lunedì 13 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/127: dell’arte perduta di scrivere cartoline


Uno scorcio di mondo, un’inquadratura di un anonimo fotografo, uno scatto e un retro in bianco, dove poter scrivere l’indirizzo del destinatario e un pensiero o anche solo un saluto.

“Cara sono arrivato a Vienna ieri mattina che era domenica. Ho passeggiato a lungo in centro e una musica per pianoforte mi ha fatto varcare un portone. Tre cortili si aprivano uno dietro l’altro, nel primo le rose rampicanti sui lampioni erano rosse, nel secondo gialle, nel terzo bianche. Non sono riuscito a capire da dove venisse la musica di Chopin, ma il mio cuore si è placato anche se tu mi manchi più che mai. Tuo François”.

Tra le cose bizzarre che accadono qui sull'Altipiano della Luna, stanno arrivando per posta, sì avete letto bene, per posta, cartoline che avevamo scritto e dimenticato in un libro, cartoline con un destinatario sconosciuto, cartoline che avremmo voluto scrivere in un’epoca in cui scriverle era un atto di mondana cortesia, di affetto e di rispetto. Certo non mancava mai anche la volontà di far sapere quanto fossimo felici di essere in un’altrove che non corrispondeva al luogo abituale della nostra residenza.

Quando ero bambina mi toccava, per ferrea volontà paterna, l’incombenza di scrivere le cartoline destinate ai parenti, agli amici e ai vicini di casa. Era il momento che più detestavo delle vacanze al mare. Chiunque fosse la famiglia destinataria, nessuno tra le persone che facevano parte della nostra cerchia esisteva al di fuori di una famiglia, e il destinatario doveva immancabilmente essere “Illustrissima Famiglia” anche per le famiglie che di illustre non avevano proprio nulla.

Le mie rimostranze non sortivano alcun effetto su mio padre, il mio scrittoio poteva essere il tavolo del bar al mare, il tavolo da pranzo a casa della nonna o della cugina Vittoria, ma le illustrissime famiglie mi perseguitavano. Avevo poi una piccola dotazione di cartoline per me che inviavo alle mie amiche del cuore che erano, o erano state, compagne di scuola: Chicca, Cristina, Antonia e Bianca. Anche loro diventavano illustrissime e signorine anche se nelle ultime estati in cui scrivevo, potevamo avere al massimo sedici o diciassette anni.

Così François, il sapiente guerriero, è stato il primo a ricevere quella cartolina che aveva in effetti spedito a un amore di gioventù, una ragazza normanna di nome Colette, che aveva poi sposato anche se solo per pochi anni.


La seconda cartolina era della sacerdotessa che, dopo averla letta, si chiuse nei ricordi e non volle raccontarci nulla del destinatario.

“Amore caro e lontano, non sai quanto sia bella la nostra valle questa mattina. Ho trovato questa cartolina nell'unico negozio del paese che vende un po’ di tutto e credo proprio che lo scatto sia stato fatto dal nostro terrazzo. La casa è magnifica e non vedo l’ora che tu arrivi in Italia per poterla vedere. Se piacerà anche a te quanto piace a me, allora la compreremo e avremo qui, insieme, il primo luogo del nostro amore”.

Il pensiero non era firmato, se non con uno scarabocchio dalle ali leggere, e scoprimmo così che la sacerdotessa aveva avuto l’intenzione di vivere con qualcuno, qualcuno che non era il sapiente guerriero, ma chi era stato, allora?

Mentre la stavo tormentando di domande, un altro messaggero a cavallo era arrivato sino al cancello del nostro giardino. Non ci eravamo ancora spostati dalla Casa delle Parole perché il tempo, di nuovo, minacciava tempesta e non avevamo voglia di correre via dalla spiaggia o dal bosco con tutto il nostro carico di vivande e bibite, libri e taccuini. François aveva portato con sé una valigia di legno scuro che, una volta aperta, diventava un piccolo scrittoio al quale ci si sedeva con una seggiola di cuoio e gambe sottili come quelle dello scrittoio. La semplicità delle forme, l’apparente esilità dell’oggetto, lo rendevano elegante e il materiale in cui era stato intagliato, era un legno robustissimo di un albero mai sentito nominare prima che cresceva solo in alcune oasi dei deserti dell’Africa Settentrionale. Per poter lavorare il legno “dell’albero più alto che cresce a testa in giù nella sabbia”, questo era più o meno il nome tradotto dalla lingua di uno di quei deserti, bisognava usare una pietra che nasceva dalla calcificazione della sabbia dove, anno dopo anno, i nomadi accendevano i loro fuochi.

- Ci sono voluti anni e anni perché io riuscissi a intagliare nel legno le quattro gambe dello scrittoio, le tre gambe della seggiola, i sostegni che servivano a irrobustire la tenuta di ciascun oggetto. Lo scrittoio ha anche una ribaltina dove si possono conservare carta e penne, la seduta della seggiola è di una pelle antica che era una sella per uno di quei destrieri bianchi che a volte si incrociano con le carovane nelle piste più battute. Quando “il figlio del vento e del deserto”, il cavallo del mio amico Morteza si spezzò una zampa, la prima cosa che il padrone del cavallo fece, fu di distruggere la sella con il suo pugnale e poi di cantare una nenia in un’altra lingua che non avevo mai sentito e che era uno dei mille dialetti del deserto che tanto mi affascinava. Con un colpo micidiale e preciso, il cuore del cavallo venne fermato per sempre. Così io presi la parte più grande della sella e la aggiunsi al mio bagaglio. Una volta arrivato nell'oasi che ricordavo avesse un grande numero di quegli alberi che mi occorrevano, e delle pietre affilate necessarie a intagliarlo, chiesi ospitalità alla tribù che vi abitava e mi fermai a lavorare allo scrittoio. Lavorare il legno e imparare una lingua hanno bisogno della stessa dedizione e di un tempo infinito come infinite sono le sillabe e infinite le venature. Prendi una parola, scomponila in sillabe, scomponila nelle lettere, nei segni, impara la direzione della scrittura, percorri all’indietro l’etimologia di quella parola, poi, dopo averla scomposta nei segni elementari, lascia che gli stessi si immergano e svaniscano nell’alfabeto cui appartengono, cerca di nuovo la tua parola, tutte le altre parole, tutti i suoni, tutta la storia l’avranno rinnovata e la parola scivolerà nella tua bocca come il miele più dolce. Fai lo stesso con il tuo legno, ricorda com’era l’albero che hai tagliato, ricorda di ringraziarlo per aver ceduto al tuo desiderio, ringrazia la terra che lo ha nutrito e la pioggia che lo ha dissetato, ringrazia le nuvole che hanno giocato con i suoi rami, ringrazia il complesso sistema dei funghi che hanno vissuto sulle sue radici, ringrazia le stelle che si sono fatte solleticare dalle foglie più in alto. Ogni venatura del legno è una parola diversa, quanto tempo ci vuole per imparare una lingua? Quanto tempo ci vuole per addomesticare il legno? Il lavoro è infinito, per questo continuo a lucidare il legno e ogni giorno mi immergo nello studio della lingua che mi ha scelto quando ero solo un ragazzo che non conosceva nulla del mondo.


Il messaggero era rimasto con noi ad ascoltare il racconto di François, il sapiente guerriero, solo quando risalì in sella al cavallo, mi accorsi che uno dei fregi sulla sua sella, un intreccio che pareva una parola, era uguale a quello della seggiola. Non feci in tempo a fermarlo e rimasi con la mia cartolina in mano.

L’immagine era l’ansa di un fiume che attraversa una grande città dell’Italia Settentrionale, il destinatario era R. un amico poeta che si era perso nel tempo.


Variazioni su nuvole, luce e ombra

Un presagio per il giorno che
verrà è un’invenzione di nuvole
in quel cielo che mai vedremo,
in un luogo privo di memoria,
ai nostri sguardi solo quel cielo
è rimasto della città antica,
il cielo che le mani capricciose
del tempo e della ragione
appendono sulla mia giornata.
Guardo ancora e le nuvole
di Corot si dissolvono con
l’eleganza di un segreto custodito
nel cuore della luce che veloce
si alza a Oriente. È un mattino
nuovo, memoria della notte, fiato
lungo nei passi, sempre più
piano avvolti nella brina,
inondati di luce sino alla fine
della stessa strada.



Tutti quanti, ormai eravamo in trepidante attesa, per chi sarebbe stata la prossima cartolina? Sarebbero arrivate anche cartoline di cui eravamo destinatari o solo cartoline scritte di nostro pugno?

Puntuale come l’alba, la tempesta ci costrinse a rifugiarci in casa, mentre sciamavamo tra la cucina e la sala da pranzo per preparare il nostro pasto, chiesi al misterioso architetto il significato del fregio identico che avevo intravisto inciso nel cuoio.

- I tuoi occhi sono le porte cielo, mi rispose. È un verso, un verso di una poesia che il nostro poeta ha scritto tanto tempo fa. Chiedigli se vuole leggertela, ma non ora, magari stasera o domani.

Sì, ha ragione, inutile introdurre altri elementi di nostalgia o rimpianto. 

Il sole si fa strada tra le nuvole e il vento alza il sipario sulla vallata. Il mondo risplende di luce, il profumo del cibo inonda l’aria della stanza, spalanchiamo le finestre e arrivano i profumi di resina dal bosco e il profumo di sale dal mare, i profumi di miele e corbezzolo. Qui è una festa continua, ci sediamo a tavola, ci siamo proprio tutti. I lupi aspettano la loro parte accucciati davanti al camino, le tigri vengono a salutarci e poi vanno a caccia, le aquile sorvolano il giardino e poi tornano verso la sommità delle Montagne della Nebbia. Sul sentiero vediamo trotterellare il puledro, che è molto cresciuto, e la volpe di fuoco che ha mutato pelliccia. 

Lascio la finestra aperta e mi giro a guardare la piccola folla seduta alla mia tavola, la mia vita è seduta a questa tavola, possiamo festeggiare lo stupore di ogni piccola cosa.



Variazioni su nuvole, luce e ombra è tratta dalla mia raccolta Figure del silenzio, Atì editore 2010

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