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sabato 12 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/706. Piccole riflessioni e tre parole: incertezza, perdita e fiducia

 



Ho imparato l’incertezza in questi anni, forse ho imparato a ricordarla, a ricordare pandemie minori degli anni Sessanta del secolo scorso, crisi geo-politiche, la Guerra fredda e la sua fine, la caduta del Muro di Berlino, l’implosione della Jugoslavia, l’assedio di Sarajevo, le guerre del Golfo e così a ritroso e avanti e indietro nel tempo. La nostra civiltà aveva relegato la morte nei videogiochi, dove si risorge, e nei libri gialli e neri, dove l’assassino viene quasi sempre punito. Il virus non aveva volto, odore, consistenza e ha iniziato a colpire alla cieca i più fragili delle nostre società, gli anziani, gli ammalati. In qualche modo, a fatica, abbiamo resistito, abbiamo creduto di essere fuori dopo le prime cinque settimane di lockdown nel maggio 2020. Poi un’estate libera, la sensazione di essere tornati a quella normalità che avevamo negato strillando ai quattro venti che “niente sarà più come prima”. Niente è più come prima, la fragilità della nostra civiltà, di tutta l’umanità, non è più polvere che si può nascondere sotto un tappeto. Ciò nonostante soffiano venti di guerra in Ucraina e non è certo che la pandemia si stia davvero trasformando. Quando finì l’epidemia di Spagnola, oltre cento anni fa, nessuno ebbe la voglia di analizzarla, ricordarla, scriverne. Un grande meccanismo di rimozione collettiva ha fatto sì che quella storia fosse ancor meno ricordata delle grandi epidemie di peste nera. Accadrà così anche la nostro virus? È probabile, probabile che i ricordi si facciano sempre più blandi, che altre preoccupazioni arrivino a travolgerci. Come reagirà il corpo sociale? Parleremo sempre e solo di ripresa e crescita economica? La politica riuscirà a trovare quella centralità che l’economia le aveva scippato da decenni? Cambieranno le politiche pubbliche di investimento in istruzione e sanità? Sono tutte domande aperte che troveranno risposte nel tempo. Intanto continuiamo a vedere i numeri del contagio contrarsi, le proteste anti-sistema aumentare a partire da Canada e Francia, arrancare in Italia, dove ha prevalso il buon senso e il riconoscimento dell’autorevolezza della medicina. Se ci pensiamo bene tutta la nostra vita si basa sulla fiducia in qualcosa o qualcuno. Non possiamo vivere senza fiducia, non possiamo vivere senza prudenza. Ma la giovinezza ci chiama a essere spericolati e l’età di mezzo a guardare con un po’ di rimpianto quella libertà e quella sfrontatezza che abbiamo conosciuto da giovani. Certo, le giovani generazioni dovranno imparare a elaborare il trauma della distanza fisica e della scuola in DAD, ma ci riusciranno, chi prima e chi dopo, ognuno a modo suo e con i suoi tempi. Mi colpiscono molto di questi tempi soprattutto le storie degli anziani che in questi anni di pandemia hanno fatto ordine nelle proprie case, nei ricordi, hanno regalato le cose preziose o significative, buttato quelle che non lo erano più e poi hanno cominciato a progettare nuovi viaggi, cene con gli amici e hanno imparato ad accettare la perdita come una dimensione stabile della nostra vita. Dunque le parole di questi giorni sono incertezza, fiducia e perdita. Un’oscillazione continua di senso che delinea e delimita la condizione umana. E che per questo rende la nostra esperienza, il nostro passaggio su questo bellissimo pianeta, così straordinario. Mi sto chiedendo spesso se continuerò a scrivere queste Cronache ancora a lungo e penso che lo farò, perché sono un esercizio quotidiano, una ricerca personale di senso per me e per i miei lettori e mi concedono la gioia di una condivisione. Scrivo perché mi piace scrivere, perché è il mio modo di stare al mondo, perché l’atto dello scrivere mi riporta ai libri e agli autori che amo, alla grazia di averli nella mia vita, alla gratitudine.

Oggi è sabato 12 febbraio del 2022, terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 706 è meditabonda e riflessiva quanto me che la sto scrivendo, perché al contempo è lei a scrivere in me, a portarmi il mondo e a portarmi nel mondo.

domenica 5 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/546. Un uomo che era pagliaio, una donna che era fuoco

 



L’uomo era arrivato quasi alla fine dell’altipiano, le montagne erano ancora uno sfondo lontanissimo, ma le piantagioni ai loro piedi poteva quasi toccarle. Il raccolto non doveva essere finito da molto, e non tutto il caffè era stato portato a valle. Quando arrivò al villaggio, la locanda dell’Ammiraglio era sbarrata con assi di legno. Chiese a dei ragazzini cosa fosse successo e loro spiegarono che il vecchio aveva perso la testa per una ballerina di flamenco e l’aveva seguita fino in città. Tutti in paese pensavano che sarebbe ritornato, ogni tanto lo faceva di innamorarsi di qualche bella donna di passaggio. La maggior parte di loro non era interessata alle sue lusinghe, ma poi finivano tutte per cedere ai modi eleganti e alle gentilezze cui non erano abituate. Tornava sempre l’Ammiraglio perché non era capace di vivere lontano dalla sua terra che non sfioriva mai, mentre l’amore, si sa, è un evento passeggero nella vita degli uomini.

 

 

Notturno

 

Respira la notte,

batte i suoi chiari spazi,

le sue creature in rumori minuti,

nello scricchiolio lieve dei legni,

si tradiscono.

Rinnova la notte

un certo seme occulto

nella miniera feroce che ci sostiene.

Col suo latte letale

ci alimenta una vita che si prolunga

più in là di ogni risveglio mattutino

sulle rive del mondo.

La notte che respira

il nostro lento alito di vinti

ci conserva e protegge

«per destini più alti».

 

 

 

Dispiaceva al vecchio scrittore che il suo amico non ci fosse, così decise di andare nell’altra locanda del paese da abuela Adelina. Lì sapeva che avrebbe mangiato bene, bevuto molto e avrebbe dormito come solo in quel luogo gli riusciva di fare. Si addormentò subito dopo cena, sdraiato nell’amaca del balconcino che dava sulla vallata. Sognò, come solo in quel luogo sognava, sognò di risalire il grande fiume su una barca piena di indigeni che scendevano e salivano senza mai avere aperto bocca. Solo Maqroll non dormiva mai e scriveva nel suo taccuino ricoperto di cuoio con una matita smozzicata, sembrava che le parole lo stessero aspettando nelle ceste che erano a prua. Dalla riva un uomo che era pagliaio e una donna che era fuoco, tennero gli occhi nei suoi sino a quando la barca fu troppo lontana. Lo chiamò Maqroll, gli disse di salire da lui, che presto ci sarebbe stato un altro libro. Al risveglio Alvaro Mutis, seppe che il libro c’era, doveva soltanto scriverlo. Allora chiese ad Adelina di portargli i pasti in camera e volle un tavolino, una poltroncina e un lume per poter scrivere anche dopo il tramonto. Solo quando pioveva lo scrittore si ritirava nella camera e mentre sentiva la storia espandersi, crescere, mutare pelle come l’antico serpente delle rocce, sapeva che la nuova storia di Maqroll non gli avrebbe dato requie sino a che non l’avesse scritta. Ma non temeva di non riuscirci, cosa mai altro avrebbe potuto fare se non scrivere? Nel circo della vita gli era toccato quel ruolo, il giocoliere con palline e birilli in bilico nell’aria e anche sul naso, come una foca ammaestrata. Non era lui a decidere il ritmo, erano le parole a farlo, ormai lo aveva imparato, aveva imparato che l’unica vittoria consisteva nell’arrendersi e di nuovo lo fece. Un uomo di mezza età che sapeva solo di voler scrivere sino all’ultimo respiro, che sapeva che ogni libro avrebbe potuto essere l’ultimo, che temeva di non riuscire a finirlo quell’ultimo libro. Ma poi ogni volta ci riusciva e ricominciava a respirare l’aria come fanno gli uomini e gli uccelli, non l’acqua profonda dell’oceano che viveva nei suoi ricordi, non il fuoco che è la materia respirata dalle stelle.

 

In questa domenica 5 settembre del secondo anno senza Carnevale, mi è presa la nostalgia dello scrittore Alvaro Mutis, così ho scritto per la Cronaca 546 questo brevissimo racconto dove ho inserito una sua poesia. E adesso vado a rileggermi le storie di Maqroll il gabbiere.

martedì 15 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/464. Quattro storie, il mare e le ombre

 

Era bello stare sdraiati all’ombra dei grandi cedri sulle pendici del monte Libano senza altro pensiero che allungare un braccio per prendere una fetta di melone maturo o bere un sorso d’acqua fresca. In lontananza una striscia di mare brillava come una stoffa ricamata d’oro. Certo sarebbe finito a breve quel viaggio e sarebbe ritornato a vivere a Parigi, ma intanto era lì e poteva continuare a godere di quella bellezza tutto intorno. D’un tratto apparve una ragazza molto giovane, non doveva avere più di vent’anni, con una gran massa di capelli neri che gli stava sorridendo. Si mise in piedi per andarle incontro, ma lei gli disse che non era il tempo, non ancora e corse via. Lui si mosse e così ruzzolò un po’ a valle e capì che la ragazza era un sogno e, forse, una promessa.

Il ragazzino ormai undicenne, continuava a fare un gioco che si era inventato da solo nei lunghi pomeriggi infantili, quando lo costringevano a fare riposini di cui non sentiva alcun bisogno. Prima di tutto contò le lame di luce sul soffitto, ed erano molte, poi andò ad aprire lo scrigno che stava sotto la finestra e chiamò le ombre, che risposero nella loro lingua muta che solo ai poeti era comprensibile. Ogni volta qualche ombra mai vista prima si presentava e chiedeva di poter ritornare. Lui acconsentiva e le ombre, disciplinate come soldatini di piombo, tornavano nel loro rifugio. Allora il ragazzino poteva alzarsi, prendere il cavalletto con una tela nuova e la cassetta dei colori a olio. Quando attraversava il campo di grano e i corvi si alzavano in volo, sentiva la presenza di Van Gogh accanto e, solo allora, poteva iniziare a dipingere quel che vedeva e quel che aveva ricordato. Il grano era oro che brillava come quell’altro mare.

Nel giardino notturno il poeta si era sdraiato a guardare le stelle perché gli piaceva quella vertigine che precedeva lo sprofondamento in quei punti di luce imprendibile. Tutto intorno era il profumo dei gelsomini notturni ad avvolgere il mondo e lui ne era inebriato. D’un tratto dal fondo del giardino, dove c’era l’angolo delle rose, arrivarono danzando le lucciole. Che canto stavano ascoltando che alle sue orecchie umane non arrivava? Una voce di fanciulla sorretta da un suono d’arpa si mosse nell’aria lieve quanto le lucciole. Il poeta non capiva le parole, ma il sentimento sì, e lasciò che una lacrima gli scivolasse lungo la guancia. Non volle chiedersi perché, lasciò che la notte lo avvolgesse nel filo tessuto di buio e scivolò nell’oblio, per qualche ora almeno.

In quanti erano quel giorno gli amici sulla spiaggia? Ridevano e gridavano, si sfidavano, ma nessuno aveva ancora avuto il coraggio di tuffarsi dagli scogli più alti. I ragazzi più grandi e muscolosi tentennavano, così lui si sentì chiamato in causa, perché era il più piccolo e il più gracile, sempre chiuso in casa chino sui libri, l’unico che stava frequentando il ginnasio e sognava di diventare professore di greco antico. Quando sarebbe stato immerso nella sua amata Odissea, in quel mare colore del vino, avrebbe potuto ricordare quel giorno, almeno un giorno dove la sua vita sarebbe stata vissuta fuori dai libri. Così si arrampicò sullo scoglio, prese la rincorsa e si tuffò stringendo al petto le ginocchia e poi con una capriola, che non sapeva di poter fare, si allungò e stese le braccia. Fu un tuffo perfetto, l’acqua era fresca, sfiorò il fondale con le mani e poi seguì le bolle d’aria e la luce per risalire. Tutti lo stavano guardando e poi uno dei grandi gridò il suo nome e iniziò ad applaudire. E tutti gli altri lo seguirono e il ragazzino gracile diventò, almeno per quell’estate, un eroe come Ulisse.

Anche oggi vado con la pesca a strascico nel grande mare delle storie e ne raccolgo, come fossero sassi o conchiglie. La vita è questo inventare e scrivere, oggi 15 giugno del secondo anno senza Carnevale, nient’altro e non è poco per questa Cronaca 464.

martedì 1 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/450. Il segreto dei cortili in una serata quasi estiva


 

Verso ora di cena tra le sette e mezza e le otto di sera, a Milano si mangia presto, sono scesa in cortile e poi nell’androne per andare a ritirare la posta, cosa che non avevo ancora fatto. Non appena sono uscita sul ballatoio sono stata investita da una zaffata di risotto alla milanese, ho percepito il profumo del burro, della cipolla e dello zafferano. Poi ho sentito il profumo dei gelsomini in piena fioritura, il rumore di pentole e piatti spostati, le grida delle rondini sotto il tetto, ho visto le nuvole del tramonto navigare verso occidente, le prime finestre che si illuminavano e voci indistinguibili che ne fuggivano. Così sono rimasta a godere di quel momento incerto tra il giorno e la notte, l’ora bella, dove le attività per molti si fermano e si prepara il cibo per la cena, la casa accoglie i ritorni, gli schermi televisivi si illuminano. E i segreti restano appesi tra le scale e il cortile, conosciuti solo da chi li ha vissuti e li ha condivisi con pochi per farne leggenda e oggetto di chiacchiere per generazioni e generazioni. Mi piace questa dimensione di soglia del segreto, mi incuriosisce capire come chi sa custodire un segreto riesca a farlo. Chi scrive, parlo iniziando proprio da me, ama svelare i segreti dei cortili, le storie non raccontate, quelle dimenticate. Se anche uno scrittore riesce a svelare un segreto, subito dopo ne costruisce un altro, perché i segreti sono un binario, il treno e la stazione allo stesso tempo. È facile gettare una nuova traversina, dare il nome alla stazione e riconoscere il modello del treno. Ma il segreto è sempre la destinazione finale che potrà essere svelata solo alla fine del viaggio.

 

 

Un mistero a volte è un segreto, a volte un sogno

 

Fu il primo viaggio della

mia giovinezza, era mattina,

ancora molto presto, e

stavo in testa a un binario

per aspettare un treno che

mi avrebbe portata verso

nord. La luce onirica della

Stazione Centrale di Milano

cadeva in lame verso i pochi

passeggeri. Poi ci furono

lo stridio dei freni e il vapore,

molto vapore e due pope russi

e monumentali, con alti cappelli

e lunghe barbe, con catene e

croci d’oro al collo, sono scesi

dal quel treno antiquato con

la locomotiva nera. Mi sono

passati davanti e non sembravano

reali, mi sono girata verso

l’altro binario e la locomotiva

non c’era più, al suo posto

un treno moderno. Dall’altro

lato del mio occhio, anche

i pope erano spariti. Così

ho scoperto che all’inizio

di un viaggio, nasce

un segreto che a volte

è anche un mistero, a

volte solo un sogno.

 

 

Conosco alcuni segreti del cortile della mia casa e molti segreti custoditi da altri cortili. Le case li proteggono, ma le scale amano parlarne. Bisogna tendere l’orecchio e qualcosa riusciremo a sentire e ancora a non capire se un segreto è un mistero o appartiene, ormai, solo al sogno.

Oggi è martedì Primo giugno del secondo anno senza Carnevale e, come l’anno passato, il mondo si rallegra della caduta dei contagi e dei morti. Vorrei che questo fosse l’ultimo anno senza Carnevale, ma i cortili sussurrano “aspetta e taci” che il tempo verrà quando sarà tempo. E io aspetto in compagnia delle mie Cronache, di quest’ultima che è già la numero 450 e si accompagna a una poesia che è una storia che ho già raccontato nel mio secondo romanzo In giornate identiche a nuvole. Buonanotte a voi che leggete, che sia notte di molti misteri e sogni.

sabato 29 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/447. Guardare le città notturne da un satellite e poi girarsi verso le stelle



Possono essere proprio tante le cose belle di una giornata bella, cose gioiose, interessanti, coinvolgenti. Partiamo dalla lunga giornata con Valentina Durante e Simone Salomoni a parlare di immaginario e scrittura autobiografica, una meraviglia ascoltare loro e poi le altre persone a Bottega. Un sacco di spunti interessanti su cui riflettere, appunti da risistemare, nuovi libri da leggere. Una delle eredità positive della pandemia è, per quanto mi riguarda, l’uso delle piattaforme per incontrarsi e parlare nonostante la distanza. Sempre grazie alla tecnologia, un’altra delle cose belle di questa giornata sono le fotografie satellitari delle città terrestri durante la notte, mi sono fiondata a cercare Milano, che sembra una ragnatela intessuta di goccioline di rugiada all’alba. Poi sono fiorite altre rose nel giardino, i gelsomini sono quasi tutti sbocciati, ho una pila di libri nuovi da leggere, su Netflix è iniziata la terza serie del metodo Kominsky con Michael Douglas, su FB mi ha scovato una serie TV turca doppiata in spagnolo El Sultan, ispirata alla vita del sultano Solimano il magnifico. Come tutte le serie tv, si sprecano intrighi di corte, gelosie, rapimenti e omicidi, e intanto che la guardo, faccio esercizio di spagnolo che è molto meno arrugginito di quanto mi aspettassi. Sempre FB mi propone e ripropone una serie indiana dove ci sono magnifici balli di gruppo e una serie coreana su una storia imperiale, sempre in costume, entrambe con sottotitoli in inglese. Le attrici e i costumi sono sempre magnifici, quel che mi colpisce e che accomuna tutte queste trame è che le donne sono quasi tutte cattivissime e disposte a qualunque cosa pur di avere il favore del principe di turno. Non importa se siano spose ufficiali o concubine, l’importante è essere la favorita e dare figli maschi al potente di turno. Non ho idea dell’accuratezza storica e della verosimiglianza, ma i ruoli femminili, oltre a quelli già citati sono solo: madre del principe, schiava, fattucchiera, medichessa, figlia del principe, figlia del nemico rapita dal principe. Non c’è nessuna donna che sia possibile definire al di fuori del ruolo sociale e riproduttivo, una donna esiste solo in relazione al legame che ha con il maschio dominante. Certo ci sono anche i vice, ma spesso sono traditori e vengono giustiziati. Unica consolazione i figli maschi e i gioielli. Bisognerebbe fare più riflessioni sul ruolo femminile nell’esercizio e nella trasmissione del potere con annessi e connessi. Perché sono proprio i meccanismi di potere a regolare la maggior parte delle relazioni umane. Insieme alla ricchezza, alla bellezza, alla giovinezza e ai legami di sangue. Mi sono resa conto durante quest’anno abbondante di lockdown, che più il presente si faceva pesante, più il mio interesse per il passato e per la storia diventava pressante. Ho letto parecchi libri sulla storia delle due guerre mondiali del secolo scorso, sull’epidemia di spagnola, sulle epidemie di peste nera. Ho riletto La peste di Albert Camus e l’ultimo libro, che ho iniziato proprio oggi è Racconti contagiosi di Siegmund Ginzberg, un solo commento su queste letture compulsive: per quanto ce la passiamo male, una volta l’umanità stava molto, ma molto peggio da tutti i punti di vista, sociale, economico, sanitario. Certo il mondo era ancora un luogo incantato, non esistevano gli influencer e neanche gli smartphone, ma sono abbastanza contenta che il fato mi abbia destinato a questo scorcio di spazio tempo dove ho avuto la possibilità di viaggiare, fare lavori interessanti, studiare, leggere qualunque libro, scrivere e scrivere. Un’età dell’oro nella storia di noi umani è pura leggenda, una pandemia come quella in corso, anche solo venti anni fa avrebbe avuto un numero di contagi e di morti dieci volte superiore. Certo non avremmo passato tutto il tempo tappati in casa, non saremmo stati terrorizzati dai media come nelle prime settimane di lockdown, ma saremmo in molti meno a raccontarcela oggi. Certo, la settimana scorsa ho sentito una signora di mezza età parlare al telefonino con un’amica e a dichiarare con vigore, ovviamente senza mascherina, che lei mai e poi mai sarebbe andata a fare il tampone anche se avrebbe dovuto, perché quando fai il tampone ti mettono i microchip nel naso e lei vuole essere una donna libera. Non commento, anche perché non c’è bisogno di commenti, ma poi ho scoperto che anche persone a me care e insospettabili sono contrarie al vaccino e non c’è modo di condurle alla ragione. Certo bisogna rispettare le convinzioni di tutti, certo viviamo in democrazia, ma quando ero bambina tutte le vaccinazioni, dalla polio alla TBC, erano obbligatorie, non c’era possibilità di sguazzare nella propria ignoranza pretendendo di avere la verità in tasca, si sguazzava nell’ignoranza, come peraltro ci sguazziamo oggi, perché al di là del fatto che siamo capaci, io per prima, di ripetere a pappagallo le cose orecchiate in tv e lette sui social, noi popolo, del virus non sappiamo proprio nulla. Quindi preferisco fidarmi dei virologi esperti, del governo e dei medici. Anche perché, se la popolazione italiana non si vaccinerà – a oggi pare che il 10% abbia deciso di non farlo e il 18% sta pensando di non farlo, rischiamo di sviluppare una nostra variante italiana e di vanificare lo sforzo collettivo e i sacrifici fatti sinora per uscirne. Cosa accadrebbe se si passasse alle vaccinazioni obbligatorie come un tempo? (Non lo so, ma me lo chiedo).

Oggi, sabato 29 maggio del secondo anno senza Carnevale, mi è presa questa vena sociologica-storica-televisiva-pandemica: è bello avere anche il tempo per divagare e pensare scrivendo. Questa Cronaca 447 se ne torna sul satellite a guardare le città notturne illuminate e augura a tutti una buona notte. Non prima di avere, però, girato lo sguardo verso il buio e le stelle di cui sappiamo giusto qualcosa.

mercoledì 19 maggio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/437. Tra nuvole, libri e pizza, un po’ di storia milanese

 

 


Partiamo dalla fine, partiamo dalle nuvole naviganti che oggi riempivano il cielo di Milano. Erano bellissime, erano perfette sotto il sole e sopra i tetti delle case. Oggi mi è sembrato di essere in una città sconosciuta, come se fossi stata una turista alla sua prima gita milanese. Ed è stata una sensazione piacevole essere straniera nella mia città. Da turista ho passato un sacco di tempo a guardare la gente che passeggiava e le facciate delle case. Poi sono andata a fare un giro alla Libreria delle Donne, dove ho trovata libri introvabili della vecchia casa editrice La Tartaruga e alla Libreria Fiera del Libro in corso 22 Marzo, dove ci sono libri introvabili a metà prezzo e anche il seminterrato dei libri perduti, dove ci sono queste creature di carta con le copertine malandate, un po’ strappate e un po’ macchiate che si possono acquistare anche con il 75% di sconto sul prezzo di copertina. Ho ricomprato Le poesie di Marianne Moore e anche la Vita di Henry Brulard di Stendhal. Il mio compagno di scorribande librarie è stato mio nipote Andrea cui ho regalato, su sua scelta, due libri di Donna Haraway: il Manifesto Cyborg e Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto; e poi Ka e Ardore di Roberto Calasso. Per Marco, l’altro nipote che era a casa a studiare, ho scelto Il giunco mormorante di Nina Berberova, uno dei miei libri preferiti in assoluto; Montaigne. L’arte di vivere di Sarah Bakewell e Vivere, pensare, guardare di Siri Hustvedt, scrittrice e intellettuale straordinaria, moglie di Paul Auster. Mi piace condividere le mie passioni letterarie e intellettuali con le persone cui voglio bene, nel giro delle mie amicizie sanno che da me è quasi certo che riceveranno un libro in regalo e non qualche inutile oggetto che finirà nel dimenticatoio.




Libri e nuvole sono tra le cose che rendono la vita piacevole, interessante e degna di essere vissuta. Insieme alla pizza. Abbiamo pranzato in piazza Santa Maria del Suffragio da Capperi che pizza! Due pizze squisite, una con fichi e lardo e l’altra con pomodorini, basilico, cipolla rossa e tonno. Un pranzo vacanziero, una birra fresca al punto giusto, un succo di mandarino e poi il caffè preso nella pasticceria Gelsomina con un piccolo cannolo siciliano con le gocce di cioccolato. 




Respirare tutta quell’aria fresca, sentire il profumo della pizza, gustare l’aroma del caffè e poi andare a gironzolare nel quartiere arcobaleno di via Lincoln, con le sue palme, anche da cocco, i cespugli di rose, gli oleandri, i gelsomini, le belle case con i balconi altrettanto fioriti. Infine, tornare a casa in tram, continuare a guardare Milano amandola sempre più, sentendo nei palazzi e nelle chiese, nelle vie le storie note e quelle sconosciute o dimenticate. Ma lo sapete che Milano venne rasa al suolo una prima volta da Federico Barbarossa nel febbraio del 1162, dopo un assedio iniziato alla fine di maggio del 1161? Ma fu il 26 marzo che Barbarossa diede il via libera ai nemici di Milano, che incendiarono e saccheggiarono in maniera sistematica i sestieri della città. I cremonesi distrussero Porta Romana, i lodigiani Porta Orientale, i pavesi Porta Ticinese, i comaschi si occuparono di Porta Comacina e i varesotti sudditi del conte di Seprio e Martesana distrussero Porta Nuova (un buon riassunto degli avvenimenti lo trovate anche su Wikipedia). La seconda grande distruzione di Milano avvenne negli Trenta del secolo scorso quando antichi quartiere, tra cui il centralissimo Bottonuto, quando venne approvato il piano Albertini che prevedeva la demolizione di quasi tutto il centro storico per disegnare una nuova grande arteria chiamata “la Racchetta” e i cui effetti si vedono in corso Matteotti, corso Europa e piazza San Babila, tra gli altri. Un buon resoconto lo potete leggere sul sito dell’Ordine degli Architetti di Milano.

La terza distruzione venne causata dai bombardamenti della RAF inglese durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il 1942 e 1943 i circa 600 bombardieri distrussero il 40% dei palazzi milanesi e la città si salvò dalla distruzione totale perché all’ultimo momento nel febbraio 1945, il comandante della RAF Sir Arthur Travers Harris decise di mandare i bombardieri a Dresda anziché a Milano. Nelle sliding doors della storia noi siamo qui oggi per un cambio di linea inaspettato.

Amo questa mia città, l’unica città futurista d’Italia, dove sono passati e hanno vissuto alcuni dei maggiori scrittori degli ultimi tre secoli.

Il ritorno a casa in tram ci ha permesso di guardare i palazzi del centro che non sono stati sventrati dai bombardamenti.

Ci sono abbastanza storie, bellezza e nuda cronaca, per una bella giornata milanese, mercoledì 19 maggio del secondo anno senza Carnevale e la sua Cronaca 437.

martedì 27 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/415. Guardare nel tempo, mentre il tempo ci guarda

 

 


 

Di tanto in tanto apro il cofanetto dove custodisco vecchie fotografie, a partire da quelle in bianco e nero dei miei genitori e che risalgono alla loro adolescenza negli anni Cinquanta. La tenerezza che provo è immensa, cerco di ricordare i loro racconti, mi commuovo sempre più man mano che procedo nel tempo e arrivo agli anni Sessanta, dalle fotografie in bianco e nero di famiglia, parenti vicini e lontani, amici, compaiono le prime polaroid che hanno ormai assunto quella patina azzurro-arancione che le contraddistingue. Ci sono poi alcune foto che ho scattato io a partire dagli anni Settanta fino a pochi anni fa, quando ho smesso di stampare le foto e ho creato confusi archivi digitali che di rado vado a sfogliare. Le fotografie mi hanno sempre incantato, soprattutto quelle in bianco e nero, come se questi colori fossero gli unici ammessi per il passato, e forse è così. Quando mi è capitato di guardare fotografie e vecchi documentari che sono stati colorati, lo spiazzamento è sempre stato enorme.

Le foto raggruppate nel cofanetto sono quelle per me più significative e più care. Prima o poi dovrò decidere che farne di tutte le altre, interessano solo me, comunque, e non vorrei che finissero gettate accanto a un bidone della spazzatura per strada, come è accaduto a un album di fotografie di un matrimonio degli anni Sessanta, qui a Milano, poche settimane fa. Forse bisognerebbe creare un archivio nazionale anche per gli album fotografici in analogia a quello esistente dei diari nella cittadina di Pieve Santo Stefano. Il passato familiare e collettivo racchiuso nelle vecchie fotografie ha, secondo me, molto più senso degli album sui social. Quando sono andata a Pavia a vedere la mostra di Vivian Maier mi sono commossa fino alle lacrime, quanto storie in ogni fotografia. E con lei ho sempre amato altri grandi fotografi del passato come Henri Cartier-Bresson, Man Ray, Robert Capa, Robert Doisneau, Eduard Boubat William Claxton, W. Eugene Smith, Alfred Stieglitz, Ansel Adams, ecc. ecc. che se continuo non faccio altro che duplicare liste facilmente reperibili in rete, quindi mi fermo qui.

Amo le vecchie fotografie soprattutto perché i selfie, che si chiamavano autoscatti un tempo, sono rarissimi e la nostra immagine ci ritorna mediata dallo sguardo di qualcun altro, molto spesso un genitore e poi amici e amori. Ogni fotografia ci suggerisce un punto di vista, un paesaggio, uno sguardo e una storia. Per questo ho comprato in sperduti mercatini di provincia fotografie in bianco e nero che appartenevano a famiglie estinte. Mi è sempre piaciuto immaginare storie a partire dalle vecchie fotografie scattate da sconosciuti che tali resteranno per sempre. Le fotografie dei grandi fotografi sono ciascuna un racconto in una infinita antologia.

 

 

 

Ogni immagine è un mistero

 

Non hai voce, non hai colore,

sei solo un’immagine fissata

per sempre a un istante, a

quella carta, a quello sguardo.

Nessuno svelerà il tuo mistero,

quel mistero che noi presumiamo

perché il tempo ti tiene ancora

tra le braccia e ti guarda, come

sto facendo io.

 

 

Voglio ringraziare Valentina Durante e  Giulio Mozzi per le infinite sollecitazioni e idee che zampillano durante i loro incontri dedicati proprio a Immaginare le storie, il cofanetto delle mie fotografie si è improvvisamente animato e mi ha chiamato a iniziare una nuova strada. Così sfoglio e immagino in questa Cronaca 415 di martedì 27 aprile del secondo anno senza Carnevale.


venerdì 26 febbraio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/355: apprendisti delle stelle, narratori dei cieli

 


 

Da quando avevano iniziato a studiare le costellazioni, prima sulle mappe celesti, poi osservandole con il telescopio, erano state prese da una strana frenesia.

Le stelle più antiche avevano nomi di mitologia e leggende, quelle scoperte in epoche più recenti nomi che erano numeri.

E non era solo la bellezza di quei nomi e la precisione di quei numeri. Ciò che davvero le aveva rapite, man mano che si addentravano nello studio di una materia tutta basata sulla ferrea disciplina dello sguardo, era cogliere le relazioni e le interdipendenze tra i corpi stellari.

Ancora più grande fu il loro stupore di giovani e appassionate neofite, scoprire che alcune costellazioni non esistevano più perché erano state sminuzzate in gruppuscoli di minori dimensioni e più facilmente identificabili. La Nave Argo era tra queste, ed era anche l’unica delle 48 costellazioni originarie di Tolomeo, a non essere stata riconosciuta dai suoi successori.

Cassiopea scoprì con gioia che il nome che portava non era solo quella della superba e bellissima regina madre di Andromeda, ma anche il nome di una costellazione. Forse per questo le risuonavano familiari tanti di quei nomi e sempre, al primo sguardo, riusciva a identificare la costellazione che portava il suo nome tra migliaia di punti luminosi nel cielo notturno. Sua sorella Berenice era la custode della Chioma, la terza sorella era Andromeda, sorella e non figlia di Cassiopea in questa porzione di realtà.

In breve le tre sorelle mi avevano raccontato della loro comune passione ereditata dai genitori. Eravamo sedute in veranda, nella loro casa di fronte al mare e, dato che le stelle erano ancora invisibili, avevano srotolato sul tavolo diverse mappe per spiegarmi perché il cielo non fosse mai vuoto. Tutta la loro devozione si era però infranta contro un fenomeno oscuro. Perché nel cielo qualcuno o qualcosa stava facendo scomparire le stelle. E cosa accade quando una stella scompare? Il buio la sostituisce, gli astronomi cercano spiegazioni plausibili, gli innamorati sentono più tenue la benevolenza dell’universo sulle loro teste.

 

Era tutto nei tuoi occhi il nostro cielo

 

Un stella non è che luce

portata dal passato sino a

noi. È strano pensare che

Adriano, Cesare e Galileo

l’abbiano contemplata con

le stesse domande di Borges

nella penna. Poi sono arrivata

io, che leggo il cielo solo con

intenti poetici e non cerco

spiegazioni. Ci ho messo un po’

di tempo a capire che una stella

scomparsa non lo è per sempre.

Anche una stella invisibile contribuisce

a disegnare una mappa dove perderci

a ogni stagione. E il nome non

basta di quella stella, per avere

un cammino tracciato tra i marosi

della notte, quel tutto che nessuna

stella può scalfire, se non per piccole

intersezioni. Eppure era tutto nei tuoi

occhi il nostro cielo, anche per questo

io l’ho amato.

 

 

Dall’altra parte del tempo ci sono tre sorelle che disegnano mappe su mappe e fanno affidamento solo sulla potenza del loro sguardo. Stanno in una casa perduta nella brughiera e scrivono storie che non hanno bisogno di altri paesaggi per trovare il loro posto nel mondo. Loro che non sono più tra noi vivono in Jane, Catherine e Agnes.

A cosa servono le stelle, se non a raccontare storie d’amore? Le mie tre amiche annuiscono, portano con leggerezza il peso di quei nomi. Mentre siamo ancora intente a parlare, arriva Alexandre con un dono: una mappa stellare dove sono rappresentate tutte le stelle scomparse di cui si ha notizia. Sono sul confine degli universi quelle stelle -  ci dice il nostro misterioso architetto che sta costruendo la Casa delle Stelle – ma questo non significa che non potremo rivederle, basterà scoprire i loro nomi segreti. La mappa di Alexandre è disegnata su carta pergamena trasparente, quando la sovrapponiamo alla mappa delle costellazioni circumpolari che sono visibili tutto l’anno nel nostro emisfero, gli spazi si vanno a riempire e il cielo diventa d’un colpo più grande. Ho imparato molti nuovi nomi oggi, ho imparato che dietro una piccola notizia – sono sparite cento stelle nel cielo – sta sempre acquattata una storia da raccontare e, spesso, anche una poesia.

Oggi è venerdì 26 febbraio del secondo anno senza Carnevale. Era tutto nei tuoi occhi il nostro cielo, è una nuova poesia che ho scritto oggi per questa Cronaca 355.

sabato 19 dicembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/286: nella notte decifrare le figure che danzano nel fuoco

 



L’uomo era anziano, spettinato e indossava una giubba rossa scolorita. Stava seduto sul bordo del marciapiede e quasi non si accorse dello strano personaggio allampanato che portava una giubba patchwork ancora più stinta della sua.

Si guardarono senza dire niente, e poi Chino tirò fuori da una tasca una bottiglietta mignon di cognac e la porse al vecchio.

-     No, grazie, non bevo. Ma è stato un gesto gentile il suo.

-     Si figuri, un gesto poco costoso… in una sera umida come questa un po’ di alcol aiuta a scaldarsi. Anche lei ha perso il lavoro, vedo…

Entrambi si girarono a guardare il maestoso ingresso del teatro dove non era accesa neanche una piccola luce.

-     Venga... signor? Io mi chiamo Chino adesso. Non uso più il mio nome intero da quando ho perso il lavoro.

Il vecchio lo guardò e tirò un sospiro, gli mancava l’aria nei polmoni e sembrava che stesse per scoppiare a piangere.

-     E io sono Lino. Bella coppia stasera, facciamo anche rima. Senta, che ne dice se entriamo nel Teatro del Mondo e cerchiamo di scaldarci?

Entrambi, Chino e Lino, si alzarono e si diressero verso l’ingresso principale. Le porte si lasciarono scostare senza far rumore e, benchè non riscaldato, l’atrio era di certo meglio della strada dove non passava nessuno.

Oltrepassarono la biglietteria, sbirciarono negli specchi ossidati e polverosi, andarono nel retro del bar e trovarono, incredibile a dirsi, montagne di pacchetti di patatine, cracker, noccioline salate, bottigliette d’acqua e lattine di Coca-Cola.

Tutto quel cibo contribuì ad allentare la tensione, anche perché nel grande frigorifero c’erano salami, salmone, burro e senape. E nella dispensa pacchetti di pan carré che sarebbe stato bello riscaldare, ma la corrente elettrica proprio non c’era.

Passarono nel retropalco dove trovarono le pile delle mascherine di sala e così ebbero anche un po’ di luce.

-     Ma secondo te, Chino – erano passati al tu che era molto più pratico per fare conversazione – secondo te, è meglio stare in platea, in un palchetto, sul palco o nella buca dell’orchestra?

-     Penso sia meglio la buca dell’orchestra, laggiù non arrivano gli spifferi e staremo più caldi. E per questo mi è venuta un’idea, aspetta solo un momento.

L’allampanato giovane, perché tale era Chino, si avventò come uno scoiattolo sui festoni di velluto che decoravano i palchi. Era velluto pregiato e insieme alla carta dei manifesti e dei programmi, avrebbe permesso loro di realizzare dei giacigli confortevoli per la notte.

Quando ebbero portato il velluto e la carta nella buca, dal buio sgorgò un singhiozzo, così si avvicinarono per capire chi ci fosse nascosto laggiù.

Avvolta in un mantello, che un tempo era stato turchino, una giovane donna decisamente incinta, li guardava con gli occhi spalancati. Teneva in braccio un gattino tigrato e un bastardino che agitava la coda come un pendolo.

Non le chiesero nulla, non era ancora il momento, ma le porsero un sacchetto di patatine e una Coca-Cola, aveva di certo bisogno di riempirsi la pancia e reidratarsi.

-     Anche per i cuccioli per favore, sono affamati e io ho finito le scorte – chiese la ragazza.

Chino non sapeva bene cosa dargli da mangiare, ci pensò qualche istante e poi sbriciolò in uno dei piattini che aveva prelevato al bar, pan carré, salmone e un po’ d’acqua. Al profumo del cibo che subito si diffuse, gli animaletti corsero a rifocillarsi.

-     Se guardate nell’angolo opposto, vedrete che c’è un cerchio di pietre, il mio compagno è riuscito a metterlo insieme prendendo oggetti di scena, il magazzino del teatro è pieno di vestiti, ma non avevamo pensato di andare a cercare il bar, per questo lui è uscito a cercare un po’ di legna e di cibo

Chino, che si era ripreso grazie al cibo e alle bevande, corse verso il magazzino a cercare un’ascia, doveva essercene almeno una vera tra gli attrezzi dei falegnami. E così fu. Si diresse allora in platea e iniziò a fare a pezzi l’ultima fila di poltrone. Sedili e schienali sarebbero serviti per fare le loro cucce, ma i fiancali e i braccioli sarebbero stati perfetti per il fuoco.

Mentre si ingegnavano, Lino e Chino, tornò nel teatro anche il compagno della ragazza. Era parecchio più anziano di lei, aveva la barba e lo sguardo buono. Si chiamava Geppo e guardava la giovane compagna come se stesse assistendo a un miracolo. Lei si chiamava Miren, i due nuovi amici lo scoprirono con sgomento, anche se avevano già capito che pure lei non era una sconosciuta.

Con il fuoco acceso, le pance piene, gli animali rifocillati, i quattro se ne stavano in silenzio a guardare il fuoco. Una delle attività preferite dagli esseri umani.

Fu Lino a parlare:

-     Che ne dite se vi racconto una storia? È una storia che inizia nella notte dei tempi e si rinnova ogni qual volta qualcuno chiede di poterla ascoltare.

-     Parla, buon uomo, abbiamo proprio bisogno di una buona storia per affrontare anche questa notte – disse Geppo.

E Lino iniziò a raccontare, continuando a guardare il fuoco e a decifrare i movimenti delle figure che danzavano nel centro.

 

Oggi è sabato 19 dicembre dell’anno senza Carnevale e questa Cronaca 286 è la prima parte della mia storia di Natale. Non c’è nulla che non sia decifrabile, ma Lino è da giorni che mi tira per la manica e poi si sono aggiunti gli altri tre e stamattina ho visto il grande Teatro del Mondo, chiuso, abbandonato e senza luci. Non potevo non scriverci qualcosa intorno


giovedì 10 dicembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/277: dove la neve legge le nostre storie, una ragazza contempla le rose

 


Mi sono svegliata ed ero neve, caduta per tutta la lunga, lunga notte. Era strano guardare il mondo da quella nuova prospettiva.

Non avevo più la mia nuvola intorno ed essere sparpagliata fra tetti e campi, alberi e strade mi faceva girare un po’ la testa.

Poi mi sono calmata e ho iniziato ad apprezzare il leggero scricchiolio dei fiocchi che si stringevano forte l’un l’altro per non scongelare.

Mi è piaciuto sentire lo zampettio dei passeri che hanno disegnato sciami di stelle sulla mia superficie e i bambini che sono caduti, si sono rotolati e hanno giocato con delle palle di neve non troppo compatte perché volevano divertirsi, mica farsi male.

Avere abbandonato la nuvola è stata una gran bella idea, ma io non ricordo di averla mai avuta, perché ieri sera quando mi sono addormentata, io era una ragazza e non una nuvola.

Il vento sembrava avere capito che c’era qualcosa in me che non era tranquillo, così si è avvicinato e mi ha detto che a pochi essere umani capitava la fortuna di trasformarsi in qualcun altro e di ricordare allo stesso tempo la vita di prima.

“Per questo – mi disse – penso che la tua metamorfosi non durerà a lungo. Chi si trasforma per sempre dimentica chi era stato, né ci chiede perché fosse accaduto. Le rose soprattutto non chiedono mai del passato, sono così orgogliose della bellezza e del profumo che spandono intorno, meglio di così la loro vita non potrebbe essere!”.

Ringraziai il vento per le sue parole d’aria e luce, mi stupii anche di averlo capito perché fino al giorno prima sentivo solo folate, fischi e refoli, non parole alle mie orecchie.

Dai tetti potevo sbirciare nelle case e mi ricordai che amavo farlo anche il giorno prima e quello prima ancora.

Felice chi è felice – pensai – e non deve mettersi alla prova ogni giorno per sentire di più e meglio com’è l’essere vivi.

Forse era proprio per questo che mi ero risvegliata bianca e gelida, perché fino al giorno prima continuavo a lamentarmi tra me e me stessa che non succedeva mai niente di interessante.

Ora potevo vedere e ascoltare gesti e pensieri che la mia forma umana non poteva percepire.

Sotto di me i rami dell’albero ebbero un fremito e sentii la linfa scorrere più veloce.

Sebbene io fossi gelida e bianca, la mia coltre uniforme copriva e riscaldava tutto il paese intorno a me.

Ed era dolce quel silenzio, sicuro quel rifugio e le mie parole arrivavano alle altre creature portate sia dai raggi di luce che dalle folate capricciose del vento ancora autunnale.

La giornata è trascorsa leggendo le vite umane come se avessi aperto davanti a me un enorme libro dove tutte le storie erano già scritte un attimo dopo il loro compimento.

Non so per quanti giorni sarò neve, ma mi godo questo silenzio e il biancore ancora intatto, perché continuo a scendere dal cielo e ad aggrapparmi a ogni possibile appiglio, qui sulla terra.

Non sono stanca e vi dirò poi come sarà stata la notte e quante stelle, invidiose e gelide, si saranno affacciate dai loro balconi e poi saranno cadute per la troppo curiosità.

Questa è la Cronaca 277 di giovedì 10 dicembre dell’anno senza Carnevale e la poesia si adorna dei miei fiocchi e io dei suoi versi, uno scambio equo, non vi pare?


venerdì 6 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/243: i sogni restano appesi nel cielo, in attesa che qualcuno voglia sognarli di nuovo

 


È un venerdì qualunque, un venerdì né cupo, né chiaro, addormentato come gli alberi e le nuvole che non si muovono nel cielo striato.

Di cosa? Dei nostri sogni che sono rimasti lassù dalla scorsa notte, come zampilli d’acqua trasformati in scintillanti stalattiti di ghiaccio.

La solitudine, quaggiù sulla terra, ha il colore del melograno maturo e la consistenza del miele. Avvolge ogni cosa, è dolce, è trasparente e ci lascia intravedere quel mondo che sappiamo essere esistito e che non sarà mai più lo stesso, perché ci sarà la cicatrice lasciata dalla pandemia.

Tutti abbiamo cicatrici più o meno vistose, più o meno visibili, cicatrici nel corpo dovute a malattie, incidenti, cadute. Ci dicono che siamo creature vulnerabili e mortali e, allo stesso tempo, che possiamo guarire.

Cicatrici nell’anima, dove le delusioni e le sconfitte, si sono insediate prima che noi fossimo in grado di accettarle. L’anima risplende nonostante le cicatrici perché è il nostro legame con l’eternità, è invisibile ai nostri occhi ma reale come un sogno.

Ci sono poi le cicatrici del cuore, le più dolorose, perché sono legate alle persone più che hai fatti. Il cuore spezzato si rinsalda e si spezza di nuovo, riprende a battere perché non può fare altro. A volte parliamo con il nostro cuore come se fosse altro da noi. Lo consoliamo e lo incoraggiamo perché il legame con le persone, il tessuto di relazioni che ha portato alla nostra nascita, il nuovo tessuto che creiamo noi stessi, è ciò che ci tiene in vita.

Le cicatrici nell’intelletto sono le più insidiose, non dipendono così fortemente dal mondo e dalle persone intorno, ma dalle nostre rinunce a imparare ogni giorno che passa qualcosa di nuovo, a non desiderare di conoscere qualcosa in più del vasto universo che ci abita e di quello che ci ospita. Soffre la nostra intelligenza, quando ci accontentiamo di spiegazioni semplici, quando smettiamo di farci domande e ci accontentiamo di risposte pre-confezionate.

Ora la cicatrice terrestre e celeste che la pandemia lascerà su di noi, condizionerà almeno tre generazioni, verrà ricordata con dolore o insofferenza. Ricorderemo le mascherine che imbrigliano il respiro, i confinamenti in casa, la sparizione degli uffici, la didattica a distanza e tanto altro ancora.

Siamo davvero in bilico tra due mondi, quello vecchio non ancora morto, quello nuovo non ancora nato. A poco, a poco, quando il virus sparirà, se sparirà, l’oblio scenderà e sarà come è stato per l’epidemia di Spagnola del 1918: una nota a margine, un libro di storia, un film, una vecchia narrazione.

Ma i sogni, i nostri sogni, saranno ancora appesi nel cielo, in attesa di qualcuno che voglia sognare di nuovo.

Oggi, venerdì 6 novembre dell’anno senza Carnevale e primo giorno di confinamento e ambulanze frequenti, va così:  mi ha portato, in questa Cronaca 243, a riflettere sul senso delle cicatrici e sui sogni che non svaniscono ma cercano altri sognatori. I libri nuovi sono sempre impilati accanto al letto e ancora non mi risolvo a parlarvene. Arriverà, spero domani, il momento giusto.


 


domenica 27 settembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/203: una voce stonata nel coro del mondo (che continua a cantare)

Tutto il parlare e leggere di scuola, bambini e didattica a distanza continua a farmi riflettere su come stanno i bambini, su chi sono i bambini.

 Prima di tutto i bambini non sono angioletti innocenti, i bambini sanno essere crudeli tra loro, sono egoisti e testardi, certo. Ma non c’è sguardo di bambino sul mondo che non abbia la freschezza di un’alba neonata.

 Vi ricordate com’era essere bambini? Vi ricordate la gioia del ritrovare i compagni di gioco e di scuola? La gioia di stare in braccio a mamma, papà o qualunque altra persona adulta ci volesse bene?

 Non sto cercando di dipingere un ritratto idilliaco dell’infanzia e dei bambini, tanta gente rimuove il dolore e la crudeltà dell’infanzia. Quelli che ricordano molto, di solito, sono gli artisti. Come se non avere interrotto l’esile legame con l’alba della propria vita, fosse una condizione necessaria per creare nuove opere anche quando il tramonto si avvicina.

 Correre mi piaceva più di tutto. E saltare verso il cielo per vedere se ero abbastanza brava per arrivarci. Anche mia madre saltava allo stesso modo. Andare in bicicletta, giocare a nascondino. Stare con la testa immersa in un libro per tutto il pomeriggio.

Libri e bambini sono sempre un binomio vincente, perché i bambini conoscono le parole come se fossero farfalle posate sui fiori e amano le storie, perché sanno con il corpo e con la mente, per puro istinto, che noi esseri umani siamo fatti di storie ripetute, di boschi immensi e minacciosi, di sorgenti e sentieri. I bambini conoscono ancora la strada per la terra delle fate e di notte arrivano in quella del sogno molto prima di noi.

Per questo leggere storie e favole ai bambini è importante e fa bene sia a loro che a noi adulti. Mi dispiace, e pure mi irrita, quando altri adulti mi dicono “sì, ma mica tutti i bambini sono così fortunati, le guerre e le carestie e le migrazioni…”. So queste cose, le so molto bene e proprio per questo sono sempre più convinta che la scelta quotidiana di fare del bene, la scelta di lottare contro il male che ognuno ha dento di sé, sia ancora più importante. Il bene si comincia a farlo con chi ci sta intorno. È nel qui e adesso che possiamo fare qualcosa per il mondo.

Noi occidentali siamo stati formidabili nel creare e prolungare all’infinito l’infanzia e ancor più l’adolescenza. Che sono fasi della vita provvisorie che conducono alla maturità e poi al declino e alla scomparsa. Tutti i sistemi complessi, e anche quelli semplici per dirla tutta, si comportano allo stesso modo.

Non tutti gli adulti si ricordano dei bambini che sono stati, non tutti riescono a prendersi cura perché hanno dimenticato. Non ricordano com’era cantare in un coro e pensare di essere l’unica voce stonata. Non tutti ricordano la paura di non farcela, la paura di deludere i genitori, di non essere all’altezza delle aspettative delle maestre.

Cerchiamo le tracce dei bambi che siamo stati, gioiosi o tristi lo siamo stati tutti. Cerchiamo quelle tracce nella nostra memoria, cerchiamole nei libri e lasciamo che quei bambini tornino ad affacciarsi e ci donino lo sguardo nuovo sul mondo che le difficoltà della vita hanno offuscato.

Parliamo con i bambini e ridiamo con loro, giochiamo, leggiamo le stesse favole e lasciamo che la gioia ci sorprenda e ci salti al collo come fanno i gatti, così, all’improvviso e senza motivo.

 

Questa Cronaca domenicale nasce il ventisettesimo giorno dell’anno senza Carnevale e mi fa compagnia insieme alle favole che sto rileggendo, mentre la bambina che sono stata mi sorride in una foto del giorno del mio primo compleanno.