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sabato 28 novembre 2015

Scrivere è parlare delle brughiera facendo soffiare il vento e ruggire il tuono:Virginia Woolf sulle sorelle Brontë

 Il significato di un libro, che tanto spesso non si trova affatto in ciò che vi accade, in ciò che vi è detto, e consiste piuttosto in un nesso che cose in sé differenti hanno assunto per lo scrittore, è inevitabilmente difficile da afferrare. È specialmente così quando, come nel caso delle Brontë, lo scrittore è poetico e il suo significato inseparabile dal suo linguaggio e di per sé più un modo di sentire, che un’osservazione particolare. Cime tempestose è un libro più difficile da capire di Jane Eyre, perché Emily era più poeta di Charlotte. Scrivendo, Charlotte diceva con eloquenza e splendore e passione «io amo», «io odio», «io soffro». La sua esperienza, anche se più intensa, è allo stesso livello della nostra. Ma non c’è «io» in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C’è l’amore, ma non è l’amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. Tale gigantesca ambizione si fa sentire in tutto il romanzo – una lotta, a metà frustrata, ma di superba convinzione, per dire tramite la bocca dei personaggi qualcosa che non sia soltanto «io amo», «io odio», ma «noi, l’intera razza umana», e «voi, potenze eterne»… la frase rimane incompiuta. Non è strano che sia così; sorprende piuttosto che riesca a farci sentire ciò che aveva in animo di dire. Trabocca dalle parole a metà disarticolate di Catherine Earnshaw, «Se tutto fosse perito e lui solo rimasto, io continuerei a esistere; e se tutto rimanesse e lui fosse annientato, l’universo si trasformerebbe in un possente estraneo, non me ne sentirei parte». E ancora irrompe nella presenza dei morti: «Vedo un riposo che né la terra né l’inferno possono troncare e sento la sicurezza dell’aldilà infinito e privo di ombre – l’eternità in cui sono entrati – dove la vita è illimitata nella sua durata e l’amore nella sua simpatia e la gioia nella sua pienezza». È questa allusione a un potere che soggiace alle apparizioni della natura umana e le solleva alla presenza della grandezza che dà al libro la sua enorme statura tra altri romanzi. Ma a Emily Brontë non bastava scrivere poche liriche, emettere un grido, esprimere un credo. Nelle sue poesie lo fece una volta per tutte, e le sue poesie forse sopravviveranno al romanzo. Ma era un romanziere oltre che un poeta. Doveva accollarsi un compito più laborioso e più ingrato. Doveva confrontarsi col fatto di altre esistenze, venire alle prese col meccanismo delle cose esteriori, costruire in forma riconoscibile case, fattorie e riportare la lingua degli uomini e delle donne che esistevano indipendentemente da lei. Raggiungiamo così quegli apici di emozione non a forza di discorsi ampollosi, di estasi, ma sentendo una ragazza che canta per sé sola vecchie canzoni mentre si dondola tra i rami di un albero; guardando le
greggi di pecore che pascolano nella brughiera; ascoltando il vento soffice che respira nell'erba. Si apre ai nostri occhi la vita della fattoria con tutte le sue assurdità e improbabilità. Ci è offerta ogni occasione di paragonare Cime tempestose con una fattoria vera e Heathcliff con un uomo vero. Siamo anche liberi di chiederci come fanno a esserci verità, introspezione, le più delicate sfumature dell’emozione, in uomini e donne che così poco somigliano a ciò che siamo abituati a vedere? Ma proprio mentre ce lo chiediamo vediamo in Heathcliff il fratello che una sorella geniale ha saputo vedere; è impossibile, viene da dire, e nondimeno nessun ragazzo della letteratura ha un’esistenza più vivida della sua. Lo stesso accade con le due Catherine; non c’è donna che possa sentire o agire come loro, ci diciamo. E tuttavia, sono tra le donne più amate della letteratura inglese. È come se lei sapesse lacerare tutto ciò che sappiamo degli esseri umani, e riempire queste irriconoscibili trasparenze con tali empiti di vita che trascendono la realtà. Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera far soffiare il vento e ruggire il tuono.

tratto da «Jane Eyre and Wuthering Heights», The Common Reader: First Series, The Hogarth Press, London 1925

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011


sabato 21 novembre 2015

I cieli incombono pesanti e scuri – un relitto naviga da occidente, le nuvole mutano in strane forme

Gli scrittori egocentrici ed egolimitati hanno un potere negato a quelli più ecumenici e di larghe vedute. Le loro impressioni, benché tra mura ristrette, sono densissime e ben marcate. Niente esce dalla loro mente che non sia segnato dalla loro impronta. Imparano poco dagli altri scrittori e ciò che adottano non riescono ad assimilarlo. Sia Hardy che Charlotte Brontë sembra che abbiano fondato il loro stile su un rigido e decoroso giornalismo. La materia prima della loro prosa è ingrata e inelastica. Ma con fatica, e integrità la più ostinata, pensando ogni pensiero finché questo non si sia arreso alle parole, hanno entrambi forgiato ognuno da sé una prosa che interamente si modella secondo la forma della loro mente; che ha, in aggiunta, una bellezza, una potenza, una velocità tutta sua. Charlotte Brontë almeno non doveva niente alla lettura di molti libri. Non imparò mai la scioltezza dello scrittore professionista, né acquisì l’abilità di rimpinzare e signoreggiare il linguaggio a suo piacere. «Non sono mai riuscita a sostenere la comunicazione con delle menti forti, discrete, raffinate, sia maschili che femminili» scrive, come avrebbe potuto scrivere qualsiasi editorialista in un giornale di provincia; poi acquistando vigore e velocità prosegue con la sua voce più autentica «finché non avessi oltrepassato le fortificazioni del riserbo convenzionale e superato la soglia dell’intimità, e non avessi vinto un posto nel focolare del loro cuore». È qui che lei si trova al suo posto, è la luce rossa e intermittente della fiamma del cuore che illumina la sua pagina. In altre parole, leggiamo Charlotte Brontë non per la squisita osservazione del personaggio – i suoi personaggi sono vigorosi ed elementari; non per la commedia – la sua è truce e rozza; non per una concezione filosofica della vita – la sua è quella della figlia di un parroco di campagna; ma per la sua poesia. È probabile che sia sempre così con quegli scrittori che come lei abbiano una personalità travolgente, i quali, come diciamo nella vita vera, non hanno che da aprire la porta per farsi sentire. C’è in loro una specie di indomita ferocia perpetuamente in lotta con l’ordine accettato delle cose, che fa loro desiderare di creare all’istante piuttosto che osservare pazientemente. Proprio questo ardore, che rifiuta le mezze ombre e altri impedimenti minori, sorvola sul comportamento quotidiano della gente normale e si allea con le loro passioni più inarticolate. Li fa poeti o, se scelgono di scrivere in prosa, li rende intolleranti delle sue restrizioni. Ecco perché sia Emily che Charlotte invocano sempre l’aiuto della natura. Entrambe sentono il bisogno di un simbolo delle vaste e sopite passioni della natura umana più potente di quanto le parole e le azioni possano comunicare. È con la descrizione di una tempesta che Charlotte conclude il suo più bel romanzo, Villette. «I cieli incombono pesanti e scuri – un relitto naviga da occidente, le nuvole mutano in strane forme.» Chiama qui la natura a descrivere uno stato della mente che non poteva venire espresso altrimenti. Ma nessuna delle due sorelle osservò la natura con l’accuratezza di Dorothy Wordsworth, o la dipinse con la minuzia di Tennyson. Colsero quegli aspetti della terra che erano più affini a ciò che sentivano loro o attribuivano ai loro personaggi, e così le loro tempeste, le loro brughiere, i loro incantevoli spazi di clima estivo non sono ornamenti lì a decorare una pagina noiosa o esibire i poteri di osservazione dello scrittore – traducono l’emozione e illuminano il significato del libro.

tratto da «Jane Eyre and Wuthering Heights», The Common Reader: First Series, The Hogarth Press, London 1925

Virginia Woolf
Voltando pagina
Saggi 1904-1941
a cura di Liliana Rampello
Il Saggiatore 2011