Visualizzazione post con etichetta calabria. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta calabria. Mostra tutti i post

martedì 20 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/499. Il mare, le stelle, il vento e noi sdraiati a pancia in su


 


C’era un tempo in cui ogni istante del giorno era foriero di gioia, una gioia che nasceva dalla felicità dei sensi, dall’adesione del nostro essere all’intero creato. Le domande già esistevano ed erano una sequenza infinita, e allo stesso tempo, né le domande, né le risposte andavano a inficiare quella sensazione di essere nella propria pelle, vivi, circondati da colori e profumi, da un mondo così bello da essere commovente. Non c’era bisogno di fare cose straordinarie, bastava respirare il profumo della pelle della mamma e del papà stando in braccio e ascoltando le loro conversazioni da grandi. Era salire in piedi su una sedia per guardare mamma che impastava la farina e l’acqua per farne delle orecchiette squisite, era chiedere al papà di essere sollevata per guardare il sugo di pomodoro, profumato di cipolla e basilico, che stava preparando. Era addormentarsi al suono delle loro voci in soggiorno e non avere mai paura del buio perché loro erano di là. Era giocare con il cuginetto Gianfranco (detto Ciccio), nascosti sotto la lunga tovaglia di pizzo del tavolo del soggiorno, sbirciando fuori, convinti che le mamme non ci vedessero. Era camminare lungo il Naviglio Grande e Vicolo dei Lavandai, dove davvero c’erano le lavandaie e saltellare come fanno tutti i bambini e tutti i cuccioli. Era andare di corsa a comprare il cono a tre gusti nella latteria del signor Mario, giù dal ponte dei biscotti della nonna (ora ponte Alda Merini) e desiderare tutto l’inverno che tornasse l’estate per poter mangiare di nuovo il gelato. Erano quelle gite sul Ticino, al ponte delle barche di Bereguardo, dove le domeniche erano una teoria infinita di bagni a riva, risate, cocomeri e vino messi a rinfrescare nell’acqua, pasta al forno a temperatura ambiente, pomodori e polpette, pesche, albicocche e ciliegie. L’esperienza del mondo che facciamo da bambini darà forma a qualunque altro mondo scopriremo ed esploreremo. Perché dall’esperienza originaria si procede nella conoscenza per somiglianze e differenze. Sappiamo dalle neuroscienze che restano impresse nella memoria tutte quelle esperienze che hanno un portato emotivo forte, che coinvolge il cervello e tutto il sistema nervoso centrale, in particolare l’amigdala, dove risiedono i ricordi olfattivi e del gusto. Quegli attimi magici che sono rimasti impressi, tornano a farsi vivi quando una qualunque immagine, sensazione, percezione ce li ricorda, ma spesso anche in assenza di stimoli arrivano immagini dai tempi più remoti della nostra vita e ci parlano. Oggi mi sono vista davanti mia madre con una gonna scozzese grigia e azzurra e un golfino turchese che sta impastando le orecchiette, dovevo avere circa quattro anni. Poi ho visto anche zia Franca, sua sorella, con in braccio il cuginetto Ciccio. Era una sera d’estate, io ero già andata a dormire. Ma poi loro sono arrivati con il gelato e allora la mamma mi ha presa in braccio. Vi sembrerà azzardato, ma secondo me avevamo un anno appena, perché lui era ancora piccolo e batuffoloso e di questo ricordo sono certa che sia un mio ricordo e non il ricordo di un racconto. Tutte queste visite che arrivano dal passato hanno sempre fatto parte della mia vita, forse per questo mi sono appassionata alle neuroscienze, soprattutto agli studi su memoria, immaginazione e coscienza. Ma ad abbracciare immagini, ricordi, passioni, libri e studio, ecco che mi accompagna e mi guida la poesia. Che non so da dove venga e perché proprio si manifesti, così come fa.

 

 

I mari sono stati molti e anche le nuvole

 

 

Sedute in riva al mare

stanno la bambina e

la neonata, la ragazzina

allegra e quella ombrosa.

E l’adolescente goffa e

la giovane che scalpitava

per andare via e cambiare

l’orizzonte e il mare. Certo,

i mari sono stati molti, e pure

le nuvole e il confine degli

orizzonti, ma il mare, sapete,

il mare, è sempre lo stesso,

sempre quello che ho amato

per primo, durante l’infanzia,

e sento le onde, sento il canto

delle sirene, il profumo

delle alghe e dei narcisi,

e il vento che mi chiama

e che mi segue da allora

anche nella grande città

silenziosa e che mi riporta

con un solo sussurro là,

dove tutti i venti e tutte

le nuvole nascono e poi

mi raggiungono. Là dove

il mare è un rifugio e anche

un sogno sognato notte

dopo notte. Il mare, le stelle,

il vento e noi sdraiati a

pancia in su a contare ciò

che non si può contare e

questo contare è la fiducia

nella vita e nella gioia, sempre,

sempre, nel mare, in attesa,

in veglia e in sonno, nel ricordo

e nell’immaginazione.

 

 

Ecco, è ancora presto, è pomeriggio, ma ho finito di scrivere per lasciare spazio alle immaginazioni, alla lettura, alla scrittura. La sera si aprirà così come un ventaglio che fa fresco e indica quell’orizzonte dove la notte ci attende e non è mai sola, è con le stelle e una nuova poesia. Oggi è martedì 20 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 499 che indica i 499 giorni che sono passati dal primo giorno del primo lockdown il 9 marzo 2020.

domenica 14 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/371. Infanzia: quando le onde e le foglie parlavano la stessa lingua

 


Non c’era sabbia, solo ciottoli e sassi, mia nonna è seduta accanto a me con il suo fazzoletto tradizionale u ‘maccaturi, annodato dietro la nuca. Trotterello verso il mare, mi bagno i piedi, mi chino a toccare l’acqua, ritorno dalla nonna. La spiaggia è quella di Trebisacce, ci sono barche e pescatori. Un giorno portano a riva una testuggine. Corriamo tutti a guardarla da vicino, è un animale enorme, papà mi solleva e mi fa sedere sul guscio, la tartaruga avanza di qualche passo. Tutti i bambini sono incantati, papà mi riprende in braccio, i pescatori spingono piano la tartaruga per farla tornare in acqua e lei scivola via senza mai voltarsi. Forse mi aspettavo che lo facesse? In quelle estati a Trebisacce ho due/tre anni soltanto. Ho un costumino bianco e rosa e un cappellino di paglia rosa con l’elastico sotto il mento per tenerlo fermo. Mia mamma ha un costume a righe bianche e nere e papà un costume pesante di lana nera e zoccoli di legno. Mangiamo panini, beviamo acqua da un termos, mangiamo pomodori sani, cioè interi, pesche, anguria comprata in loco. C’è un po’ di vento, mi rifugio tra le braccia di nonna Mela e mi addormento. Un altro giorno arriviamo in spiaggia, papà gonfia il materassino, stende il grande telo da mare a righe bianche e rosse, mi piazza al centro del materassino, ma per poco. Ho un secchiello, una paletta, la mucca Carolina della Invernizzi. Non credo di averci giocato più di un’estate perché so di averla persa in mare, ricordo di averla vista allontanarsi tra le onde, portata dalla corrente. Forse sarebbe andata a giocare con un’altra bambina? Un’estate successiva giocavo in spiaggia con Susanna Tuttapanna, che adoravo. Non perché fosse bionda, ma perché rideva e mi era simpatica. Ho sempre la paletta e il secchiello rosso. Non siamo più a Trebisacce ma a Villapiana Lido. C’era solo sabbia, la pineta, prendiamo ombrellone lettini e sedie a sdraio al lido The Sea Horse, imparo così le mie prime parole inglesi. Il gestore è un britannico che si è fermato in Calabria per amore, ha i capelli rosso-biondi e gli occhi azzurri. Parla italiano con un accento pesantissimo, è simpatico e la sua spiaggia è bella. Al bar vendono, dopo le 10, pizzette buonissime. È bello quando restiamo tutto il giorno al mare anziché ritornare a casa subito prima o subito dopo pranzo. Quando restiamo mangiamo pizza, focaccia, soppressata, capocollo e anguria. Beviamo Coca-Cola nella classica bottiglietta di vetro. Giochiamo a bocce, a carte, a pallone, costruiamo castelli di sabbia. Non riesco a imparare a nuotare, ho paura, così metto sempre il salvagente. Adesso ho un costumino dello stesso colore del mare, i capelli più corti e il fratellino Alex e la cuginetta Maria, con la quale vivevo in simbiosi, chiamata da tutti Mariuccia per distinguerla da sua nonna Maria, sorella maggiore di mio padre. Suo padre Rodolfo non amava la spiaggia di Villapiana perché era piatta, il mare era basso e non poteva pescare. Così ogni tanto andavamo alla spiaggia di Bruscate, dove c’era un fiume e Rodolfo pescava a mani nude e il Lido Millepini, anche se andavamo quasi sempre alla spiaggia libera. L’acqua era profonda, mi sentivo meno a mio agio, ma il mare era mare e la sabbia, sabbia. Costruivo sempre castelli fatti come torte nuziali e pinnacoli lasciando scorrere sabbia e acqua tra le dita. La pizza non mancava mai, correvamo avanti e indietro, non c’erano domande da parte nostra, solo domande portate dal mare. Mia madre e mia cugina Vittoria chiacchieravano sedute all’ombra; Mariuccia, sua figlia, era la mia ombra e io ero la sua ombra. Giocavamo con mio fratello e con i cuginetti che, in numero variabile, venivano con noi. I cuginetti erano i figli di zio Giacomo, fratello maggiore di mio padre. Domenico, Luigi, Salvatore, Giancarlo e Mario, tutti nati tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta. Questo mare che ho avuto negli occhi e nelle orecchie tutto il giorno, è il mare dell’innocenza, il mare della gioia. Buona parte della mia infanzia felice è tutta racchiusa in quella manciata di estati infinite che nella memoria sono diventate eterne. Abbiamo conosciuto la felicità da bambini e la portiamo in noi. Quel mare, quel sole, il suono delle onde, il vento, la piana di Sibari, i fiumi Esaro, Follone e Crati, i fichi d’India, le angurie, u ‘melune a acqua e i meloni gialli, u’ melune i pani del capanno di Fragghiaco, la fonte di Spezzano Albanese, il forno dove compravamo le pagnotte di pane e la pitta, i pomodori dell’orto di nonna Mela e quelli dell’orto di Rodolfo che erano ancora più grossi e succulenti, le cipolle rosse di Tropea, il basilico, i peperoni verdi a cornetto, fritti nella padella di ferro, a volte soli a volte con le patate, il pollo, pure lui fritto, i maiali nella ‘zimma  a cui io e Mariuccia portavamo gli avanzi della tavola e soprattutto le bucce dell’anguria. Gli oleandri, la menta e i gigli selvatici, i fiori rossi di cui non ho mai saputo il nome, l’acquaro davanti a casa di nonna, la stalla, il tabacco appeso a essiccare, i campi di grano, gli ulivi, i fichi, la grande quercia, noi che andavamo tutti insieme a dormire alla sua ombra dopo pranzo.

L’infanzia è racchiusa tra il canto del mare e il canto della quercia: le onde e le foglie parlavano la stessa lingua.

La Cronaca 371 appartiene a domenica 14 marzo del secondo anno senza Carnevale e ultimo giorno prima dell’inizio di un nuovo confinamento in zona rossa. Il cielo è stato pulito dal vento e ha brillato luminoso e azzurro su tutta l’Italia per darci coraggio.

martedì 14 agosto 2012

I campi bruciati dell’estate


                    a mia nonna   

Vicino alla tua ombra
giocavo al riparo
mentre l’aria seminava
intorno odore di orto
l’odore del tuo corpo.

Inginocchiata sulla terra
sfioravi i pomodori seguendo
i tuoi gesti antichi
discorso mai imparato
a memoria.

Io ti camminavo nei passi
sciogliendo ogni esitazione
nel fango. L’acqua non rifletteva
il cielo ai piedi delle piante
era la terra a specchiarsi
prima di bere.

Insieme salutavamo
la grande quercia
le colline gremite di ulivi
i campi bruciati dell’estate.

Questo il paesaggio inciso
nella pietra del passato.
Laggiù ci troviamo, a volte
a camminare di nuovo accanto.

Elena Petrassi
Il calvario della rosa
Moretti&Vitali 2004

sabato 4 agosto 2012

Il grande esodo che non c'è più

Sul quotidiano La Stampa di oggi leggo due articoli dedicati alle vacanze dei tempi andati. Il pensionato Fiat Francesco Anrò, in posa davanti alla sua Fiat 850 bianca in una vecchia foto in bianco e nero, ricorda le partenze di massa quando la fabbrica chiudeva e la famiglia poteva permettersi tre settimane di vacanza al mare in Liguria. Anche la mia famiglia andava in vacanza nel mese di agosto. Un lungo viaggio verso la Calabria dove ci aspettavano la nonna paterna, zii e zie e soprattutto un nugolo di cugini. Il viaggio era costellato dalle soste nelle stazioni di servizio della Esso. Quando mio padre faceva il pieno, sentivo che lo slogan "metti un tigre nel motore" anticipava quel che sarebbe accaduto. Saremmo ripartiti con slancio e il nastro di chilometri alle nostre spalle sarebbe stato sempre più lungo di quello che andavamo srotolando. Adoravo l'odore della benzina, la schiuma del cappuccino dell'Autogrill, le facce sconvolte dal sonno dei viaggiatori che andavano alla toilette. Anche noi partivamo nel cuore della notte per rubare la strada vuota a quelli più pigri che aspettavano le prime luci dell'alba. Io e mio fratello dividevamo il sedile posteriore con le nostre borse che contenevano: almeno due copie di Topolino, qualche pacchetto della gomma del Ponte, patatine Pai, biscotti Pavesini. Finito l'arrembaggio alle provviste, cui eravamo autorizzati solo nella tarda mattinata, passavamo il resto del viaggio alternando litigi per il possesso dei Topolini ai giochi comuni con i soldatini di mio fratello o le mie Barbie. A ogni viaggio rimpiangevo che non avremmo mangiato i panini dell'Autogrill ma le cibarie portate da casa. Il menù standard prevedeva polpette al sugo, conservate in un thermos cilindrico verde, pomodori, pesche, pane casereccio a fette, thermos con acqua fresca e caffè per il guidatore. Nelle auto non c'era aria condizionata, così sul suo sedile mio padre metteva sempre un grande asciugamano a strisce bianche e rosse che poi avremmo usato in spiaggia. Mia madre viaggiava con dei pantaloni a sigaretta blu scuro, una camicetta abbottonata dietro piena di sfumature lilla, azzurre, viola, e una borsa anni sessanta che sembrava un confetto rivestito di cotone all'uncinetto blu zaffiro e il manico rigido. Per un mese smettevo di essere la bambina di città e diventavo la bambina di campagna che voleva imparare a camminare a piedi nudi come i cuginetti e lavava i panni nel ruscello davanti alla casa della nonna. Durante quei giorni estivi si realizzava quella sospensione della vita quotidiana di cui scrive Massimo Gramellini nel secondo articolo di cui dicevo all'inizio. 
"Qualsiasi viaggio è una fuga, ma anzitutto una rinascita. Ci si trasferisce in un altrove per poter svuotare la tensione accumulata e ricaricarsi di energia. Staccare e riaccendere l'interruttore con la speranza che nell'attimo di buio che separa le due operazioni succeda qualcosa - un amore, un'intuizione - che ci restituisca alla vita di tutti i giorni profondamente rinnovati."
Ma il giorno della partenza arrivava inesorabilmente, finite le vacanze, finite le lunghe ore in spiaggia a correre dentro e fuori dall'acqua, finite le gare nei campi bruciati, finiti i pic-nic all'ombra della grande quercia, finite le chiacchierate infinite, inesauribili con mia cugina Maria, detta Mariuccia, per distinguerla da sua nonna, che era poi mia zia,le nostre fughe sugli alberi, il cibo rubacchiato in cucina e divorato di nascosto nell'orto. Un mondo si richiudeva alle nostre spalle quando salivamo in auto per tornare a Milano. Ma sapevo che quel mondo bruciato dal sole era lì ad aspettarmi e che lo avrei ritrovato intatto l'anno successivo. L'ansia del ritorno veniva rimpiazzata dalla gioia di essere di nuovo a Milano. A volte partivamo la sera tardi e viaggiavamo di notte. Era meraviglioso attraversare la pianura dopo Bologna e riconoscere la città dall'odore dell'aria. A Melegnano ci mettevamo in fila per pagare il pedaggio di uscita dell'autostrada del sole. Ma noi il sole ce lo portavamo dentro e anche nel cibo che la nonna ci consegnava, come se al nord si fosse in eterna carestia. Oltre al pollo fritto nella padella di alluminio sul fuoco che era il pasto del viaggio, pomodori crudi e in salsa, peperoni verde buoni da friggere, peperoncini rossi freschi e secchi, qualche soppressata e un capicollo, olio extra-vergine, aglio e cipolle rosse di Tropea. Il cibo teneva a bada la malinconia e la trasformava in uno struggimento dolce, in quella nostalgia che tagliava la lingua e faceva smettere a mio padre di parlare nel dialetto nativo non appena uscivamo dall'autostrada. In casa parlavamo italiano perché mia madre è pugliese e quindi nelle loro lingue natali con mio padre non si sarebbero mai potuti capire. Ma io avevo imparato a decifrare quelle lingue anche se non a parlarle. Ogni tanto chiedevo a entrambi di tradurmi qualcosa nel loro dialetto, forse perché volevo ritrovare l'atmosfera delle loro infanzie vissute per intero senza conoscere la città. Ma questa è un'altra storia.

martedì 13 luglio 2010

I colori, la luce

Ma i colori, quelli no, non sono cambiati.
I colori nel sud hanno una sola dimensione, schiacciati dalla luce e dall’estate, senza sfondo. I casali, i tetti, i maggesi, le chiome delle querce e degli ulivi, i campi di granturco con le pannocchie pendule tra le foglie, il greto argilloso dei torrenti in secca, le spiagge bianche che orlano le costiere.
Colore puro, cotto dal sole. E le strade di terra che viaggiano in mezzo al colore. Il celeste delle finestre chiuse sui muri ocra non intonacati. Il verde brillante dei castagni, il giallo dei covoni, il blu del mare. Perfino il mare, d’estate, sembra immobile, laccato, senza respiro.
La natura, sotto la luce del sud, ferma l’attimo e lo rende eterno nella sua silenziosa fissità.
Il silenzio ha i suoi rumori. Il martelletto delle cicale è uno di quelli. Quando sotto la calura la cicala arresta per un attimo il suo canto, il silenzio s’interrompe.
Un altro rumore del silenzio è l’abbaiare dei cani nella notte. Tu ti svegli quando tacciono e la luce della luna arriva con le sue ombre di tenerezza fino al tuo letto. Ti riaddormenti quando i cani riprendono ad abbaiare e il silenzio riempie di nuovo la notte sonora.

Dormono le cime dei monti
e le vallate intorno,
i declivi e i burroni.
Dormono rettili, quanti nella specie
la nera terra ne alleva,
le fiere di selva, le varie forme di api,
i mostri nel fondo cupo del mare.
Dormono le generazioni
degli uccelli dalle lunghe ali.

Così vorrei che ogni sera un canto come questo cullasse il mio riposo e quello delle creature che abitano nella mia mente e nel mio cuore.

Questo brano è una citazione del libro autobiografico di Eugenio Scalfari L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi 2008). La poesia è il Notturno di Alcmane nella bellissima traduzione di Salvatore Quasimodo.
Ho letto il libro oggi d’un fiato, senza mai chiuderlo e senza avere mai alzato gli occhi dalla pagina. A volte mentre cerchiamo nella natura una corrispondenza al nostro stato d’animo, la risposta arriva da un libro e dal ricordo di qualcun altro. Un ricordo che mi è così familiare perché quella di Scalfari è anche la mia memoria della Calabria. Il libro è pieno di sottolineature e note ai margini. Lo riporrò nello scaffale dei libri da tenere e da rileggere. Ora me ne sto quieta ad ascoltare le cicale e a rammemorare le estati della mia infanzia.