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venerdì 28 febbraio 2014

La mia ispirazione si è nutrita anche di persone che non ho mai conosciuto

Una fotografia, un racconto. Per le otto storie che compongono Le volpi vengono di notte, lo spunto da cui parte lo scrittore olandese Cees Nooteboom è sempre un' immagine fotografica, maneggiata come fosse una madeleine. Non importa che le persone ritratte siano vicine all'autore o sconosciute: osservare l'istantanea e cercare di coglierne il significato vuol dire evocare la loro vita, decodificarne i segreti. Quello di chi guarda e racconta è però un atto secondario, una riflessione ad alta voce, e queste narrazioni somigliano molto a lettere d'addio. I personaggi sono per lo più fuoriusciti dal nord verso il sud Europa, e Nooteboom ne delinea i contorni a partire da simboli e gesti quotidiani, immergendosi nel recinto del loro passato e nel disastro delle loro vite, accompagnandoli pian piano verso la morte e talvolta oltre, perché, dice, 
«la narrativa è un mezzo potente, può riportare in vita anche i morti». 

Il punto di partenza è sempre la visualizzazione di una vecchia foto. Come mai? 
«La fotografia, specialmente quando il soggetto è un essere umano, esprime situazioni essenziali. Se si conoscono, le persone ritratte possono servire come una specie di promemoria. Se sono degli estranei, possono diventare l'innesco della finzione narrativa. La mia ispirazione si è nutrita anche di persone che non ho mai conosciuto».


frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Cees Nooteboom
Repubblica 27 marzo 2010 

giovedì 27 febbraio 2014

Scrivere è una cadenza perpetua sul bordo di un precipizio

Parigi 1928 s'apre con il suo arrivo al porto di Le Havre, un approdo a lungo agognato, in cui le immagini di sogno della città, portate dentro di sé e veicolate dalle suggestioni letterarie, corrispondono pienamente alla realtà che si traduce dinanzi ai suoi occhi. Nelle settimane seguenti è June, celata nel romanzo sotto il nome di Mona e vera nemesi del suo lavoro di scrittore, che gli fa da guida nelle dimore e nei caffè degli artisti, frequentati tempo addietro quando era fuggita con l' amica e amante Jean Kronski. Moglie e marito attraversano la città a piedi, passano da una terrasse all'altra, da una conversazione all'altra, nel tentativo di intercettare gli immortali, scrittori pittori fotografi che il protagonista sciorina come un catalogo di navi, ma incontrano solo comprimari o americani espatriati il cui compito principale è di spronarlo a trovare la strada della scrittura: 
«Il mio problema è scrivere, non su cosa scrivere», confida a Carl, cioè Alfred Perlès, che lo aiutò nel secondo, più duro ma prolifico passaggio parigino, quello di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno, iniziato nel febbraio del '30. La forma, dunque, e non il contenuto,a lui mancava, e Miller, ansioso di accreditarsi ai posteri in quel 1961 in cui per la prima volta i suoi romanzi vennero pubblicati in America, sosteneva di averla trovata ascoltando suonare uno zingaro a Budapest: 
«L'importante è suonare, che tu lo sappia fare o meno (...). 
La lingua, il linguaggio, è soltanto un'asse per lavare i panni. 
Scrivere è tutt'altra cosa. 
È come una cadenza perpetua sul bordo di un precipizio».

frammento della recensione di Sebastiano Triulzi al libro 
Parigi 1928 di Henri Miller
Repubblica 20 giugno 2010

martedì 25 febbraio 2014

La mia mente funziona per metafore

C' è un suo bellissimo racconto, inserito nella raccolta La cosa nella foresta, in cui una donna si tramuta lentamente in pietra, esempio inusuale se guardiamo alla sua narrativa in cui il fantastico sopravanza il reale: 

«In Una donna di pietra l' aspetto reale mi sembra ancora più importante che in tutti i racconti o romanzi che abbia mai scritto. Perché era una storia sul dolore, su una donna che si trasforma in bellissime pietre. Solo attraverso la fantasia, in maniera indiretta, potevo affrontare questo argomento così personale». 
L'attenzione al multiforme femminile non è comunque preminente nelle sue opere anche se, precisa, «la parola metamorfosi nella sua radice è imparentata con la parola metafora. E la mia mente funziona per metafore». 
Preponderante è invece l' uso enciclopedico delle discipline letterarie e scientifiche, inclusa l' attenzione per la vita delle formiche o lo studio delle chiocciole: afferma che la forma di tutti i suoi romanzi, anche della più realistica quadrilogia fondata sull'alter ego Federica Potter, nasce da una metafora dominante: le lumache ne La torre di Babele, i burattini ne Il libro dei bambini
(...) 
I romanzi, scrive in uno dei saggi presenti in On Histories and Stories, nascono dalle mancanze, dalle carenze della storia: «Perché lo scrittore osserva cose diverse dallo storico. 
(...)
Quando era più giovane non possedeva il senso della forma, dice, «dovevo riscrivere i libri venti o trenta volte, poi ho capito che devo trovarlo prima di iniziare perché è l' unico modo per controllare la scrittura. Comincio a lavorare alla struttura di un romanzo molto prima di pensare a personaggi, dettagli, eventi o relazioni fra le cose. In questo modo posso rendermi conto in una maniera quasi matematica se c' è qualcosa che non funziona». 
(...)
Credo di amare la pittura perché è silenziosa e perché dà l' idea che non ci sia il tempo» spiega. «I pittori guardano al mondo in una maniera completamente diversa, per me i quadri sono immagini provenienti da un altrove che non ci appartiene.
(...)
Al tentativo di rintracciare una verità ontologica è unita anche l'idea di fondo della sua narrativa: raccontare come funziona la mente umana, nell'ipotesi suggestiva di tracciarne una grammatica: 
«È vero. Siamo proprio all'inizio del metodo con il quale possiamo guardare con la neuroscienza alla grammatica della mente. Quando ero una bambina pensavo che c' era qualcosa dentro la testa, qui dietro, che ti guardava. Oggi, più correttamente, l' immagine con la quale si comincia a guardare alla grammatica della mente è un albero, con diverse radici e ramificazioni, e una struttura matematica molto precisa».

frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Antonia S. Byatt
Repubblica 18 settembre 2011

venerdì 31 gennaio 2014

Ogni libro è scritto per una voce e chiede una devozione assoluta

La voce di António Lobo Antunes è arrochita, profonda, quasi baritonale. L'autore portoghese, uno dei riconosciuti maestri della letteratura europea contemporanea (...) spiega che lo scrittore è una sorta di tramite: "Il libro sceglie il proprio cammino, io mi considero solo un intermediario tra due istanze: la prima che non so qual è, e la seconda che è il lettore ". Con forza rigetta l'idea stessa di vocazione  -  "È la mano che scrive con la testa che viaggia lontano"  -  e nega qualsiasi collegamento tra la sua letteratura e le esperienze lavorative come psichiatra: "Gli ospedali non mi diedero né mi portarono altro che non fosse orrore, sofferenza e dolore".

(…)

Quando ha capito che avrebbe voluto scrivere?
"All'età di sei o sette anni. Mio padre era un neurologo, professore all'università, ed io il primogenito di una famiglia che proveniva dal Brasile. Divenni psichiatra perché non volevo essere un medico. L'unico mestiere che ho mai desiderato fare nella vita è però lo scrittore. Ho sempre saputo che non sarebbe stato facile, e infatti sono trascorsi molti anni prima che trovassi la mia voce. Ho pubblicato il mio primo libro (Memória de elefante, n.d.r) a trentasei anni, e quasi fino ad allora la mia reazione era sempre la stessa: così non va. Riscrivevo in continuazione".

Come sono scandite le sue giornate?
"Dedico alla scrittura mediamente dieci ore al giorno e per ogni libro impiego uno o due anni. Il processo più complesso è però la correzione, quanto cambi di ciò che hai scritto; perché un testo non è mai finito, c'è sempre un avverbio, un pronome, un articolo che non convincono. Così quando finalmente chiudo un libro provo un sentimento ambivalente: da un lato sento una specie di sollievo, dall'altro so che ho iniziato a perderlo".

Soltanto la dedizione ad una passione esclusiva conferisce potenza, sostiene Stefan Zweig nella biografia su Balzac. Per resistere ore alla scrivania, Balzac si teneva sveglio bevendo moltissimo caffè; e lei?
"Fumo sigarette. Ciò che dice Zweig è esatto: serve una devozione assoluta se vuoi fare questo mestiere. Forse il talento non esiste, ci sono solo persone che provano e provano e provano ancora. Un giorno, ad uno che gli chiedeva come avesse potuto realizzare un certo magnifico passaggio, Bach rispose che se avesse lavorato quanto aveva fatto lui avrebbe ottenuto lo stesso risultato".

(…)

Io mi ricordo  -  scrive Hegel  -  vuol dire "io penetro nel mio interno, ricordo me". Che relazione sussiste tra memoria e immaginazione?
"L'immaginazione è l'unica possibilità che hai per affrontare la memoria concreta. Non facciamo altro che riadattare, riorganizzare e risistemare tutto il materiale memoriale in un ordine differente. L'immaginazione deriva da come lavoriamo questo materiale; prende forma dalla memoria. In uno studio su persone che hanno avuto un ictus, si dimostra che chi è stato privato della memoria è stato privato anche dell'immaginazione".

Ci sono immagini che più di altre hanno formato il suo animo?
"Non sono perseguitato da immagini ma da ossessioni. Sono loro che plasmano il mio animo. Ogni regista, o scrittore, o artista o pittore, è spinto dalle proprie ossessioni. Io poi non penso in forma logica, le cose mi appaiono già così nella testa, mi limito a seguirle; ed è male".

(…)

L'infelicità dei suoi personaggi sembra derivare dall'interpretazione di alcuni istanti del loro passato, e dall'esserne prigionieri.
"Non vedo i miei personaggi come felici o infelici, nemmeno li vedo i miei personaggi. Vedo una voce che viene, che va, che torna, che attacca, che scrive il libro. Ogni libro è scritto per una voce".

Una voce?
"Prende corpo dentro di me, e non so perché né da dove provenga. Alle volte, quando inizio a scrivere la mattina, devo aspettare tre o quattro ore prima che questa voce cominci a parlare. Non posso spiegare meglio, perché non scrivi ciò che vuoi ma ciò che devi, ciò che ti viene ordinato di scrivere. Sembrerà un pochino folle, ma questo è quello che faccio ed è quello che sono. Non ho mai capito in cosa consista davvero il sistema creativo. Quando ero uno studente di medicina ho letto moltissimi libri sui processi creativi e non ho mai trovato una spiegazione soddisfacente. Probabilmente rimarrà per me sempre un mistero".


frammenti della bellissima intervista di Sebastiano Triulzi a Antonio Lobo Antunes su Repubblica di sabato 25 gennaio 2014



mercoledì 8 gennaio 2014

All'origine della scrittura c'è sempre una domanda

Henning Mankell prende il cartone del latte, una tazzina da caffè e un bicchiere d'acqua che mi ha appena offerto. Li sistema sul tavolo della cucina disegnando i punti di una retta e usa questa strana composizione per spiegare come pianifica le sue storie: «All'origine c' è sempre una domanda, e la volontà di approfondire un determinato argomento. Mi documento finché non so tutto, poi penso a un inizio e alla fine. Solo successivamente subentra la scrittura». 
Tra pochi giorni esce Il cinese, romanzo, afferma Mankell, «che ho scritto perché lo leggano i dirigenti politici» e «perché la memoria è come un vetro, è così fragile che si può rompere in mille pezzi». 
Attorno a un ordito poliziesco, materiali autobiografici si mescolano ad alcuni temi ricorrenti - la globalizzazione, il rapporto fra vecchio e nuovo, il ponte che unisce Africa ed Europa: «Le fondamenta del romanzo poliziesco - precisa - si trovano nella tragedia greca. Prendiamo Medea, che uccide i propri figli perché gelosa del marito. Se non è questa una storia criminale allora quale lo è?». 
I prologhi dei suoi gialli sociali sono sempre sincopati, così come le atmosfere sempre silenziosamente drammatiche, un po' in bianco e nero...

frammento dell'intervista di Sebastiano TriulziHenning Mankell
Repubblica 13 giugno 2009

martedì 7 gennaio 2014

Scrivere è creare un'estetica della distrazione

Estetica della distrazione è il termine usato dallo svedese Lars Gustafsson per definire la propria tecnica di scrittura, in cui riflessione, memoria e speculazione filosofica si fecondano reciprocamente. Le voci narranti dei suoi romanzi raccontano, o si confessano, divagando, e nel passaggio dal tema centrale ad altri periferici ma misteriosamente significativi, il loro pensiero si intensifica rendendo concreta la natura dell' esperienza.

Sebastiano Triulzi su Le bianche braccia della signora Sorgedahl 
Repubblica 29 aprile 2012 

domenica 29 dicembre 2013

Forse il mondo esiste per essere perduto

Quando la sera scende sul volto di Julian Barnes e il buio s' impadronisce dello studio, verrebbe voglia di non lasciarlo solo. Ha deciso di non accendere la luce e i contorni delle cose si perdono nella sua casa così tipicamente inglese con la facciata dai mattoni rossi. Il buio si prende il giardino interno e la scala centrale, di legno, che porta al secondo piano. Continuerà a parlare nella penombra dell' arma che usa contro la solitudine: il lucido esercizio della ragione, che però non mitiga il senso di angoscia e di disperazione. Einaudi ha appena pubblicato il suo memoir, Livelli di vita, in cui analizza il processo dell' elaborazione del lutto dopo la morte della moglie Pat Kavanagh, avvenuta nel 2008. Racconta della complicità che sorge con altri dolenti, di aver continuato a parlare con lei tenendo in vita il loro linguaggio comune, dell' idea del suicidio che s' è affacciata «prestissimo, e molto razionalmente». Confessa di piangerla senza vergognarsi e di averla sognata per anni pur fallendo quando voleva evocarla volontariamente. L' ha amata così tanto da sostenere che è la vita ad aver perso con la sua morte, e cercando un disegno ripete: «È solo l' universo che fa il suo mestiere». Anche nel suo penultimo libro, Il senso di una fine, vincitore del Man Booker Prize nel 2011, Barnes ricostruiva l' insignificanza della vita umana attraverso i personaggi che continuamente si interrogano senza trovare una spiegazione. E falliscono miseramente perché non riescono a darsi un' educazione sentimentale, come la definiva il suo amato Flaubert. Prima di affrontare il lutto, Barnes compie in Livelli di vita un lungo giro che comprende brandelli della storia del volo o della fotografia, emblemi del prodigio e della verità che formano la chimica dell' amore:
« Sentivo la necessità di inserire il lutto in una sorta di impalcatura, altrimenti - spiega - sarebbe solo un grido di dolore». 
Ha scritto questo libro come se stesse mettendo in pratica una forma di terapia?
«Nei primi tempi, dopo che venne diagnosticato il tumore a mia moglie, tenevo un diario; scrivevo ogni giorno, annotando tutto ciò che succedeva perché temevo di dimenticare. È stato, questo sì, molto terapeutico. Sentivo che dovevo descrivere la sua malattia il più accuratamente possibile: era il mio compito come essere umano oltre che come scrittore. Quando iniziai Livelli di vita erano passati tre o quattro anni, lo scopo era un altro. E non ha cambiato il livello del mio dolore». Che cos' è il dolore? «L' immagine negativa dell' amore. Il dolore ha bisogno della condivisione, mette alla prova le amicizie, rende egoisti, indebolisce più che rafforzare. A volte a lui ci affezioniamo. E. M. Forster dice che "una morte può anche trovare una spiegazione, ma non getterà mai luce su un' altra"; succede anche al dolore, che non spiega un altro dolore». 
(...)
Lei usa un termine preciso: Sehnsucht. Che cosa significa? 
«È una parola del pensiero romantico tedesco che non ha equivalenti in inglesee che descrive il tipo di solitudine che ho conosciuto dopo essere stato privato della persona che amavo. Significa "struggimento", avere un inconsolabile desiderio per qualcosa o qualcuno che non si può raggiungere». 
Come il mito di Orfeoe della sua Euridice? 
«È un esempio del rapporto che abbiamo con l' abisso. Orfeo scende nell' oltretomba per riprendersi la moglie morta. Oggi le nostre possibilità di andare in profondità sono minori di una volta: per riportare alla luce possiamo solo scendere dentro i nostri sogni. O nella memoria. Quella metafora ci ha abbandonati. Si può perdere tutto per uno sguardo come fa Orfeo? Forse il mondo esiste per questo, per essere perduto».

frammenti dell'intervista (Repubblica 4 ottobre 2013)

di Sebastiano Triulzi
Julian Barnes in occasione della pubblicazione del nuovo libro
Livelli di vita
traduzione di Susanna Basso
Einaudi 2013

giovedì 26 dicembre 2013

Poesia con natura morta e quadro di interni olandese

Le poesie di Seamus Heaney posseggono una straordinaria intimità con la terra e il mondo rurale irlandese. La stessa lingua inglese che lui usa è plasmata e pensata dal paesaggio, in una connessione tra il sé, la storia insanguinata dell' Ulster e la cultura classica che gli fa da guida. 
«Ho bisogno di qualcosa che susciti o risvegli un ricordo per l'ispirazione - confessa Heaney, ospite a Roma dell' American Academy - ma la mia scorta di immagini dell' infanzia si discosta molto dalla mia vita da adulto».
(...)
Pensa di essere cresciuto in una Arcadia?
 «Sì. Ho trascorso l' infanzia in un fattoria, durante gli anni Quaranta, in una parte del paese che si muoveva a ritmo lento. Il materiale delle mie poesie proviene dalla memoria di quel locus amoenus. Come conciliarlo col resto 
dell' esperienza è stato il mio rovello principale. Oggi posso dire che parte della mia poesia è un tipo di natura morta, o un quadro di interni olandese». 
(...)


In realtà è come se lei scrivesse da sempre della guerra, solo che è una guerra diversa. 
«Sì, lo so. È ciò di cui parla Milosz in The World, in cui le immagini idilliche e ironiche sono usate per andare contro ciò che sta accadendo altrove. Diceva che l' occupazione nazista di Varsavia, la distruzione del ghetto, la ribellione dei polacchi erano come un grido prolungato e la poesia non riusciva a gridare così. In un famoso verso si chiede: "Che cos' è la poesia che non salva i popoli né le persone?". Rispondo citando Brodsky: "L' unica cosa che l'arte ci insegna è che la condizione umana è privata". Ma ogni teoria, suppongo, è 
un' autobiografia».


frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Seamus Heaney
Repubblica 23 maggio 2013