martedì 30 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/114: indovinare l’estate in un cortile del mondo, amore e solitudine, e vento


Salutiamo giugno che finisce e respiriamo la luce trasparente, le nuvole bizzarre, le onde piccole del nostro mare interiore.

In bilico tra la primavera e l’estate è un mese di delizie dove maturano le ciliegie, si consolidano gli amori, il mare ci chiama alle sue rive e le conversazioni procedono lente sdraiati tra la spiaggia e il porticato.

Il primo saluto è una poesia di Antonella Anedda:


giugno, notte

 

Si abbassa il cono della luce.
Presto sarà notte completa.
Guardo i corpi ardenti alle finestre
i gesti delle braccia confusi agli alberi d'estate.
Sarà notte tra poco. Qualcosa già comincia a velarsi
il tempo di passare a un'altra stanza
appena un po' più angusta
di cui ci fa soffrire solo l'angolo cupo di uno specchio.
Allora non le case o i volti
ma le ombre dei volti e delle case premeranno sui vetri
tremendi, incerti per annuncio o ricordo.
Diremo amore in un diverso spazio
e sarà sabbia la voce che trasmuta.

Eppure non è notte, amore - ancora non è notte.
È giugno -
      lento - di buio.


Proseguo la mia opera alla Sherazade con un frammento del mio primo romanzo.
La voce narrante è la città di Milano:


Giugno, Via Morigi


All’improvviso le giornate si sono allungate, le notti sono un respiro corto d’amante, le albe un frullare di canti e voli d’uccello.

È bello dormire poco nelle notti brevi dell’estate, io pure dormo poco e mi attardo volentieri nei cortili.

Ne scelgo uno nel quartiere Magenta, vicino a via Morigi, dove la strada svanisce come un sogno mattutino.

Il portone è alto, di legno scuro e massiccio, si entra solo con la chiave perché non esistono citofoni.

Il padrone del palazzo ha dimenticato di possederlo, il palazzo ha dimenticato di esistere e il tempo di trascorrere. Lampade fioche illuminano l’ingresso altissimo. La vecchia portinaia sonnecchia nella guardiola. Le cassette della posta sono vecchie e rose dai tarli e dal sale, più vecchie del palazzo stesso, perché il legno è stato recuperato da una nave affondata al largo di Genova e finito fin quassù con un vecchio marinaio che ha smesso di navigare. Lui pure vive in questa casa e ha quasi cent’anni, la sua memoria è la memoria del cortile. Ora che è così vecchio non esce più perché le scale sono una fatica insostenibile. Però non si sente prigioniero, ha una terrazza proprio all’ultimo piano e ogni primavera le rondini tornano a fare il nido sotto il suo tetto. La vista che si gode da lassù è incomparabile, ma questo non lo sa nessuno, perché un muro di piante cela la terrazza allo sguardo degli altri inquilini. Da lì, lui guarda a piacimento quel che succede in tutte le altre case. Le sue osservazioni sono facilitate dalla mancanza di persiane in molte finestre. Ciò è dovuto al fatto che un tempo la casa era il magazzino di una fabbrica di filati.

Le due terrazze gemelle del secondo piano sono in perenne gara, ogni estate, per quale delle due sarà la più fiorita. I proprietari hanno gusti diversi in fatto di fiori e questo rende ancora più bella la vista che il vecchio marinaio gode dalla sua postazione.

Nell’appartamento più grande vive un architetto dagli occhi di fuoco verde e azzurro che ha smesso di invecchiare. Nel cuore degli anni sessanta, quando si è trasferito a vivere in quella casa, non era solo. Il numero degli inquilini variava fra i tre e i quindici, a seconda dei periodi. Ora è rimasto l’unico abitante di quella grande casa sovraccarica di ricordi. Lui sembra non badarci e continua imperterrito a disegnare case che non costruirà mai e tavoli sui quali nessun banchetto verrà imbandito.

A volte l’architetto e il marinaio si parlano, uno affacciato alla finestra e l’altro alla terrazza, ma solo d’estate, perché il marinaio non sopporta il freddo umido dell’inverno. Nell’appartamento di fronte abita un pittore con la sua terza moglie e un numero
incredibile di tele accatastate.

Dipinge da trent’anni ma ama a tal punto le sue creazioni, da non essere mai riuscito a staccarsene e così non ne ha venduta neppure una. L’inverno scorso non aveva neppure i soldi per pagare le bollette e così, per scaldarsi, ha bruciato prima i mobili e poi le cornici dei quadri, utilizzando le stufe e i caminetti che prima non usava mai perché ha paura del fuoco. I soldi per la sopravvivenza gli arrivavano da collaborazioni con agenzie di pubblicità, ma in questo momento c’è molta crisi anche in questo settore, così stenta pure lui a tirare la fine del mese. Ma non per questo si metterà a vendere i suoi quadri, questo mai, meglio la fame.

All’ultimo piano di fronte al marinaio, vive una donna bellissima che canta e insegna musica. Non è raro, verso il tramonto, tornare a casa e sentire la sua voce cristallina che si alza verso il cielo. Anche le rondini tacciono al suono della sua voce. Il vecchio pensa che quello doveva essere il canto delle sirene che lui ha sempre sperato di incontrare e non ha veduto mai quando, da giovane, navigava.

Nell’ultimo appartamento, sullo stesso piano, vive un fotografo che è nato sotto altri cieli. Arriva da una terra lontana, separata dal resto del mondo da montagne altissime e da un oceano infinito. Porta nella sua voce un poco di quella solitudine estrema e con il suo sguardo abituato a terre sconfinate vaga per la città, cercando di svelare i misteri che si dice certo esistono. Ha già catturato visi di donne tormentate e giovani inconsapevoli, di vecchi dimenticati dal tempo, di bambini dallo sguardo pieno di futuro. Da tempo cerca di ritrarre anche la cantante, ma lei si nega, più per gioco che per reale avversione.

Al primo piano ha lo studio e l’abitazione anche un analista junghiano dai capelli ormai bianchi da lunghissimo tempo. Se le sue mura potessero parlare quante storie, quante leggende, quanti miti ricreati in questa città di misteri evidenti. Anche lui è stato sposato più di una volta, ma da quando è morta la sua ultima compagna, ha deciso che non è più tempo per lui di dedicarsi all’amore. Quando non riceve i clienti, passa il tempo a studiare e a scrivere il suo nuovo saggio. Peccato che l’esperienza degli uni non serva mai agli altri, ognuno deve scendere da solo nel suo inferno personale e ritrovare poi la via di uscita. E smarrire il senno vagando tra i sogni altrui, oltre che nei propri, è rischio che sa di avere corso tutta la vita. Ora che è vecchio non ne ha più paura, sa di sedere al centro di se stesso e in se stesso di avere trovato il proprio riposo e la propria ragione di essere al mondo. È grato a tutti quanti ha incontrato durante la sua lunga carriera. Ha imparato ad amare quelle donne e quegli uomini che gli hanno fatto dono della propria umana fragilità. Si sente retorico a volte, però è come se tutte le costellazioni ruotassero nel suo cuore e tutti i cieli fossero visibili attraverso i suoi occhi. Questo è il suo concetto di felicità terrena.

Accanto a lui abita, in una casa di libri e specchi, la rossa Caterina. Conosce tutti e tutti la conoscono, si ferma a fare chiacchiere per le scale e presta i libri a chi glieli chiede.

Il resto del piano è occupato da una sartoria teatrale gestita da due sorelle anch’esse anziane. Loro vivono e lavorano tra quelle mura quasi da quanto il vecchio marinaio. Non danno molta confidenza agli altri inquilini, ma sono simpatiche e cucinano torte indimenticabili.

Caterina si presta volentieri a indossare i costumi e a giocare alla bella dama dei tempi andati.

Non è facile entrare in questo cortile perché è uno dei luoghi dove ogni cosa palpita, respira ed è viva.

Altre storie si aggiungono a quelle degli abitanti del cortile, portate dallo sciamare degli amici della cantante e del fotografo che vanno e vengono per le scale, dai pazienti dell’analista, dagli attori che vanno a provare i costumi.

Il modo migliore per coglierle è predisporsi all’ascolto così come fa il vecchio gabbiere dalla sua terrazza invisibile nelle sere d’estate.

Bisogna dormire nel pomeriggio, per accumulare molta energia.

Poi ripescare dal frigorifero una bottiglia di vino bianco vivace, indossare abiti leggeri e telefonare all’uomo dagli occhi di fuoco dicendogli: “sto arrivando”.

In terrazza ci saranno sedie a sdraio e lettini, una tavola già pronta per la cena e qualche altro naufrago estivo che non ha lasciato la città.

A volte è possibile trovare, tra gli ospiti della terrazza, anche una poetessa che dice i suoi versi con gli occhi chiusi: “Indovinare l’estate in un cortile del mondo, amore e solitudine, e vento”.

Qui nascono poeti e invecchiano, scrivono di me in continuazione, io li osservo e gliene chiedo conto.

Su questa terrazza mi fermo stasera, la meraviglia sarà completa se il padrone di casa avrà molta voglia di raccontare. Si accenderanno le candele e la notte sarà chiara fino a molto tardi. L’uomo parlerà a lungo e tutti si lasceranno trascinare dalle sue parole. È estate, anche io, città malandata, lo so.

Da una delle terrazze un uomo si affaccia ad ascoltare la nuova storia. Ma per poco perché le ultime nuvole screziate di viola attirano il suo sguardo e irrimediabilmente lo trascinano via. Si chiama Roberto, è l’unico che ancora non conosce Caterina.



Ecco che ho svelato la mia passione per le storie affollate di personaggi.
I miei coinquilini pare abbiano apprezzato.

La notte scende, accendiamo le candele, prepariamo la tavola in riva al mare.
Sul filo dell’orizzonte un’enorme balena blu salta e si rovescia sulla schiena, riemerge, pare ci stia salutando.

Scegliete anche voi una storia o una poesia per salutare il mese a cavallo tra estate e primavera.



La poesia di Antonella Anedda è tratta da Notti di pace occidentale, Donzelli editore 2001

Il mio primo romanzo – la cui voce narrante è la città di Milano – si intitola Frammenti del tredicesimo mese, Atì editore 2007.

Il titolo di questa cronaca 114 è un verso della poetessa Anna Lamberti Bocconi.

Le terrazze di questa Cronaca appartengono a palazzi di Via Morigi e Via San Marco. Soprattutto appartengono a un’altra epoca.

lunedì 29 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/113: dove le onde ripetono il nostro nome


Il lento cadere dei giorni segue la rotazione delle stelle. Mai ritorneremo sotto lo stesso cielo, mai rivedremo la stessa alba dietro il crinale delle nuvole.

 

Questa lentezza è una conquista di sillabe e singhiozzi, la resa di un sistema solare che si arrende al pensiero della luna.

 

Questa spiaggia è tutte le spiagge, ogni onda è gemella di tutte le onde. Cosa cambia allora? Dove sta la differenza?

 

Vorrei avere una risposta – dice Odisseo – ma il lungo viaggio mi ha insegnato soprattutto a pormi domande nuove. Altro non so fare.

 

Davanti a noi non siede il vecchio guerriero che ha solcato i mari per venti anni prima di tornare nella sua Itaca. È ancora il volto di Ulisse l’astuto che ci guarda, come se non sapesse nulla delle peripezie, degli amori, dei lutti che lo stavano aspettando.

 

Mi piace questa spiaggia, sembra di approdare a un’isola, sono lieto di avere accettato il vostro invito e mi fermerò qualche giorno.

 

Una delle tre sorelle gli offre ospitalità e tutti e quattro insieme si incamminano verso la loro casa.

 

Questa sera – grida la più piccola – questa sera venite tutti da noi. Festeggeremo il nostro ospite e il tuo compleanno!

 

Ho sempre adorato festeggiare il giorno del mio compleanno, anche adesso che non sono più giovane, anche adesso che pensavo che la vita non avrebbe più avuto grandi sorprese da svelarmi.

 

Le cose accadono, gli amori nascono, Odisseo è venuto alla mia spiaggia, le sorelle Bronte scrivono in riva al mare. Qui non sono mai sola, chiamati o non chiamati gli dèi sono arrivati sino a me.

 

Non tutti possono fare avanti e indietro tra questa terra dell’immaginazione e la città silenziosa come faccio io, ma chi può mi accompagna e resta con me anche nella terra desolata che abitiamo.

 

Ma oggi è il giorno del mio compleanno, tutto il creato festeggia con noi.

 

 

 

per il giorno del mio compleanno

 

Le cicale e le rondini, il cielo azzurro,
la menta selvatica e l’oleandro
per il giorno del mio compleanno
il mare sale sullo sfondo e cerca
di afferrare le nuvole, il vento
di maestrale si insinua nel
ricordo, tutti gli istanti cadono
nell’unico momento dove
il tempo è solo un luogo
dove siamo già stati e
le onde ripetono ancora
il nostro nome.


Questa poesia l’ho scritta un paio di anni fa. Ci sono sempre cose che restano con noi nell’eterno presente del momento pienamente vissuto.

domenica 28 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/112: il canto delle cicale scolpisce il giorno di questa invincibile estate


C’era un tempo in cui gli dèi e gli uomini dormivano sotto lo stesso cielo, riposavano all’ombra degli ulivi, si nutrivano di latte di capra e miele, di olive e fichi.

 

Erano mossi, uomini e dèi, dalle stesse passioni, dagli stessi furori, dalle stesse illusioni.


Solo due erano le cose che li distinguevano.

 

L’immortalità, mi direte subito. Certo ma prima dell’immortalità, c’era un’altra cosa, una cosa ancor più stupefacente.

 

Cambiavano forma come volevano, cambiavano forma come volevano. Diventavano pioggia, albero, toro, costellazione. Senza mai perdere quella unicità che li contraddistingueva.

 

Dunque, la materia era uno stato provvisorio e volatile, per questo gli dèi erano immortali e gli esseri umani no.

 

Avremmo potuto imparare se ce lo avessero insegnato? Forse sì. Ma a loro non interessava la nostra immortalità.

 

Si annoiavano e si annoiano ancora. Per questo l’infinita combinazione dei nostri geni aumenta le loro possibilità di divertimento.

 

Vi chiederete come si manifestano tra noi ora che abbiamo dimenticato i loro nomi antichi. Non è impossibile riconoscerli tra i divi del cinema e della musica, tra i politici e gli opinionisti. Di questi tempi anche tra gli influencer, i famosi per essere famosi.

 

Sono avidi, ingordi e insaziabili gli dèi. Hanno fame della nostra giovinezza, del nostro stupore, esistono perché noi umani esistiamo. Deve essere insopportabile una giovinezza millenaria che può rinnovarsi in qualunque momento. A noi il dono dell’invecchiare, il dono dell’essere uguali e diversi giorno dopo giorno.

 

Dentro siamo sempre uguali, noi, ci riconosciamo. È il corpo che muta in maniera inarrestabile e ci tradisce.

 

Un corpo mortale che è l’unica porta verso l’eternità. Che gli dèi non conosceranno mai. Perché non possono dismettere i loro corpi eternamente giovani per accettare il mistero dietro la soglia.

 

Se ci annoiamo noi, nelle nostre spoglie mortali, quanto può essere noiosa la vita per loro che vivono di istanti e non conoscono il nostro male umano ma solo quello divino?

 

All’ombra della quercia centenaria, in una domenica d’estate, di questo parlavamo noi abitanti della Casa delle Parole.

 

Così ho aperto il mio taccuino e ho letto questa poesia.

 


Il dolore si nasconde tra le pieghe della luce

Il tempo è spezzato in due parti divise
di netto dall’ora meridiana: il mattino è
acqua, sabbia e rocce, il pomeriggio
si riposa nella frescura del giardino,
nelle ore d’ombra rubate al melograno
e alle mie parole. Non cerco scuse per
dire come il dolore si nasconde tra
le pieghe della luce. Ogni finzione è
vera se il sole non mente, se sfioro
l’acqua e sto nel giardino, mentre solo
il canto delle cicale scolpisce questo
giorno chiuso di un’estate invincibile.

 

 

Millenni a parlare delle stesse cose, a cerca risposte e nuove domande. Siamo sempre gli stessi, non cambiamo, siamo lo specchio degli dèi, per questo ci inseguono ancora.

 

Cercano attraverso noi di varcare la porta dell’eternità, ma noi possiamo solo offrire questa estate infinita che non conosce la sconfitta, perché abita in noi e dell’eternità è il preludio.

 

E poi c’è il vento - dice il sapiente guerriero che ha molto navigato - ascoltate cosa dice un vecchio marinaio.

 

“Il ‘levantazzo’ è il vento di scirocco-levante quando diventa acceso, come dicono gli uomini delle barche, nei pomeriggi infocati. È il vento che viene dalla parte più viva dell’Adriatico, da dove sorge il sole. Un vento carico di luce e di riflessi, che ravviva il mare di onde frequenti e irte di schiuma, che riempie di colore le nostre scogliere, che porta i semi del mirto e del rosmarino, che matura i fichidindia e l’uva e insanguina di papaveri i campi di grano, che cuoce la fronte e la nuca dei pescatori, che feconda il mare di nuovi pesci. Qui giù il sole sorge dal mare e peschiamo negli intervalli fra la tramontana – un vento che non ci appartiene, che ci porta solo freddo e mare grigio e un gelo di montagne, di altre terre troppo lontane da noi – e il levante che è il mare della Grecia, dei miti, dei pastori e delle sirene, dei delfini e dei tonni, il vento della nostra civiltà antichissima, su cui aprirono le vele Ulisse e Diomede, soffia sempre su di noi, e anche se sono passati i millenni, se la Grecia è solo rovine, da levante continueremo ad attingere calore e vita. Ma è difficile spiegare cos'è il ‘levantazzo’. Diciamo che è anche la gioia di immaginare Agiostrati, o di leggere l’Odissea e di pensare che esistono ancora le sirene”. 

 

Dovremmo tornare al nostro mare e se non possiamo andare da lui portarlo qui nella nostra terra dell’immaginazione. Dove c’è il mare torna il vento. Dove ci sono mare e vento c’è la Grecia. La Grecia non è una terra, non solo, ma uno stato d’animo. È terra interiore che con le parole possiamo ricreare qui sulle nostre rive.

 

Ora che il sole volge a Occidente e la brezza ci guida andiamo in spiaggia. Le tre sorelle non si vedono, il ragazzo gioca in acqua con i delfini.

 

Con che nome dobbiamo chiamarti Odisseo perché tu venga alle nostre rive e ci racconti la tua storia?

 

 

 

La poesia è mia ed è tratta dalla raccolta Un’estate invincibile, Atì editore 2019.

 

La citazione è di Antonio Mallardi, Levantazzo, Leonardo da Vinci editore 1961


sabato 27 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/111: la mia ombra rabbrividisce nell'aria del mattino


Siamo saliti verso la Valle delle Nuvole, è un po’ più in alto rispetto all’Altipiano della Luna, sembra che inizino davvero le Montagne, ma è solo un’illusione ottica.

 

Superato il primo crinale, la valle si apre al nostro sguardo e mi costringe a fermarmi per respirare.

 

È verde, scintillante d’acqua, sembra che ci stesse aspettando. Il nostro solito corteo di personaggi dai nomi misteriosi o ignoti, tace e si immerge nella contemplazione.

 

Mentre noi guardiamo i prati, i boschi, i fiumiciattoli, per la prima volta nella mia vita sento lo sguardo della natura avventarsi su di me.

 

Uno sguardo molteplice e feroce che arriva dalle rocce, dal verde profondo, dai refoli di vento, dalle nuvole.

 

Che presunzione pensare che solo il nostro sguardo possa cogliere il mondo. Noi ne siamo parte e il mondo ci depreda della nostra immagine senza che possiamo farci nulla.

 

Gli occhi della pietra sono pietra e colgono le asperità della nostra anima.

 

Gli occhi del vento sono d’aria e avvolgono le nostre forme prima e ci passano attraverso poi.

 

Gli occhi del fiume sono verdi e profondi, pesci guizzano verso di noi, ci sfiorano e dicono al fiume il nostro peso e la nostra paura di galleggiare.

 

Gli occhi delle nuvole sono di pioggia, quando le gocce ci toccano gridano al cielo che ci siamo e che la caduta felice verso la terra, è stata interrotta dai nostri corpi sconosciuti.

 

Gli occhi della terra ci scrutano dal basso e disegnano la forma dei nostri passi, sanno prima di noi quando è tempo di fermarsi e mutano la forma del sentiero se non vogliono farci proseguire.

 

Gli occhi dell’aria sono gli stessi occhi di chi ci sta intorno, gli sguardi che ci definiscono, la sottrazione della forma che crediamo di essere per arrivare a coincidere con quella che gli altri vedono.

 

Il racconto del mondo è il racconto dei nostri sguardi intrecciati. Nessun altro senso contribuisce all'idea che abbiamo del mondo quanto la vista.

 

La memoria è infinito museo, i libri evocano immagini, la memoria e i libri sono insieme per l’eternità nell'immensa biblioteca borgesiana.

 

Anche l’atto dello scrivere e del leggere passano attraverso la vista e lo sguardo. Sappiamo dai neuroscienziati che l’occhio trasmette informazioni al cervello e che il cervello completa la visione con informazioni che già possedeva. Ciò significa che ogni sguardo è un ritorno e che pochissime cose, forse nessuna, sono guardate per la prima volta.

 

Scriviamo usando poche lettere e segni di alfabeti che, grazie all'arte combinatoria di cui siamo capaci, compongono sillabe, parole e significati.

 

Attraverso la lettura noi ricostruiamo quel mondo di simboli e significati immaginato dallo scrittore.

 

Ma quando a scrivere è il mondo, la natura stessa, cosa ne viene indietro a noi?

 

Sono indagatori tutti questi sguardi che percepisco intorno a me. Il mondo si ribella all'unica direzione che crediamo di percorrere noi che stiamo guardando e che siamo ancor di più guardati.

 

I luoghi si ricordano di noi a distanza di secoli, anche se sono cambiati, anche se noi non ci siamo più.

 

Nel coro del vento sento emergere una voce:

 

 

 

L'impero del caso

 

Ha il suolo arido e si estende tanto che lo sguardo ne scorge

solo frammenti; delle sue città si diceva splendessero,

ma sono di solito nascoste e appaiono, improvvise

e per caso, dietro una curva.

Abito vicino alle montagne in una valle

brulla disseminata di massi sferici e rossi.

Coltivo un campo che si offusca e scompare,

poi si volta indietro a salutarmi. Dopo il lavoro

spesso mi siedo nell'aria smeraldina della sera,

le gambe ben stese in avanti,

il collo del giaccone ben rialzato,

la sedia di vimini reclinata,

e provo a immaginare che fanno lassù

sulle colline di cristallo, così fredde, così colme

dell’assenza di tutto ciò che abbiamo qui.

Il rumore dei treni distanti, i loro protratti

fischi monotoni, plana dai passi ghiacciati.

E nel buio, sotto il peso della luce di stella,

sogno di essere altrove: sento il mare che si culla

sulla costa e il puro vento leggero

farsi strada tra macchie di pini stenti

e strati di aria fosca. E mentre mi sforzo

di tenere vicina quella veduta,

il giardinetto sul retro della casa

spande la sua fragrante carne illuminata dalla luna.

Quando arriva l’alba,

la pianura nuda oltre il mio prato

si fa rosagrigia e sparse nubi trascinano

falde di pioggia.

E nell'incrollabile vampa

di sole che si incurva

ad avvolgermi, tutto vortica

via, fuori dalla mia portata, come se l’esser qui

fosse uno sbaglio. Così il giorno comincia.

Il gran lago a occidente fa salire un muro di caligine,

le montagne a sud e a est un fregio

di vette innevate, e gli ariosi spazi

del nord un ammasso di freddo.

Malgrado gli antichi confini, l’impero è informe.

Lavoro il mio campo sotto le strida dei gabbiani

e lo sguardo profondo del cielo. Lavoro sodo

finché non sopporto più il mio lavoro.

È la dura verità di quel che faccio.

La mia ombra rabbrividisce nell'aria del mattino.

 

- Non siete mai soli - canta questa voce - qui è pieno di coloro che sono stati ed è pieno degli sguardi di noi, pietre, vento e rocce che vi stavamo guardando. Ora anche i vostri corpi hanno una forma nel nostro canto, un giorno a qualcuno diremo di questa giornata estiva vestita di lavanda e oro, dove i tuoi capelli fluttuavano nel vento e le vostre voci umane si appaiavano al ronzio delle api e al frinire delle cicale. Per chi sa ascoltare ogni voce è una storia, ogni canto un ricordo.

 

Ci guardiamo intorno, un po’ smarriti, un po’ sorpresi. Come sono piccoli i nostri passi oggi, ci siamo fermati tutti insieme per convincere l’eternità a restare con noi, e ci siamo riusciti.

 

È estate, la stagione del raccolto e dei progetti.

 

Estate, stagione dove la poesia esplode come il melograno maturo e dove le ciliegie cadono a terra e si trasformano in farfalle.

 

È ancora estate, qui sul crinale della sera, dove uno sguardo, il tuo sguardo, verde e oro, è tutti gli sguardi che abbiamo incrociato, dove il racconto è solo un girasole impazzito di luce.

 

La casa, gli sguardi, le montagne, gli amori, un passo dopo l’altro ritorniamo, è sera nei crinali e negli occhi e presto sarà notte, dolce e cullata dai grilli, sposata alla luna che ci attende sul tetto della nostra casa.

 

 

 

La poesia è di Mark Strand, tratta dalla raccolta Il futuro non è più quello di una volta, a cura di Damiano Abeni, minimum fax 2006


venerdì 26 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/110: la luce nell'aria e tutto intorno a me


Prima di iniziare la salita bisogna che la luce passi attraverso gli occhi, sbianchi lo sguardo e ci lasci immemori di chi ci ha preceduto.
Ai piedi del Monte Ventoso l’aria brillava come se una mano feroce avesse passato la mattina a lucidare il cielo. Il mondo riposava in quella luce che chiedeva coraggio, invocava la fatica della salita, il desiderio della cima, lo sguardo che infine poteva librarsi prossimo alle nuvole.
L’aria profumava di lavanda, di timo, di sale e di miele. Le api ronzavano incrociando il volo delle rondini, e il vento ci spingeva nel luogo dove lo sguardo diventa acuminato e la luce rivela i suoi segreti. Dopo uno dei tornanti, una stradina laterale, quasi nascosta dagli arbusti, finiva vicino a tre minuscole case dai colori della terra e delle rose.
Una porta era aperta e c’era infisso nello stipite un cartello che invitava a entrare. Nella zona d’ombra della stanza una donna giovane con lunghi capelli biondi e ricci, stava dipingendo un vaso fatto a mano. Indossava una tunica di lino color avorio dai complicati ricami in oro.
Il tempo si fermò con me a guardarla lavorare. Alle pareti erano appesi quadri che la ritraevano e i colori erano gli stessi celesti e ocra che stava usando per quella decorazione. Non dubitai che anche la mano fosse la stessa. Un cane lupo dormiva nella lama di luce sotto la finestra, il muso appoggiato al fresco pavimento di pietra.
La seconda stanza sembrava vuota, ma dal piano superiore un suono di pianoforte irruppe nell’aria, così intenso e improbabile perché era musica di un altro tempo remoto, ma sbagliato. Mi fermai ad ascoltare in silenzio, in un vaso trasparente rose bianche e gialle fiorivano e appassivano sotto i miei occhi.
Quando la musica tacque mi accorsi che la donna e il cane non erano più nella stanza. Uscii ma intorno alla casa non c’era nessuno e le imposte del piano superiore vennero sbarrate.
Ripresi la salita senza mai smettere di cercare quelle case a ogni giro, le vidi sino alla fine della strada, sempre più piccole, sempre più simili a un mucchietto di sassi gettati con noncuranza.
In cima mi accolse un vento impetuoso, mi inginocchiai per salutarlo e rimasi a guardare l’orizzonte oscillando a ogni folata.
Al ritorno svoltai verso le case perché volevo comprare un quadro. Ma c’erano solo un mucchio di mattoni e pietre e un muro che finiva con una finestra aperta su una stanza invisibile.

Non appena finii di leggere chiusi il quaderno e guardai gli abitanti della Casa delle Parole. Il poeta accennò un applauso, il misterioso architetto e il sapiente guerriero chiesero di poter ricopiare il racconto nei loro taccuini. La lupa venne ad accucciarsi ai miei piedi, la regina e la sacerdotessa parlavano a bassa voce.
- È un sogno quello che ci hai letto? – mi chiese il re.
- No, non è un sogno, è un ricordo. Una cosa accaduta in un altro tempo e in un altro spazio. Ma oggi, quando sono andata a camminare alle pendici della cima più bassa delle Montagne della Nebbia e l’aria intorno me era d’oro e turbinava, mi è ritornata in mente l’ascesa al Monte Ventoso che avevo scritto dopo averla vissuta. Non ho inventato nulla. Le cose erano proprio come le ho descritte. Quando ho preso la strada del ritorno, stamattina, ho rivisto le stesse case del racconto. Perché, sapete, è proprio vero che immaginazione e memoria costruiscono la nostra realtà. Andiamoci insieme domani, voglio vedere se qualcosa sarà cambiato, perché anche voi avete immaginato le case prima vissute e poi in rovina.

Con questo racconto chiudo una panoramica sui quattro elementi, forse scriverò anche del legno anche se di ciascun elemento ho già scritto molto e ritorno sempre sui miei passi e sulle mie parole.
Questa sera vi saluto con un brano da uno dei miei scrittori più amati di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

 

“Ma la cosa più bella è l'aria. Sì. E a poco a poco, ho imparato a vivere dentro di essa. L'aria e la luce, sì, anche quella, la luce che risplende su tutte le cose e le rende visibili ai miei occhi. C'è l'aria e c'è la luce, e questa è la più bella. Mi perdoni. L'aria e la luce. Sì. Quando è bel tempo, mi piace star seduto vicino alla finestra aperta. A volte guardo fuori e osservo le cose sottostanti. La strada e tutte le persone, i cani e le automobili, i mattoni del palazzo di fronte. E poi ci sono le volte in cui semplicemente chiudo gli occhi e rimango seduto, con la brezza che mi soffia sul viso, e la luce nell'aria, tutto intorno a me e appena oltre i miei occhi, e tutto il mondo è rosso, di un bellissimo rosso nei miei occhi, con il sole che splende su di me e sui miei occhi”.


La sera dolce e profumata si avvicina a piccoli passi, l’aria resterà con noi, la luce si avvolgerà nel suo mantello notturno, solo dentro di noi continuerà a risplendere come ricordo e come desiderio.


Il mio racconto è inedito in volume, l’ho riletto pensando a questa Cronaca 110 e ho deciso di inserirlo.

La citazione è di Paul Auster, dalla Trilogia di New York. Città di vetro. Einaudi 1996, traduzione di Massimo Bocchiola.