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lunedì 21 dicembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/288: dove vengono narrate nuove storie per mettere in pari chi aveva dormito tutto l’anno


 


 

Non riusciva a svegliarsi, nel sogno stava dormendo e non riusciva a svegliarsi. Aveva la gola secca e qualcuno le stava sussurrando “Oh povera Bimba! Ma cosa ti è successo?”.

A fatica riuscì a interrompere quella girandola di frasi sempre uguali e quel disagio che la teneva inchiodata al letto.

La stanza era buia e fredda, non riusciva a capire se fosse notte fonda o mattino presto. L’ultima cosa che ricordava era il brindisi e che alle prime luci del’alba stavano ancora chiacchierando davanti al fuoco.

Non poteva avere dormito tutto il giorno, eppure, la sensazione di stordimento poteva spiegarsela solo così. Andò in cucina a bere un bicchiere d’acqua e lo sguardo le cadde sul calendario.

Ma come accidenti poteva essere il 31 marzo del 2020? E cos’era successo dopo Capodanno? Niente, il vuoto più totale, eppure il calendario non mentiva.

Sul tavolino davanti alla televisione c’era un settimanale aperto, andò subito a guardare la data che era giugno, la fine di giugno.

Cominciò a sudare freddo e corse a frugare nella borsetta, c’era la ricevuta di una pizzeria che risaliva a luglio e un biglietto del treno verso il mare ai primi di agosto.

Settembre era testimoniato dallo scontrino di una spesa e da una ricarica del cellulare. Ammonticchiati accanto al divano c’erano tutti i libri di Karen Blixen, parecchi della biblioteca e lei non li aveva riconsegnati! L’avrebbero bandita dal prestito vita natural durante.

Le tracce di settembre la portarono a ottobre, il 4 ottobre per la precisione, che era la data di scadenza di un bricco di latte. Era già stato aperto e non osò farlo di nuovo per evitare il cattivo odore che di certo ne sarebbe uscito.

Una bottiglia vuota di beaujolais le confermò che anche novembre era passato. Accanto alla bottiglia e al bicchiere c’erano i resti di un cartoccio di caldarroste.

Poi riconobbe le candele di Santa Lucia davanti alla finestra, ma continuava a non ricordare nulla.

Ma dove diavolo era finito il 2020? Doveva capire cosa fosse accaduto e tutta l’adrenalina che aveva in circolazione, fece sì che neanche si chiese se fosse proprio il caso di uscire.

Le finestre delle case erano tutte spente, vecchi fogli di giornale si contorcevano nel vento. Poi sentì di nuovo quella voce e si ricordò del sogno, del vecchio con la barba che la stava chiamando e del Teatro del Mondo.

Al paese un Teatro del Mondo non c’era, ma non si stupì di arrivarci dopo poche centinaia di metri.

L’atrio era buio e freddo, dal bar arrivava il ronzio del frigorifero, il guardaroba era vuoto.

In tasca aveva il solito pacchetto di sigarette e due accendini, che non si sa mai. Ringraziò il suo vizio perenne e spinse una delle porte di ingresso in platea.

Un chiarore arrivava dalla buca dell’orchestra e lei si avvicinò cercando di non fare rumore.

Attorno a un fuoco quieto c’erano il vecchio del sogno, un giovane allampanato dalla giubba multicolore, una ragazza incinta, un gattino, un cagnolino e un altro uomo con la barba di cui non riusciva a decifrare il viso a causa della danza delle ombre che il fuoco gli proiettava addosso.

-     Scusate se mi intrometto, ma temo di avere perso la memoria. Abito qui vicino, posso chiedervi chi siete? Il 2020 è già passato ma io non mi ricordo di averlo vissuto, mi raccontate cosa è successo?

Quando Lino la vide per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Occhi e bocca formavano tre cerchi quasi perfetti e tutti si erano svegliati a causa dei colpi di tosse.

Così sei teste si erano girate verso di lei e sembrava che anche il bambino nella pancia si stesse spostando per guardarla meglio.

-     Non può essere, non puoi essere tu! Esclamò Lino! – stavo giusto raccontando della tua storia, del pranzo di Natale, dei tuoi nuovi amici, della tua scomparsa… ma dove sei stata tutto questo tempo?

Bimba ne sapeva quanto lui.

-     Ho un vago ricordo di Natale e della notte di Capodanno, poi qualcosa deve essere successo. Ho trovato scontrini della spesa, giornali vecchi, biglietti del treno, una bottiglia vuota di vino novello. Ma io non mi ricordo niente di niente…

Lino chinò il capo e sospirò, quello che in cuor suo temeva e che non voleva raccontare era accaduto, anzi, stava continuando ad accadere e la chiamò per nome.

-     Parla Lino – lo esortò Geppo.

-    Sì, parla, dicci cosa è accaduto, non farci stare in pena più di quanto già non siamo -continuò la ragazza. 

-      Te lo chiedo anch’io vecchio. Cosa è successo a Bimba? E cosa sta succedendo a noi? Disse per ultimo Chino.

Alle sue parole una stralunata Bimba, sembrava essersi svegliata dopo una secchiata di acqua gelida in testa.


-     Bimba? Ma sono io Bimba! Adesso mi ricordo, parla dai non fare il prezioso che non sono tempi in cui scherzare questi.

Lino sembrava indeciso, guardava il fuoco e poi spostava lo sguardo su ciascuno di loro, sospirava e tornava a guardare il fuoco. Chiudeva gli occhi sospirava, borbottava qualcosa tra sé e se stesso e accipicchia, non gli veniva fuori una parola di bocca.

Il silenzio si era accomodato tra di loro e sembrava beneficiare del fuoco, più loro tacevano, più il silenzio cresceva e si fortificava.

Ma era curioso il silenzio, e non gli garbava stare lì senza far niente, così ravvivò il fuoco con dei ciocchi nuovi e lo scoppiettio delle fiamme risvegliò tutti da quell’atmosfera onirica.

-     È bene che tu la sappia ragazza mia, lo so che non ti ricordi niente, lo so che non ti ricordi di questi mesi che sono diventati una specie di marmellata temporale. E tu non puoi ricordarti di niente perché non ti abbiamo dato linfa per farti vivere nella nostra realtà. Io ti ho cercato nel sogno, ho cercato di svegliarti, sperando che una volta qui tu potessi fare qualcosa. Ma non potevi, poverina! Non potevi, perché tu sei lo spirito del Natale dell’anno passato.

Va detto che tutti conoscono il racconto di Dickens e l’affermazione di Lino era così assurda ed eccessiva che non poteva che essere vera.

Neanche il gioco delle fiammelle poteva celare la verità sul volto di Bimba che sapeva riconoscere il vero. Lei era lo spirito del Natale dell’anno passato e non aveva fatto niente, ma proprio niente per quasi un anno.

-     E adesso che si fa?

Era stata Miren, che parlava poco, a porre l’unica domanda sensata.

-     Adesso dobbiamo cercare lo spirito del Natale di quest’anno, ma non sarà facile trovarlo, lo vedo dai vostri vestiti malconci – disse Bimba rivolta a Lino e Chino.

Tutti si voltarono verso di lei e la guardavano come se fosse un oracolo, mentre lei sapeva di essere solo la cassiera di un supermercato che aveva vissuto nel sogno di un vecchio di nome Lino. C’era di che perdere la testa, ma lei conosceva a memoria tutti i prezzi dei beni venduti nel suo supermercato. Doveva ritrovare i suoi amici, prima di tutto e per farlo doveva farsi raccontare da loro cosa fosse mai accaduto durante i mesi nei quali aveva quasi sempre dormito.


Oggi è lunedì 21 dicembre dell’anno senza Carnevale, giorno del solstizio d’inverno e questa è la Cronaca 288, terza parte della mia favola di Natale.


domenica 5 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/28: nuotatori celesti, naufraghi dei cieli


Il fulmine dormiva accanto al camino spento, la terra aveva preso posto nel giardino, le nuvole si rincorrevano sulle cime degli alberi, le piogge zampillavano nella fontana.

Caterina non era stanca del suo lungo volo, era stupita di essere arrivata, soprattutto perché il sogno e l’immaginazione si erano adagiati sulla realtà e non vi erano crepe tra il desiderio solo immaginato e quello che stava provando. Lui si avvicinò, lui ha un nome segreto che non possiamo pronunciare ad alta voce, lui si avvicinò e la prese tra le braccia. Le ali splendenti si ripiegarono al suo tocco e anche gli occhi di lei diventarono, per un istante, verdi come le acque della fontana di Vaucluse.

Ogni dono contiene il suo reciproco, ogni dono è uno scambio amoroso, così lui dovette togliere il maglione perché la schiena fremeva come un puledro impazzito, e quando lo tolse sentì le giovani ali che lei gli aveva trasmesso dispiegarsi e risplendere nella luce.

Vieni, gli disse Caterina vestita di promesse, vieni con me. Per non spaventarlo lo fece scendere in giardino, lo portò in una piccola radura cinta di rose in fiore e con un solo colpo di reni si slanciò verso il cielo. Lui non ebbe tempo di decidere, vide solo la casa diventare piccola, poi piccolissima, poi svanire e solo il vapore acqueo avvolgeva le cose e i loro corpi volanti, calati nella vita dell’aria. Le stelle rimanevano lontane, non erano la meta di quel volo celeste, il mondo umano era la loro àncora, il tempo non era un abisso pieno di date, ma una nuvola di incertezza e di possibilità non ancora scritte, quel volo umano non si sarebbe infranto nel volo di Icaro, perché era simile agli dèi chi sapeva lasciar crescere quelle ali intessute d’amore e di immaginazione.

Videro dal settimo cielo il pianeta farsi simile a un’arancia blu e azzurra, respiravano quella luce che le stelle scagliavano contro noi tutti e ne fecero parole umane per poter narrare il ritorno.

Perché dire solo il viaggio di andata risveglia la curiosità per quanto accadrà al di fuori di noi, ma è solo con il viaggio di ritorno che potremo misurare le dimensioni del cambiamento.

Piano si lasciarono portare dai venti ascensionali e poi si tuffarono verso le acque profondissime del Mare Mediterraneo. La spiaggia era deserta, le onde piatte, il sole non era ancora giunto al suo zenit e prima che ciò accadesse, sapevano di dover ritornare. Le ali di lui stavano crescendo e avrebbe già potuto volare da solo, ma perché non farlo ancora abbracciati?

Si slanciarono verso i venti che li avrebbero condotti a casa, si abbandonarono all'aria come ci si abbandona al mare, immobili, invincibili, con il viso rivolto al sole.
La casa li stava chiamando, non c’erano rotte da impostare o stelle da seguire, bastava lasciarsi andare al vento, bastava affidarsi al volo. Tutto sarebbe accaduto nell'ordine desiderato, ogni sosta un naufragio e una scoperta, il lungo viaggio era appena iniziato.

Cosa siamo in fondo noi, ogni volta che sospiriamo verso un cielo magnifico che le vicende terrestri ci precludono?

Nuotatori celesti, naufraghi dei cieli.

(anche il titolo di questa Cronaca è un verso di Pedro Salinas)

venerdì 12 gennaio 2018

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
Gli inviti superflui

mercoledì 1 marzo 2017

Scrivo di notte. Scrivo prosa come se facessi poesia

Quando hai cominciato a scrivere?
Ho l'impressione di avere sempre scritto. Subito dopo essermi laureata con una tesi su Henry James sono tornata a New York e cominciato a scrivere un romanzo, To Mercy, Pity, Peace, and Love (da un verso di William Blake). Ci ho lavorato per sette anni, poi mi sono interrotta. Avevo deciso che, visto che il mercato editoriale premiava in quel momento gli scrittori di short story e che bastavano tre racconti brevi per fare un libro, dovevo produrne uno anch'io in non più di sei settimane.
Così ho cominciato a scrivere quello che doveva essere un semplice racconto e mi ci sono voluti esattamente sette anni per finirlo e darlo alle stampe. Si tratta di Trust. Al mio primo romanzo non sono mai più tornata. (...)

Hai sempre e soltanto scritto o hai fatto anche altri lavori?
Ho fatto un po' d'insegnamento, un po' di pubblicità, qualche conferenza, ma io non voglio insegnare. L'ultima volta che ho tenuto un corso è stato bellissimo, anzi troppo bello. Avevo dodici studenti e non me ne sono ancora liberata. Era finita che si sono trasformati tutti in figli miei e io ne ero orgogliosissima. Ma non posso fare da madre a migliaia di persone. È una cosa che consuma. È che mi innamoro di questi giovani scrittori, provo dei veri e propri sentimenti nei loro confronti. Diventano tutta la mia vita. e non rimane niente altro. Per me e per il mio modo di scrivere è un grosso problema. Io sono infatti una scrittrice lentissima. Ho bisogno di molto tempo per pensare, per riflettere. Mi ci vuole un'eternità anche per scrivere una sola frase, perché continuo a fare cambiamenti, esperimenti. Non mi capita mai di correre. Scrivo prosa come se facessi poesia. Sono tutta presa dai problemi di costruzione ed equilibrio, di cadenza. È poesia.

Come scrivi?
In modo antiquato: con carta e penna. Fino a poco tempo fa senza orari precisi, ma sempre di notte. Più o meno fino alle sei del mattino. Un anno fa mi sono ammalata e non ho ancora ritrovato l'energia sufficiente per riprendere i miei ritmi originari. 
Scrivo di notte per due ragioni. Primo perché sono stata allenata a lavorare di notte. I miei genitori durante gli anni della Depressione avevano un drugstore. I loro orari di lavoro erano feroci, tenevano aperto fino all'una, due di notte. Poi venivano a casa e si cenava e lì cominciava la nostra socialità familiare. Un training che risale alla mia infanzia.
La seconda ragione è che il mondo se ne va attorno a mezzanotte. Il telefono smette di squillare. Si è quieti durante le ore notturne, non c'è nessuno a disturbarti e non ci si sente responsabili di nessuno. Ci si sente liberi e io per scrivere ho bisogno di libertà. In particolare adesso che ricevo tutta questa attenzione di pubblico e di critica le giornate sono scoraggianti. In teoria non dovrei fare altro che rispondere al telefono, leggere e scrivere lettere.
Tutte queste responsabilità. Ci sono settimane in cui il tempo non mi basta neppure per tenermi al passo con la corrispondenza. Non voglio essere scortese con nessuno, ma è un gran peso e non ho ancora capito come districarmi. Mi chiedo come se la cavi John Updike, tanto per nominare il più popolare degli scrittori americani di oggi. (...)

frammenti dell'intervista "Il senso esiste" a Cynthia Ozick in 

Maria Nadotti
Prove d'ascolto
Incontri con artisti e saggisti del nostro tempo 
edizioni dell'asino 2011

venerdì 30 dicembre 2016

il silenzio di Parigi...

Improvvisamente ci rendemmo conto che qualcuno, già da un po', ci parlava. Sì, la nonna ci stava raccontando!
«Era l'inverno del 1910 e dovevo avere pressapoco la vostra età. La Senna si era trasformata in un mare: i parigini giravano in barca, le strade assomigliavano a fiumi, le piazze a grandi laghi. E quello che più mi stupiva era il silenzio...»
Anche noi lo sentivamo, sul nostro balcone, quel silenzio sonnacchioso, il silenzio di Parigi inondata. Un leggero sciabordio al passaggio di una barca, una voce attutita in fondo a un viale allagato...
La Francia della nonna, simile a un'Atlantide brumosa, affiorava dai flutti.

Andreï Makine
Il testamento francese
traduzione di Laura Frausin Guarino
Einaudi 2008

mercoledì 28 dicembre 2016

sapevo anche che dovevo scrivere un romanzo

Sapevo che dovevo scrivere un romanzo. Ma sembrava cosa impossibile da fare quando fin lì avevo cercato con grande difficoltà di scrivere dei paragrafi che fossero il distillato di quello che costituiva un romanzo. Ora diventava necessario scrivere racconti più lunghi, come ti alleneresti per una gara più lunga. Nel romanzo che avevo scritto prima, quello che era andato perso nella borsa rubata alla Gare de Lyon, avevo ancora il facile lirismo dell’adolescenza, che era deperibile e ingannevole quanto lo era la giovinezza. Sapevo che era probabilmente una buona cosa che fosse andato perduto, ma sapevo anche che dovevo scrivere un romanzo. Lo avrei rimandato finché non avessi potuto evitare di farlo. Potessi andare al diavolo se ne avessi scritto uno, perché quella era la cosa che avrei dovuto fare per poter mangiare regolarmente. Quando avessi dovuto scriverlo, allora sarebbe stata l’unica cosa da fare, e non ci sarebbe stata altra scelta. Lasciamo che la pressione aumenti. Nel frattempo avrei scritto un racconto lungo su una qualsiasi cosa che conoscessi meglio delle altre. A quel punto avevo pagato il conto ed ero uscito e avevo girato a destra e attraversato rue de Rennes così che non sarei andato ai Deux-Magots a bere un caffè e stavo risalendo rue Bonaparte nel suo percorso più breve verso casa. 

Che cosa conoscevo meglio che non avessi già scritto e perduto? Che cosa conoscevo davvero e mi stava a cuore più di tutto? Non c’era scelta. C’era solo da scegliere le strade che ti riportassero più in fretta possibile là, là dove lavoravi. Procedetti sulla Bonaparte fino alla Guynemer poi verso rue d'Assas attraverso rue Notre-Dame-des-Champs fino alla Closerie des Lilas.

Mi sedetti in un angolo con la luce del pomeriggio che mi arrivava da dietro le spalle e scrissi sul quaderno. Il cameriere mi porto un café crème e io ne bevvi metà quando si raffreddò e lo lasciai sul tavolo mentre scrivevo.

Ernest Hemingway
Festa mobile

traduzione di Luigi Lunari
edizione restaurata
Oscar Mondadori giugno 2011



giovedì 16 giugno 2016

da dove arrivano le storie

Quando comincia una storia ha già tutto chiaro?
Non è chiaro, all'inizio. Spesso ho un’idea, ma è un’idea molto vaga. Provo a entrare nel mondo della storia, cerco la porta giusta. Può essere quella porta oppure un’altra, oppure una finestra, non lo so, ma devo trovarmi dentro la storia, devo trovare l’ingresso. È difficile, perché spesso una storia non comincia con l’incipit.
Come si arriva all'incipit allora?
Io ci arrivo scrivendo e pensando. A volte comincio una storia, scrivo, scrivo e a un certo punto mi dico: “Ah, deve iniziare qui!” E magari succede dopo aver scritto molte pagine. Arrivo a un momento che mi sembra giusto, spesso ci vuole qualche mese per scoprire l’incipit. Lo spunto può essere un dettaglio, una scena, un pezzettino di dialogo, dipende. Di rado un incipit è ovvio, di rado si presenta così, purtroppo.
Un esempio?
Con La moglie io sapevo che la descrizione dell’ambiente era l’incipit giusto. Ma ci ho messo anni per ridurre quella descrizione a una pagina. Prima era un capitolo di otto o nove pagine e mi sembrava troppo. Ho dovuto togliere tutto. La scena al Tolly Club è arrivata dopo qualche anno. Perché io devo capire innanzitutto i personaggi, senza averli capiti non riesco a capire la storia: loro mi danno tutto, anche la struttura.
Ci parla del lavoro preliminare, quello che si svolge nella sua mente, prima di cominciare? Quando capisce che un’idea può diventare un romanzo?
Non riesco a capire senza scrivere. Ho in mente una cosa, un’idea vaga, poi prendo qualche appunto o scrivo un paragrafo, una descrizione: un viso, un paesaggio, un sentimento, un’emozione. Poi, però, ci vuole un motore. Capisco che è giusto quando c’è un movimento, quando la storia si svolge. Allora è chiaro: se c’è un movimento che posso seguire, c’è un’energia, c’è qualcosa di inevitabile.
Che cosa deve avere un incipit per catturare il lettore fin dalle prime righe? Ci sono inizi lenti e inizi folgoranti. Lei cosa preferisce?
Dipende. Può essere lento o può essere folgorante. A me piace cambiare. Per esempio, ho scritto un racconto intitolato Una volta nella vita che inizia molto lentamente: non si capisce dove andrà la storia, è un incipit disteso, non c’è una tensione o un dramma che si vede subito. Ma è arrivato così. Come si entra in un posto? Si può entrare direttamente: ecco la porta, andiamo. Ma la via può anche essere lunga, rilassata. A me piace seguire il mio istinto, non ho nessuna formula.
Nei racconti, spesso lei comincia da un accidente o da una situazione: da un guasto alla luce o da un trasloco. L’incipit di un racconto dev'essere diverso da quello di un romanzo?
L’inizio deve introdurre gli elementi della storia. Il romanzo può iniziare in modo più lento, invece nel racconto è importante iniziare in mezzo alle cose, l’incipit deve essere più veloce perché tutto è più urgente. Dà velocità al racconto, un incipit del genere, è importante. Un racconto è come un treno che passa. Un romanzo è come andare in macchina: si entra, si gira la chiave, poi si accelera.
frammento dell'intervista di Caterina Bonvicini a Jhumpa Lahiri
L'arte di raccontare
Nottetempo 2015

martedì 3 maggio 2016

la stella non ha finito il suo racconto alla sera

Dalla strada io vengo, o primavera,
dov'è sospeso il pioppo
la lontananza paventa, la casa teme di crollare,
ove l'aria è azzurra come il fagotto della biancheria
di chi, guarito, esce dall'ospedale.
Ove la sera è vuota come un racconto interrotto
l'ha lasciato una stella senza terminarlo
per rendere confusi mille occhi chiassosi,
senza fondo e privi di espressione.

Boris Leonidovič Pasternak
Poesie 
traduzione di Angelo Maria Ripellino
Einaudi 1957

martedì 16 febbraio 2016

Scegliere cosa scrivere: un fulmine o un lento ruminare?

Scrivo un romanzo o scrivo un racconto? 

(...)

Il racconto è un fulmine di grande unità drammaturgica, il romanzo il lento ruminare del mondo.


Alberto Garlini
dialogo con Colm 
Tóibín
in
L'arte di raccontare
Alberto Garlini - Caterina Bonvicini
Nottetempo 2015

giovedì 5 febbraio 2015

Una tessitura accurata, un equilibrio di tutte le parti: questo significa scrivere racconti

Cosa significa affidarsi alla misura stretta di un racconto rispetto all'architettura di un romanzo?

Nel romanzo si diluiscono le difficoltà. In un racconto non mi piace il tono muscolare della scrittura, ma il nitore. Amo la sapienza accorta, il taglio artigianale, l'idea che qualcosa possa essere fatta per bene, senza fretta e sciatteria. Non mi interessa la storia o la scena. Non sono una scrittrice di fatti. Mi basta un particolare, un trasalimento o un moto affettivo. È questo che coordina a sé le parole come in un movimento a spirale. Bado che ci sia una tessitura accurata, un equilibrio di tutte le parti. Non è intimismo ma intimità. Ognuna di quelle parole passa per il corpo, entra in profondità, si inscrive in una linea fluida. Poi c'è da stabilire un contatto tra questo fluire e il segno sulla pagina. È il momento della forma: unione di materia e astrazione, corpo e spirito.



La conversazione di Grazia Livi  con Marina Peral Sànchez e Lucia Tancredi a Milano nel maggio 2014 è in appendice alla raccolta di racconti Sognami ancoragià editi e scelti da Grazia con il figlio Gabriele, pubblicata dalla casa editrice ev di Treia (MC)

mercoledì 17 settembre 2014

Scrivere è la costruzione lenta e laboriosa di un'immagine del mondo

Ancora prima di accennare ai suoi argomenti, mi sembra che La sposa di Mauro Covacich (Bompiani) sia un libro da lodare per come è stato concepito dal punto di vista formale. Purtroppo, si parla sempre meno di questi aspetti, per così dire, artigianali e di bottega della scrittura, che invece sono sempre interessanti e rivelatori. Tendiamo spesso a dimenticare che la letteratura per essere efficace è un’opera d’arte, la costruzione lenta e laboriosa di un’immagine del mondo, e non semplicemente una serie di argomenti, di storie più o meno ben scritte.
Ebbene, l’esperimento tentato da Covacich, in questo suo ultimo libro, è molto
ben riuscito. 
La strada scelta è quella di un discorso narrativo che è a metà strada fra la raccolta di racconti e il romanzo
Utilizzando con intelligenza un vecchio trucco (i vecchi trucchi sono i soli che funzionano), Covacich ha costruito un libro di storie autonome, ma legate tra loro da fili sottili e tenaci, così che il protagonista di un racconto può apparire sullo sfondo di un altro, dando all'insieme un effetto di realtà unicaconsiderata da vari punti di vista.
Lo scopo dichiarato dell’autore non è però quello di aggredire la famigerata «realtà » in quanto tale, ma di dare un certo ordine e un certo significato a un «flusso di pensieri sul presente». 
Anche se è una confusione facile e quasi naturale, non dobbiamo mai confondere l’interesse per il presente e quello per la realtà. 
Così come la realtà genera molti tentativi di realismo artistico,
così l’idea del presente ispira qualcosa che, per analogia, potremmo definire
«presentismo». 
Ma non è che il presente sia più facile da rappresentare della
realtà. Lo scrittore spronato da questo interesse è sempre costretto a confrontarsi con la natura più intima e reale del presente, che è quello di essere effimero, e quasi privo di sostanza, prossimo all'illusione.

Le storie autonome legate tra loro da fili sottili e tenaci sono la mia passione, il mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese l'ho scritto usando questo "vecchio trucco".

Dal Corriere della Sera sabato 13 settembre 2014 questo è l'incipit della recensione di Emanuele Trevi al nuovo romanzo di 
Mauro Covacich
La sposa
Bompiani 2012

martedì 29 luglio 2014

In cima a ogni nuvola per tutti i cieli

Due lettere
I
Lettera da
Anche se vi fosse stata una luna crescente
In cima a ogni nuvola per tutti i cieli,
Che inondasse la sera di luce cristallina,
Si sarebbe desiderato dell’altro, altro, altro:
Qualche interno fedele a cui ritornare,
Una casa contro il proprio io, un’oscurità,
Un agio in cui vivere la vita di un momento,
Il momento di amore e fortuna di una vita,
Libero da tutto il resto, libero soprattutto dal pensiero.
Sarebbe stato come accendere una candela,
Come appoggiarsi a un tavolo, proteggendosi gli occhi
E ascoltando un racconto che si desiderava intensamente ascoltare,
Come se fossimo tutti seduti di nuovo insieme
E uno di noi parlasse e tutti credessimo
A quel che ascoltassimo e la luce, pur poca, bastasse.
Wallace Stevens
Il mondo come meditazione
a cura di Massimo Bacigalupo
Guanda 1998

domenica 18 maggio 2014

Il narrare è l'atto stesso in cui si esalta la magia della parola

Il narrare è l'atto stesso in cui si esalta la magia della parola, la sua capacità non solo informativa, ma performativa, cioè la sua efficacia trasformatrice e liberatrice... Il racconto è, dunque, una atto di fiducia e l'ascolto partecipe un atto d'amore. È «un cammino verso il senso» che scopri dipanando sia le fila della tua storia sia creando una vicenda esemplare pur se fittizia.

Gianfranco Ravasi
frammenti dell'articolo "A Dio piacciono le storie. Sant'Agostino, Sharazad, Proust, Calvino: narrare è salvarsi. Perché ogni racconto è un atto di fiducia che libera dal dolore".
Corriere della Sera domenica 18 maggio 2014