempre avuto un posto speciale. Un tavolino, una macchina da scrivere, taccuini intonsi o già fitti di annotazioni, un portacenere, molto caffè. Ecco la mia icona dello scrittore novecentesco. Poi ci sono le varianti di Proust steso nel suo letto che scrive febbrilmente, Jane Austen che scrive circondata dalla famiglia. Ci sono molti modi di essere poeta e scrittore, ci sono infiniti modi e ciascuno di noi ha il proprio. Ed è bello condividere questo essere donne e uomini di parola, innamorati della parola, della poesia, delle storie.

Tra le tante immagini una che mi diverte e mi piace, è quella della placida rana che regna sul suo placido stagno, seduta su una ninfea bianca e rosa, che gracida alla luna e alle stelle. Poi dorme, si sveglia e si tuffa e poi gracida al sole. È una rana felice, come sono felici i poeti che scrivono.

Questa è la Cronaca 334 di venerdì 5 febbraio del secondo anno senza Carnevale, la poesia è inedita ed è dedicata al mio amico poeta Danilo Bramati.

domenica 17 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/315: la tua pelle sfoglia ancora l’alfabeto delle nuvole

 



Una domenica pomeriggio, fa freddo, e il tempo continua a sembrare lo stesso dell’alba invernale, bianca e rosa, luminosa, rarefatta e solitaria. Neanche le cornacchie infrangono questa quiete della stagione e così possiamo solcare le strade come fossimo condottieri e non semplici passanti.

Poi ritorniamo e sorprendiamo la nostra abitazione che, ancora, non era pronta al nostro rientro. La sarabanda degli oggetti era ancora in corso e danzavano nell’aria i fogli manoscritti e i libri suonavano una melodia sconosciuta dai loro scranni, orchestra della memoria umana dove la nostra voce è inconsapevole direttore.

Mi accoglie la mia dimora, ma sono una tra i molti che vi hanno abitato nel corso dei decenni, quante storie da raccontare hanno queste mura?

 

Le ombre sono i gatti dell’invisibile

 

Ogni casa custodisce un segreto,

piccola ombra che emergi da un

angolo, da quale ritaglio di spazio

e tempo arrivi sino a noi? Parlano

le ombre, non sempre, se interrogate,

parlano e ridono sottovoce, solleticano

l’angolo che le ha protette e che ha

dato loro il via libera. Pochi umani

in giro, sono usciti a respirare il freddo

prima che la notte scenda e inghiotta

le ombre che non sanno gestire, ne

hanno paura e le scansano, non

hanno ancora imparato le verità

celate tra le cose non dette e

i rimpianti dell’inverno nel suo colmo,

padrone delle vite e dei nostri pensieri.

Si allarga l’angolo e le ombre si stirano,

sono i gatti dell’invisibile che abita

con noi. Allungo una mano e ne

sento la consistenza, la ritraggo

e un’intera costellazione risplende

là, dove c’erano le mie dita. Tutte

le linee indicano ormai solo una

strada, dove la poesia è cammino

e viaggiatore all’unisono, dove

il tempo è un bambino che corre,

un sogno dimenticato, l’ombra

tra il mio letto e un pensiero che

non diventa parola, ma solo

contemplazione per quella rosa

che sboccia nel gelo e ci ricorda

che è tempo, che è tempo

che sia tempo.

 

Così esploro la casa, ogni anfratto, cerco tracce di chi mi ha preceduto, risposte a domande non pronunciate. Scottano le pareti là dove altre mani si sono fermate, il pavimento diventa sabbia sotto ai miei piedi, quando calpesto impronte che arrivano dal passato. Se le ombre escono dagli angoli delle stanze, bisogna essere preparati ai tempi che si confondono e alle stelle che precipitano perché sentono anch’esse il richiamo di ciò che ritorno a essere visibile.

Il tempo si ammanta di invisibile per nascondere ai nostri occhi che tutto continua a esistere e respirare anche se con diversa frequenza. Quando l’invisibile si crepa, ecco che sentiamo le voci non solo nella nostra testa, ecco che anime del passato ci sorridono e tutto si apre nella gioia e nello stupore.

Oggi deve essere accaduto proprio questo, che il tempo si sia sfilacciato, che il sarto accorto abbia saltato un punto e visioni dell’altrove, di uno degli altrove, si siano manifestate.

 

Meraviglie

 

Ormai conosci a memoria le stanze,

il confine degli oggetti,

il loro sogno di essere irreali,

di diventare luce.

 

Le cose tendono alla nudità,

la teiera, il cucchiaino,

vegeta il tuo giardino,

si riflette negli specchi.

 

Non sei fatta per i miti, la tua pelle

sfoglia ancora l’alfabeto delle nuvole,

e ti accetto così. Mi ricompensi

con le tue meraviglie,

quella stupefazione nei tuoi occhi

se le farfalle sono mortali,

se la Terra ruota su se stessa

in un tempo dato.

 

Accolgo il dono di questa poesia e di questa sincronicità nella mia tessitura che ricuce il tempo, laddove il sarto, oggi, fa fatica a tenere insieme la stoffa e il filo. Quest’oggi è domenica 17 gennaio del secondo anno senza Carnevale. La Cronaca 315 ruota intorno alla doppia stella delle poesie inedite che avete appena letto. Meraviglie è di Danilo Bramati e Le ombre sono i gatti dell’invisibile è mia e risuona di Paul Celan, entrambe scritte in questo giorno d’inverno e d’incertezza. Le nuvole erano in cielo, sopra Milano il 17 luglio del 2016.

domenica 13 dicembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/280: dove più grande è l’ombra, più forte è la luce

 


Non è un caso che in dicembre, e oggi in particolare, festeggiamo la luce e le luci. Dicembre è il mese della luce, proprio quando siamo più vicini al sole e più obliqui, manifestiamo la nostra fame di luce, di chiarezza, di calore.

Lo sguardo non è un movimento a una sola via c’è chi guarda e chi è guardato, il mondo si offre ai nostri occhi tutto intero e noi pure siamo nello sguardo degli altri e in quello delle cose e delle altre creature animate e inanimate.

Noi esistiamo prima nello sguardo di chi ci guarda, poi nel nostro stesso sguardo quando ci guardiamo allo specchio, in una vetrina, nell’acqua.

Ma anche in una nuvola, in una stella, in un albero teso nel vento, anche in ciò che è opaco noi ci riflettiamo, quando lo facciamo con gli strumenti misteriosi della poesia.

Oggi è la festa di Santa Lucia e, qualche anno fa nel 2013, l’amico giornalista e organizzatore culturale Alessandro Bottelli chiese a diversi poeti e scrittori contemporanei, Nanni Balestrini, Mario Benedetti, Fernando Bandini, Pier Luigi Bacchini, Giancarlo Majorino, Roberto Mussapi, Gianni D’Elia, Franco Buffoni, Daniele Piccini, Danilo Bramati, Stefano Raimondi, Lorenzo Gobbi, Aldo Nove, Valeria Parrella, Gabriella Sica, Ida Travi, Vivian Lamarque, Elena Petrassi, Chandra Livia Candiani, Maria Pia Quintavalla, Giuseppe Conte, Giancarlo Pontiggia, Silvio Ramat, Valentino Zeichen, Andrea Vitali, un testo per la serata bergamasca dedicata a Santa Lucia.

In questa prima poesia è Danilo Bramati che dà voce alla povera Santa cieca:

  

Orbite


Così terribile è stare nel buio,

gli occhi strappati e calpestati.

Un vento gelido sfiora le orbite,

vuoti scuri e dolenti.

 

Mondo, mondo, ci sei?

Lucia… Lucia…

Chi sussurra il mio nome

nella tenebra? Voci ambigue,

aliti urlanti su di me.

 

Nome… nome di chi?

Nome strappato,

calpestato con gli occhi.

 

Così terribile è sanguinare

senza nome né orbite,

senza una mano che ti porge una rosa.

 

 

Lo sguardo è quindi ciò che tesse la relazione tra il nostro occhio e il mistero della rosa.

 

La mia poesia scritta per quell’occasione, l’ho poi pubblicata nel volume Scrivere il vento nel 2016.

 

 

Il segreto di Santa Lucia

 

Se fosse il nome a custodire

il segreto, se fosse oltre

la luce che porti dentro

il dono che illumina non

le fredde notti d’inverno ma

le ore fosche di quella notte

oscura che dimora nei cuori

senza più speranza.

È il nome che rivela la crepa

tra le nubi compatte d’Occidente

è la luce che dipana la stagione

e intreccia i tempi per i giorni

che verranno dopo l’oscurità.

È il dono del tuo sguardo a noi

invisibile, che pur senza guardare

noi o il mondo, accoglie ogni

nostro dolore e sfiora i rami

spogli e le strade deserte, guida

i nostri passi nel viaggio lungo

di questa stagione fredda.

 

 

Nel 2016 Alessandro mi invitò di nuovo a collaborare alla serata per Santa Lucia e con piacere accettai e scrissi una lettera e una poesia che mi fa piacere condividere in questa Cronaca 280.

 

Cara Santa Lucia, non ho mai scritto una lettera a un Santo e di rado mi raccolgo in preghiera.

Oggi però, in quella fase dell’anno in cui la luce si ritira e le giornate sono brevi parentesi tra due mantelli di oscurità, sento che è giunto il momento di scriverti pensando a te, alla verità della tua vita, agli occhi, allo sguardo, alla visione.

Non ti chiederò una grazia per i miei occhi stanchi. Ho iniziato a vederci male quando avevo undici anni e non l’ho detto a nessuno. Stavo giocando a palla-fuoco, quando una pallonata mi ha colpito in pieno viso. Lo spavento, il male e poi la percezione di una vista sbagliata dall'occhio destro. Ho fatto finta di niente fino all'anno successivo. Avevo ricevuto in regalo per il mio compleanno degli occhiali Ray-Ban da pilota. Erano poco femminili ed erano bellissimi. I miei genitori mi portarono a fare una visita oculistica di controllo e fu il disastro. Scoprii di essere miope all’occhio destro in maniera già piuttosto seria e di dovere iniziare a portare gli occhiali da vista. Piansi a dirotto, mi rifiutai di farlo, e alla fine mi arresi solo quando ottenni che i miei Ray-Ban diventassero gli occhiali da vista e da sole, con delle lenti fotocromatiche che alla luce diventavano via via più scure, sino a essere quasi nere.

Spesso però non li portavo gli occhiali, perché con tutti e due gli occhi ci vedevo ancora abbastanza bene. E fino a oltre i vent'anni, riuscii a non portarli tutti i giorni. Mi arresi solo quando cominciai a non riconoscere le persone per strada. E iniziai a portare le lenti a contatto, perché gli occhiali davano un’aria da “secchiona” come si diceva allora e io non volevo sembrarlo. Ma lo ero, sai? Una bambina e poi una ragazza studiosa, una vera talpa di biblioteca che preferiva stare rintanata nella sua cameretta a leggere anziché scendere in cortile a giocare. Separate da secoli le nostre vite non hanno davvero nulla in comune. Ho letto resoconti sulla tua di vita cercando qualcosa e forse un piccolo tratto del carattere in comune lo abbiamo: la caparbietà. Niente ti ha fatto recedere dalle tue convinzioni e dalla tua fede. Io, nonostante le difficoltà, non ho mai smesso di avere fede nel potere delle parole.

Così oggi, nel giorno a te dedicato, cara Santa Lucia ti scrivo per dirti che bisognerebbe aggiungerti ai santi patroni di poeti e scrittori. San Francesco e San Giovanni Evangelista adempiono bene ai loro compiti e di certo hanno il mestiere “in mano”. Ma tu, tu che evochi la luce, tu che proteggi la vista, aiutami a tenere limpido il mio sguardo, a non arrendermi di fronte alle ingiustizie. Aiutami a tenere salda la mia vocazione, questa chiamata che mi costringe a vivere ogni giorno una doppia vita immersa nel mondo reale da un lato e immersa nel mio mondo immaginato dall’altro. Perché nelle parole degli altri poeti e scrittori io trovo ogni giorno la forza e la gioia e al mondo vorrei restituire questa gioia e questa stessa forza.

Non accenderò una candela per te ora, cara Santa Lucia. Affiderò la mia devozione a questi semplici versi:

 

 

Il tuo nome risplende nella notte più profonda

e in questa notte io cerco la verità.

 

Più salgo con lo sguardo verso il cielo

più sento che il tuo nome mi chiama

verso la terra feconda che attende

la pioggia e la stagione che verrà.

 

Ora possiamo stare in silenzio,

sedute accanto allo stesso fuoco.

 


Ecco, a distanza di anni sottoscrivo sia la lettera che le poesie e ringrazio Danilo per avermi dato la sua per questa nuova Cronaca.

La luce di questo giorno si è già spenta, c’era il sole oggi, non il sole anomalo del 13 dicembre 1997 dove avevo attraversato la città a piedi in una giornata quasi primaverile, è per via della luce che ricordo quel giorno lontano.

È per via della luce e di Santa Lucia che ricorderò anche questo 13 dicembre dell’anno senza Carnevale.

Il dipinto è L’adorazione dei pastori di Georges de La Tour, in mostra a Milano proprio quest’anno.