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mercoledì 15 settembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/556. Il profumo delle case di notte è la promessa dell’alba

 

 


 

Camminano di notte, non riescono a dormire, del sonno hanno un ricordo vago. Scendono in strada, camminano piano. Le case di notte sono piccole isole che custodiscono il riposo di quelli che possono dormire. È nelle ore più profonde del buio che i sogni riescono a sfuggire dalle finestre socchiuse e vanno a incontrare i pensieri e i tormenti di chi non dorme. È più difficile vivere senza sogni, perché tutti i patimenti e le pene restano sospesi nell’anima di chi veglia. Per questo altri sogni escono dalle case e vanno in cerca dei dolori troppo grandi per poter essere lasciati nel cuore di un uomo solo o di una donna in lacrime. Quando il dolore di uno incontra il sogno di un altro, allora e solo allora, il dolore può placarsi e il sogno insegnare ai cuori che non ci sono pene senza rimedio e che bisogna lasciare alle notti, alle notti che tornano, il compito di raccogliere quei frutti amari che sono maturati. Ora che il peso si è addolcito, qualcuno tra gli insonni si avvia verso casa, apre il portone, sale le scale, apre la porta di casa e riconosce subito il profumo custodito da quelle mura e solo da quelle. È un miscuglio di sapone, sugo, cera per pavimenti, incenso, deodoranti, fiori recisi, pane caldo, caffè mattutino. È il profumo del conforto quello delle case di notte, è la promessa dell’alba che accetta l’invito e si ammanta di luce e promesse.

 

Il giorno che stavi aspettando

 

Se il giorno nuovo dovesse

avere solo un profumo,

sarebbe quello del caffè

che sobbolle in cucina. Poi

è lo scroscio dell’acqua nella

doccia, l’inizio della mattina,

una promessa ripetuta che

non si realizzerà, ma la cosa

davvero importante è sapere

che la promessa esiste, che

berremo quel caffè e respireremo

il profumo del pane caldo e

sentiremo una voce cara che ci

chiama e dice: “Vieni, questo è

il giorno che stavi aspettando”.

 

 

Si preparano le case ad affrontare la nuova notte che viene, si preparano così come l’amante attende la sua amata. Con un senso di ineluttabile e di attesa, perché anche le notti portano promesse, ciascuna notte ne ha una diversa e gli insonni che camminano senza sogni e senza speranza, possono allungare una mano verso l’albero più vicino e ci sarà sempre un frutto pronto a placare quella fame senza nome che accompagna l’inquietudine notturna.

 

Oggi è mercoledì 15 settembre del secondo anno senza Carnevale e la notte è pronta, è arrivata, forse ci porterà la grazia di un sonno di sogni e speranza, forse solo di un sonno senza sogni e lascerà all’alba il dono della speranza. Per questo ho scritto anche oggi una nuova Cronaca e questa è la 556, che sta proprio nel mezzo del mese che ci porta l’autunno.

domenica 18 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/406. La grazia del sonno e il canto della notte

 


 

Imparare la notte non è semplice, è un impegno il cui esito non è scontato. Da bambini conosciamo la notte, abbiamo paura del buio, ma sappiamo abbandonarci al sonno come solo i gatti sanno fare allo stesso modo. La notte e il sogno coincidono, se arrivano gli incubi ci si risveglia di colpo, ma qualcuno si prenderà cura di noi e dei nostri incubi. Le minacce svaniscono con la luce, gli abbracci e le parole dolci confortano. Nei casi più seri occorre un bicchiere di latte tiepido e qualcuno che ci tenga abbracciati per farci riaddormentare.

Nel sonno ridiventiamo tutti vulnerabili come bambini, per questo ci rassicura sapere che qualcuno veglierà su di noi se ne avremo bisogno. Quando ero bambina e vivevo con i miei genitori, era mio padre ad accorrere in caso di incubi, aveva il sonno leggero e arrivava fulmineo a rassicurare. Ricordo i suoi interventi soprattutto perché sono stati rari, il sonno e i sogni erano un momento fondamentale della giornata, non tempo perso o non vissuto, ma tempo denso di significato che ravvivava la vita da svegli, come quando si passa una pennellata supplementare di olio su un dipinto già iniziato. Ricordo dormite fenomenali nell’infanzia e nell’adolescenza, anche dodici ore di fila, ma non ho ne ho nostalgia. Ogni età ha bisogno del suo sonno, così da adulta ho iniziato ad andare a letto sempre più tardi per poter leggere, scrivere e studiare, cosa che faccio ancora oggi. I piccoli riti per convocare il sonno sono sempre gli stessi: una tisana, le ultime chiacchiere con le persone che amo, un profumo gentile di lavanda sul cuscino, un libro che mi piace abbastanza ma non mi appassiona, così non sono costretta a restare sveglia per finirlo. La cura del sonno inizia così, anche quando mi occupo del sonno di altre creature. Penso ai gatti, che dormono anche di giorno con le zampine che gli proteggono gli occhi, che di notte vengono a dormire appollaiati sulla nostra spalla con il musino incollato alla nostra guancia. Dovrei aprire una grandissima digressione adesso, per parlare del sonno degli amanti e degli amati, ma è una dimensione sacra e anche segreta. Mi fermo quindi sulla soglia della camera da letto.

 

 

Quando dormi accanto a me

 

Il tuo sonno è la prima

stella che brilla sull’orizzonte,

una guida sicura per

continuare e non avere paura.

Attraversare la notte e scrivere

parole con la mano sinistra,

appartengono al dominio dei

sogni. Non si può eludere questo

brusco richiamo che ci stacca

dalla nostra veglia. Nostra e di

nessun altro, perché ciascuno

sta sveglio a modo suo e

ciascuno si lascia rapire dal

mondo dei sogni, quel mondo

dove spesso ho avuto la percezione

che quella fosse la vita vera e

l’altra solo una pallida imitazione.

Mentre dormi ti guardo

dormire, respiro il profumo

della tua tempia, sento

il sangue che circola lento, non

occorre l’affanno del mattino

per compiere il proprio dovere.

Dormi allora, amore mio, lascia

che l’Angelo scuota le ali e che

le piume siano soffici e che

il canto della notte sia dolce

quando dormi accanto a me.

 

 

Questa è la Cronaca 406 di domenica 18 aprile del secondo anno senza Carnevale, la sera ha lasciato il passo alla notte e io strofino fiori di lavanda tra le dita e sogno sogni mai sognati.


venerdì 17 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/131: il tempo è un pesce azzurro che salta nel mare dell’eternità


A volte capita che un sonno profondo scenda sul giardino e che tutti, ma proprio tutti ci addormentiamo e dimentichiamo che siamo qui per un motivo. All’inizio mi arrabbiavo, mi offendevo a vedere tutti gli abitanti della Casa delle Parole dormire come se fossimo piombati nel castello della Bella addormentata nel bosco, ma poi ho capito.

Il sonno è solo un viaggio che dobbiamo compiere per arrivare in quell’altro regno che abitiamo per almeno un terzo della nostra vita. Quando mi abbandono alle immagini e alle storie che si intrecciano, storie dove ritornano persone che ho amato, amici perduti, i miei genitori e altri parenti, un senso di conforto mi accompagna al ritorno in questo mondo, un’altra sosta veloce per ritornare poi nel mondo della mia scrittura che non è esattamente il mondo della mia immaginazione, ma qualcosa di più e di meno, qualcosa di molto diverso.




Noi che non abbiamo nomi

Ho dormito? Sì, ho sognato in
fondo al mio giardino e questo
sogno era rosa, come l’oleandro,
era rosa perché io ero il nostro
oleandro.
Vi ho visti avvolti nei vostri colori,
Alexandre dormiva all’ombra della
lavanda, François raggiante coi
girasoli, la regina Margot sognava
coi melograni e ultima Héloïse, in
boccio nella sua rosa.
E voi? E voi? Mi chiedete? Noi che
ancora non abbiamo nomi?
Presto, presto avremo i nomi e
i fiori, i colori sono già in noi.
Torneremo a dormire e sarà
domani, un altro domani.


Così mi siedo a gambe incrociate davanti al mio oleandro, che non è l’unico oleandro che sto guardando. C’è n’è uno rosa che fioriva in un giardino che ho perduto e poi, enorme e bianco, quello ai bordi del ruscello davanti alla casa di mia nonna.

E poi le querce, qui nel giardino ne abbiamo due, ancora giovani, crescono, crescono più veloci che nella terra della città silenziosa, ma io vedo la quercia ai bordi del campo di grano.

Siamo tutti ombre io, lei e gli altri bambini. Siamo ombre anche quando ci lanciamo con l’altalena, con corde così lunghe che volavamo sul burrone, oltre i campi conosciuti e le nuvole ci adornavano le mani come guanti di neve fuori stagione.

Quanto amavo quel volo, le promesse della sera, i calabroni intorno al comignolo, e la menta che sprigionava un profumo intenso.



Il buio senza nome

Il rito della sera è sfregare
una foglia di menta tra
le dita e guardare le stelle
staccarsi dalle cime degli
ulivi, sciamare oltre
le querce e occupare
il punto esatto della costellazione
perché occhi umani possano
dirne il nome vero per placare
l’oscurità che viene.
Fuori è la dispersione,
il tronco reciso. Dietro
l’angolo della casa
ancora mi aspetta il brivido
senza filiera, l’aratro sul
fianco della selce e il buio,
il buio senza nome.



Quante sere ho contato da allora, quante notti e quanti mattini. Il tempo era sempre un frutto non ancora maturo, la scrittura un desiderio e una promessa.

Mi capiscono gli altri abitanti della Casa delle Parole, conosco gli anni, loro li conoscono e li sanno a memoria. Scendiamo insieme alla spiaggia dove le tre sorelle ci stanno aspettando e i lupi entrano ed escono dall’acqua come se non ci fosse un altro giorno per poterlo fare.

Questa è la libertà dei regni che abitiamo: il sogno, la memoria, l’immaginazione, la scrittura, e i libri che sono l’ultimo regno e il più vasto perché portano dentro tutti i regni di chi li ha scritti.

E ora? Ma ora?



Ora è estate, guardatevi intorno

Ogni stagione, proprio ogni
stagione, vi assicuro, vive
nell’ombra delle altre tre.
Ora è estate, guardatevi
intorno, ascoltate l’aria, scrutate
il cielo. La prima foglia gialla
dice l’autunno, l’ultimo bocciolo
della rosa insegue la primavera,
la pioggia improvvisa chiama
l’inverno. E così accade, stagione
dopo stagione, che un frammento
di quelle passate addolcisca
la nostalgia e la promessa di
quelle future sia un salto del
tempo, un pesce azzurro nel
mare dell’eternità.




Noi che non abbiamo nomi e Ora è estate, guardatevi intorno sono due mie poesie inedite intorno a cui è nata questa Cronaca 131 di venerdì 17 luglio 2020.
Il buio senza nome, è tratta dalla mia seconda raccolta Sillabario della Luce, Moretti&Vitali editore, ed è dedicata alla mia amica Grazia.

giovedì 3 gennaio 2019

per il mistero della rosa che prodiga colore e non lo vede


Altra poesia dei doni

Ringraziare voglio il divino
labirinto degli effetti e delle cause
per la diversità delle creature
che compongono questo singolare universo,
per la ragione, che non cesserà di sognare
un qualche disegno del labirinto,
per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse,
per l’amore, che ci fa vedere gli altri
come li vede la divinità,
per il saldo diamante e l’acqua sciolta,
per l’algebra, palazzo dai precisi cristalli,
per le mistiche monete di Angelus Silesius,
per Schopenhauer,
che forse decifrò l’universo,
per lo splendore del fuoco
che nessun essere umano può guardare senza uno stupore antico,
per il mogano, il cedro e il sandalo,
per il pane e il sale,
per il mistero della rosa
che prodiga colore e non lo vede,
per certe vigilie e giornate del 1955,
per i duri mandriani che nella pianura
aizzano le bestie e l’alba,
per il mattino a Montevideo,
per l’arte dell’amicizia,
per l’ultima giornata di Socrate,
per le parole che in un crepuscolo furono dette
da una croce all’altra.
per quel sogno dell’Islam che abbracciò
mille notti e una notte,
per quell’altro sogno dell’inferno,
della torre del fuoco che purifica,
e delle sfere gloriose,
per Swedenborg,
che conversava con gli angeli per le strade di Londra,
per i fiumi segreti e immemorabili
che convergono in me,
per la lingua che, secoli fa, parlai nella Northumbria,
per la spada e Tarpa dei sassoni,
per il mare, che è un deserto risplendente
e una cifra di cose che non sappiamo,
per la musica verbale dell’Inghilterra,
per la musica verbale della Germania,
per l’oro, che sfolgora nei versi,
per l’epico inverno,
per il nome di un libro che non ho letto: Gesta Dei per Francos
per Verlaine, innocente come gli uccelli,
per il prisma di cristallo e il peso d’ottone,
per le strisce della tigre,
per le alte torri di San Francisco e dell’isola di Manhattan
per il mattino nel Texas,
per quel sivigliano che stese l’Epistola Morale
e il cui nome, come egli avrebbe preferito, ignoriamo,
per Seneca e Lucano, di Cordova,
che prima dello spagnolo scrissero
tutta la letteratura spagnola,
per il geometrico e bizzarro gioco degli scacchi,
per la tartaruga di Zenone e la mappa di Royce,
per l’odore medicinale degli eucalipti,
per il linguaggio, che può simulare la sapienza,
per l’oblio, che annulla o modifica il passato,
per la consuetudine,
che ci ripete e ci conferma come uno specchio,
per il mattino, che ci procura l’illusione di un principio
per la notte, le sue tenebre e la sua astronomia,
per il coraggio e la felicità degli altri,
per la patria, sentita nei gelsomini
o in una vecchia spada,
per Whitman e Francesco d’Assisi, che scrissero già questa poesia,
per il fatto che questa poesia è inesauribile
e si confonde con la somma delle creature
e non arriverà mai all’ultimo verso
e cambia secondo gli uomini,
per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
per due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la musica, misteriosa forma del tempo.

J.L. Borges

Gracias quiero dar al divino Laberinto de los efectos y de las causas
Por la diversidad de las criaturas que forman este singular universo,
Por la razón, que no cesará de soñar con un plano del laberinto,
Por el rostro de Elena y la perseverancia de Ulises,
Por el amor, que nos deja ver a los otros como los ve la divinidad,
Por el firme diamante y el agua suelta,
Por el álgebra, palacio de precisos cristales,
Por las místicas monedas de Ángel Silesio,
Por Schopenhauer, que acaso descifró el universo,
Por el fulgor del fuego,
Que ningún ser humano puede mirar sin un asombro antiguo,
Por la caoba, el cedro y el sándalo,
Por el pan y la sal,
Por el misterio de la rosa, que prodiga color y que no lo ve,
Por ciertas vísperas y días de 1955,
Por los duros troperos que en la llanura arrean los animales y el alba,
Por la mañana en Montevideo,
Por el arte de la amistad,
Por el último día de Sócrates,
Por las palabras que en un crepúsculo se dijeron de una cruz a otra cruz,
Por aquel sueño del Islam que abarcó mil noches y una noche,
Por aquel otro sueño del infierno,
De la torre del fuego que purifica
Y de las esferas gloriosas,
Por Swedenborg, que conversaba con los ángeles en las calles de Londres,
Por los ríos secretos e inmemoriales que convergen en mí,
Por el idioma que, hace siglos, hablé en Nortumbria,
Por la espada y el arpa de los sajones,
Por el mar, que es un desierto resplandeciente
Y una cifra de cosas que no sabemos
Y un epitafio de los vikings,
Por la música verbal de Inglaterra,
Por la música verbal de Alemania,
Por el oro, que relumbra en los versos,
Por el épico invierno,
Por el nombre de un libro que no he leído: Gesta Dei per Francos,
Por Verlaine, inocente como los pájaros,
Por el prisma de cristal y la pesa de bronce,
Por las rayas del tigre,
Por las altas torres de San Francisco y de la isla de Manhattan,
Por la mañana en Texas,
Por aquel sevillano que redactó la Epístola Moral
Y cuyo nombre, como él hubiera preferido, ignoramos,
Por Séneca y Lucano, de Córdoba
Que antes del español escribieron
Toda la literatura española,
Por el geométrico y bizarro ajedrez
Por la tortuga de Zenón y el mapa de Royce,
Por el olor medicinal de los eucaliptos,
Por el lenguaje, que puede simular la sabiduría,
Por el olvido, que anula o modifica el pasado,
Por la costumbre, que nos repite y nos confirma como un espejo,
Por la mañana, que nos depara la ilusión de un principio,
Por la noche, su tiniebla y su astronomía,
Por el valor y la felicidad de los otros,
Por la patria, sentida in los jazmines, o en una vieja espada,
Por Whitman y Francisco de Asís, que ya escribieron el poema,
Por el hecho de que el poema es inagotable
Y se confunde con la suma de las criaturas
Y no llegará jamás al último verso
Y varía según los hombres,
Por Frances Haslam, que pidió perdón a sus hijos por morir tan despacio,
Por los minutos que preceden al sueño,
Por el sueño y la muerte, esos dos tesoros ocultos,
Por los íntimos dones que no enumero,
Por la música, misteriosa forma del tiempo.

martedì 31 ottobre 2017

Accetta questo silenzio

Ottobre, notte

Accetta questo silenzio: la parola stretta nel buio della gola come una bestia irrigidita, come il cinghiale imbalsamato che nei temporali di ottobre scintillava in cantina. Livido e intrecciato di paglia, il cuore secco, senza fumo, eppure contro il fulmine che inchiodava la porta, ogni volta nel punto esatto in cui era iniziata la morte: l'inutile indietreggiare, il corpo ardente, il calcio del cacciatore sul suo fianco.

Chiudi gli occhi. Pensa: lepre, e volpe e lupo, chiama le bestie che cacciate corrono sulla terra rasa e sono nella fionda del morire o dell'addormentarsi sfinite nella tana dove solo chi è inseguito conosce davvero la notte, davvero il respiro.

Antonella Anedda
Notti di pace occidentale

Donzelli editore 1999

giovedì 16 marzo 2017

Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.

Nell'inganno delle parole
I
È il sonno d’estate quest’anno ancora,
L’oro che chiediamo, dal fondo delle nostre voci,
Alla trasmutazione dei metalli del sogno.
Il grappolo delle montagne, delle cose vicine,
È maturato, è quasi il vino, la terra
È il seno nudo in cui la nostra vita riposa.
E respiri ci circondano, ci accolgono,
Come la notte d’estate, che non ha rive,
Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.
Amica mia, è qui nuovo cielo, nuova terra,
Un fumo incontra un fumo
Al di sopra della disgiunzione dei due bracci del fiume.
E l’usignolo canta una volta ancora
Prima che il nostro sogno ci prenda,
Ha cantato quando s’addormentava Ulisse
Nell’isola in cui faceva tappa la sua erranza,
E anche chi arrivava acconsentì al sogno,
Fu come un brivido della sua memoria
Per l’intero suo braccio d’esistenza sulla terra
Che aveva ripiegato sotto la sua testa stanca.
Penso che respirò d’un fiato eguale
Sul giaciglio del suo piacere poi del riposo,
Ma Venere nel cielo, la prima stella,
Volgeva già la prua, benché esitante,
Verso l’alto mare, sotto nubi,
Poi derivava, barca il cui vogatore
Avesse dimenticato, gli occhi ad altre luci,
D’immergere di nuovo il remo nella notte.
E per la grazia di quel sogno cosa vide?
Che fosse la linea bassa di una riva
Ove sarebbero state chiare delle ombre, chiara la loro notte
A causa di fuochi altri da quelli che ardono
Nelle nebbie delle nostre domande, successive
Durante la nostra avanzata nel sonno?
Siamo navi grevi di noi stessi,
Traboccanti di cose chiuse, guardiamo
Alla prua del nostro periplo tutta un’acqua nera
Aprirsi quasi e ritrarsi, per sempre senza lido.
Lui comunque, nelle pieghe del canto triste
Dell’usignolo dell’isola casuale,
Pensava già a riprendere il suo remo
Una sera, quando sarebbe sbiancata di nuovo la schiuma,
Per dimenticare forse tutte le isole
Su un mare in cui cresce una stella.
Andare così, con lo stesso oriente
Al di là delle immagini ciascuna delle quali
Ci lascia alla febbre del desiderare,
Andare fiduciosi, perderci, riconoscerci
Attraverso la bellezza dei ricordi
E la menzogna dei ricordi, attraverso il tormento
Di alcuni, ma anche la felicità
D’altri, il cui fuoco corre nel passato in cenere,
Nube rossa in piedi al frangente delle spiagge,
O delizia dei frutti che non abbiamo più,
Andare, per l’al di là quasi del linguaggio,
Con soltanto un po’ di luce, è possibile
O non è altro che l’illusorio ancora,
Di cui ridisegniamo sotto altri tratti
Ma iridati dello stesso ingannevole bagliore
La forma nelle ombre che si condensano?
Ovunque in noi soltanto l’umile menzogna
Delle parole che offrono più di quel che è
O dicono cosa altra da quel che è,
Le sere non tanto della bellezza che tarda
A lasciare una terra che ha amato,
Plasmandola con le sue mani di luce,
Quanto della massa d’acqua che di notte in notte
Precipita con gran fragore nel nostro avvenire.
Noi mettiamo i nostri piedi nudi nell'acqua del sogno
È tiepida, non sappiamo se sia un risveglio
O se la folgore lenta e calma del sonno
Già tracci i suoi segni in rami
Che un’inquietudine scuote, poi è troppo scuro
Perché vi si riconoscano figure
Che questi alberi scostano, davanti ai nostri passi.
Noi avanziamo, l’acqua sale alle nostre caviglie,
O sogno della notte, prendi quello del giorno
Nelle tue mani amorose, volgi verso te
La sua fronte, i suoi occhi, ottieni con dolcezza
Che il suo sguardo si fonda al tuo, più saggio,
Per un sapere che non laceri più
La disputa tra il mondo e la speranza,
E che unità prenda e conservi la vita
Nella quiete della schiuma, dove si riflette,
Sia bellezza, nuovamente, sia verità, le stesse
Stelle che s’accrescono nel sonno.
Bellezza, sufficiente bellezza, bellezza estrema
Delle stelle senza significato, senza movimento.
A poppa sta il nocchiero, più grande del mondo,
Più nero, ma di un’opacità fosforescente.
Il lieve sciacquio dell’acqua appena agitata,
Si fa presto silenzio. E non sappiamo ancora
Se è un nuovo lido, o lo stesso mondo
Che nelle pieghe febbrili del letto terrestre,
Questa sabbia che sentiamo stridere sotto la prua.
Non sappiamo se approdiamo a un’altra terra,
Non sappiamo se mani non si tendano
Dal grembo dell’ignoto accogliente per afferrare
La corda che lanciamo, dalla nostra notte.
E domani, al risveglio,
Forse le nostre vite saranno più fiduciose
In cui voci e ombre indugeranno,
Ma distolte, calme, disattente,
Senza guerra, senza rimprovero, mentre
Il bambino accanto a noi, sul sentiero,
Scuoterà ridendo la sua testa immensa,
Guardandoci con la goffaggine
Della mente che riprende alla sua origine
Il suo compito di luce nell’enigma.
Sa ancora ridere,
Ha afferrato nel cielo un grappolo troppo greve,
Lo vediamo portarlo via nella notte.
Il vendemmiatore, colui che forse coglie
Altri grappoli lassù nell’avvenire,
Lo guarda passare, benché senza volto.
Affidiamolo alla benevolenza della sera d’estate,
Addormentiamoci…
… La voce che ascolto si perde,
Il rumore di fondo che è nella notte la copre.
Le assi della prua, incurvate
Per dar forma alla mente sotto il peso
Dell’ignoto, dell’impensabile, si allentano.
Che mi dicono questi scricchiolii, che spezzano
I pensieri attestati dalla speranza?
Ma il sonno si fa indifferenza.
Le sue luci, le sue ombre: più nient’altro che
Un’onda che s’infrange sul desiderio.
II
E potrei
Fra poco, al sussulto del brusco risveglio,
Dire o tentare di dire il tumulto
Degli artigli e delle risa che si scontrano
Con l’avidità senza gioia delle vite primarie
Al bordo sconnesso della parola.
Potrei gridare che ovunque sulla terra
Ingiustizia e sciagura devastano il senso
Che la mente ha sognato di dare al mondo,
Insomma, ricordarmi di ciò che è,
Non essere che la lucidità che dispera
E, benché sia ritorta
Ai rami del giardino di Armida la chimera
Che inganna la ragione quanto il sogno,
Abbandonare le parole a chi cancella,
Prosa, per evidenza della materia,
L’offerta della bellezza nella verità,
Ma mi sembra anche che non sia reale
Che la voce che spera, fosse essa
Inconsapevole delle leggi che la negano.
Reale, solo, il fremito della mano che tocca
La promessa di un’altra, reali, sole,
Queste barriere che spingiamo nella penombra,
Quando si fa sera, di un sentiero di ritorno.
So tutto quello che occorre cancellare dal libro,
Una parola comunque resta a bruciarmi le labbra.
O poesia,
Non posso impedirmi di chiamarti
Con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
Oggi tra le rovine della parola.
Oso rivolgermi a te, direttamente,
Come nell’eloquenza delle epoche
In cui si ponevano, alla vigilia dei giorni di festa,
In cima alle colonne dei saloni,
Ghirlande di foglie e di frutti.
Lo faccio, confidando che la memoria,
Insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
Di far essere il senso malgrado l’enigma,
Farà decifrare loro, sulle sue grandi pagine,
Il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
In silenzio, un fuoco chiaro,
I sarmenti dei loro dubbi e delle loro paure.
«Guardate, lei dirà, nel solo libro
Che si scriva attraverso i secoli, vedete crescere
I segni nelle immagini. E le montagne
Inazzurrarsi in lontananza, per essere a voi terra.
Ascoltate la musica che delucida
Con il flauto sapiente alla vetta delle cose
Il suono del colore in ciò che è.»
O poesia,
Io so che ti disprezzano e ti negano,
Che ti considerano un teatro, perfino una menzogna,
Che ti gravano delle colpe del linguaggio,
Che dicono infetta l’acqua che tu porti
A quelli che tuttavia desiderano bere
E delusi si allontanano, verso la morte.
Ed è vero che la notte gonfia le parole,
Venti girano le loro pagine, fuochi sfiancano
Le loro bestie atterrite fin sotto ai nostri passi.
Abbiamo creduto che ci avrebbe condotto lontano
Il sentiero che si perde nell'evidenza,
No, le immagini cozzano contro l’acqua che sale,
La loro sintassi è incoerenza, cenere,
E presto nemmeno vi sono più immagini,
Più libro, più grande corpo caloroso del mondo
Che stringa le braccia del nostro desiderio.
Ma so comunque che non esiste altra stella
Che si muova, misteriosamente, auguralmente,
Nel cielo illusorio degli astri fissi,
Se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre
Si raggruppano a prua, e perfino cantano
Come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva
Davanti a loro, alla fine del lungo viaggio,
La terra nella schiuma, e brillava il faro.
E se rimane
Altro che un vento, uno scoglio, un mare,
Io so che tu sarai, anche di notte,
L'ancora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia,
E la legna raccolta, e la scintilla
Sotto i rami umidi, e, nell'inquieta
Attesa della fiamma che esita,
La prima parola dopo il lungo silenzio,
Il primo fuoco che prenda in fondo al mondo morto.


Yves Bonnefoy
Le assi curve
in L’opera poetica
traduzione di Fabio Scotto
I Meridiani 
Mondadori 2010

lunedì 27 febbraio 2017

tempo d’acqua che torna

Terre rosse

Il tuono spazia un rumore
di cavalli lanciati sui monti;
sui muri degli orti
tempo d’acqua che torna,
randagio.
Il sonno intorba i pagliai,
il silenzio cresce nel petto.

Dopo lo scroscio la terra è rossa,
nei dorsi di rupe
il sasso si stria.
E il fango è un tramonto

che tutto l’anno ci dura negli occhi.


Vittorio Sereni
Frontiera
Mondadori 1941

sabato 25 febbraio 2017

la città è quell’arco di fuoco

Le mani

Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell’arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento

quando le riprenderai.


Vittorio Sereni
Frontiera
Mondadori 1941

mercoledì 18 gennaio 2017

La notte si appressa come un monte di pietre

   C'è una notte che si avvicina in un paradosso: come un monte (immobile) di pietre (ancora più immobili). La notte si "appressa come un monte di pietre", scrive Marina Cvetaeva nell'Accampamento dei cigni. Si appressa con il monte, con le pietre, nonostante il monte, nonostante le pietre e in fretta, come si murava la finestra dell'appestato diventa notte totale, pietra che né il sonno, né la veglia scalfiscono, ma che rimane, appressandosi a ogni crepuscolo, finché chiamiamo vita questo restare.
   Ora dimmi tu la notte. Vorrei chiederlo anch'io e attraversare ormai la notte che resta fissando il buio dell'ispirazione, l'ombra dei libri accatastati che mi raggiunge, mi minaccia e mi protegge.

Antonella Anedda
La luce delle cose
Feltrinelli 2000

mercoledì 4 gennaio 2017

la neve che parla sempre a bassa voce e la chiarità azzurra del tuo volto nascosto

Adesso su tutto questo
vorrei che scendesse la neve, lentamente,
posandosi sopra le cose lungo il giorno
- la neve che parla sempre a bassa voce -
e che facesse in modo che il sonno dei grani
fosse, così protetto, più paziente.

E noi sapremmo che il sole ancora,
intanto, passa oltre, che se la neve
si stanca, ritornerà visibile un momento
come candela dietro il suo schermo ingiallito.

Allora, io mi ricorderei di questo viso
che rimane, anche lui, dietro la lenta
caduta dei cristalli umidi, e cambia,
con i suoi occhi chiari oppure in lacrime,
impazientemente fedeli...
                         E, dalla neve nascosto,
di nuovo oserò lodarne la chiarità azzurra.

Philippe Jaccottet
Alla luce d'inverno
Pensieri sotto le nuvole
traduzione di Fabio Pusterla
Marcos y Marcos 1997

Sur tout cela maintenant je voudrais
que descende la neige, lentement,
qu’elle se pose sur les choses tout au long du jour
      – elle qui parle toujours à voix basse –
et qu’elle fasse le sommeil des graines,
d’être ainsi protégé, plus patient.

Et nous saurions que le soleil encore,
cependant, passe au-delà,
que, si elle se lasse, il redeviendra même un moment
visible, comme la bougie derrière son écran jauni.

Alors, je me ressouviendrais de ce visage
qui demeure, lui aussi, derrière
la lente chute des cristaux humides,
qui change, avec ses yeux limpides ou en larmes,
impatiemment fidèles...
                          Et, caché par la neige,
de nouveau, j’oserais louer leur clarté bleue.


Fidèles yeux de plus en plus faibles jusqu’à
ce que les miens se ferment, et après eux, l’espace
comme un éventail peint dont il ne resterait plus
qu’un frêle manche d’os, une trace glacée
pour les seuls yeux sans paupières d’autres astres.

Philippe Jaccottet
À la lumière d’hiver 
précédé de Leçons et de Chants d’en bas 
Gallimard 1977