sabato 31 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/510. Estate e Calabria erano una sola parola, gioia di vivere e mare e sole

 



Agosto, le vacanze finalmente! Che grande rito collettivo sono state le ferie d’agosto per noi baby-boomer. E in questa comunanza ogni famiglia aveva la propria ritualità.

I preparativi: acquisto dei doni per i parenti, chili di zucchero e caffè, come se giù non ce ne fosse, stoffe, vestiti, scarpe. Zucchero e caffè ci ho messo un po’ a capirlo come regalo, ma il caffè, freddo e già pronto, o appena fatto con la caffettiera napoletana e zuccheratissimo era una cortesia per gli ospiti imprescindibile. Ho conservato io la “guantiera” – piccolo vassoio di vetro – che era a della nonna, e che girava per casa a qualunque ora.

La partenza: quasi sempre nel cuore della notte, tra le 2 e le 3 del mattino, qualche volta un po’ più tardi, prima dell’alba. Ho imparato così a conoscere l’odore della notte a Milano, un misto di umidità, erba e aria stagnante.

Il viaggio: si partiva con due thermos, uno di caffè per i genitori e uno, più grande e largo, di polpette per tutta la famiglia. Poi pesche e pomodori, pane a fette, damigiana termica da 5 litri gialla e bianca che poi ci avrebbe accompagnato al mare ogni giorno. Di solito, quando si arrivava in Calabria era d’obbligo una sosta a Spezzano Albanese per riempirla con l’acqua buona. Ai bambini era concesso un supplemento di patatine Pai, gomme del Ponte, tavoletta di cioccolata e una buona scorta di fumetti Topolino. Il tutto veniva consumato entro le prime due ore di viaggio e poi iniziavano i litigi. Le soste ai distributori di benzina della Esso “metti un tigre nel motore” erano imprescindibili. L’odore della benzina, le code ai bagni, gli Autogrill Pavesi, un cappuccino con brioche se era ora di colazione, i giochi colorati e il cibo in abbondanza che, anno dopo anno, sembravano sempre uguali. La prima meta era Bologna, ci volevano dalle 2 alle 4 ore a seconda dell’ora e del giorno di partenza del primo fine settimana di agosto. Poi bisognava scegliere se proseguire sull’Autostrada del Sole, una vera avventura, o prendere l’Adriatica. Posso dire di aver visto quasi nascere e crescere le due principali reti autostradali d’Italia. Gli Appennini erano tutto un “Sali, Sali” e “Scendi, Scendi”, uno dei miei primi viaggi durò quasi 3 giorni, la macchina era una Prinz azzurra e ancora potevo stendermi da sola sul sedile posteriore e ronfare per quasi tutto il viaggio o giocare con la mia bambola Susanna e il bambolotto Mario, calciatore dell’Inter con la classica maglia a righe nerazzurre (a proposito, la nuova maglia pitonata, ma a chi è venuta in mente?). E poi i raccordi anulari di Roma e Napoli, la Basilicata, Lagonegro – che è davvero un lago scuro – il monte Pollino e poi Calabria e odore di gaddruzzo, cioè galletto, come diceva papà.

L’arrivo: i parenti erano tutti lì che ci aspettavano, io correvo subito dalla nonna. “Nonna, nonna! Dove sei? Siamo arrivati!” e lei mi rispondeva ridendo: “Bella!” era così che mi chiamava insieme a bell’i nanna, Ninni e Titti, si proprio come il canarino di gatto Silvestro che adoravo. E poi la cuginetta Maria, detta Mariuccia, la mia gemella e complice di tutte quelle estati. E tutti gli altri zii e zie, fratelli e sorella di papà, con i miei cuginetti e i cugini di papà e sorelle e fratello della nonna. Quanti eravamo? Mal contati direi almeno in 70. Da non crederci, davvero. E l’estate era davvero solo quella calabrese, perché luglio era il prologo al grande viaggio e settembre il mese della nostalgia dolce, che si stemperava solo con l’inizio della scuola.

La vacanza: qua e là ne ho già scritto nelle Cronache, oggi dico solo che la vacanza era sinonimo di felicità. Una felicità fatta di mare, e poi dei boschi di querce, dei fichi, dei mandorli e dei noci, dei campi di grano bruciati, dell’odore del focolare, dei peperoni verdi fritti, dei pomodori dell’orto, del tabacco steso a essiccare, del fieno, del grande oleandro bianco davanti a casa e di quelli rosa verso l’orto, del pergolato di uva fragola, del gattone tigrato e delle galline che razzolavano libere ovunque, del bucato che profumava di sapone di Marsiglia. E il rito della salsa di pomodoro che iniziava all’alba con il lavaggio delle bottiglie e finiva con la bollitura delle stesse, avvolte in sacchi di iuta in un enorme bidone che era stato abbandonato dalla Wermacht tedesca alla fine della guerra. E soprattutto della gioia di essere tutti insieme, di divertirci, di correre a piedi scalzi sulla terra come facevano i cuginetti, di cucinare le pizze nel forno a legna di zio Giacomo, di giocare interminabili partite a Scala 40, Briscola e Scopa d’Assi con i cuginetti Domenico, Luigi e Salvatore. E poi a Zorro/Luigi, di cui io ero la fidanzata – che nella serie non c’era – e il sergente Garcia/Salvatore e il servo muto Bernardo/Mariuccia – non chiedetemi perché, ma ero io che assegnavo le parti, e gli inseguimenti su e giù per la collina dello zio, e le scorribande nel granaio e poi nel pollaio a far scappare le galline e i niani, tacchini. E i fichi tiepidi mangiati appena colti dall’albero, le more dei gelsi, le nespole, merenda squisita gratis a ogni ora. E le mandorle e le noci acerbe che un’estate ci causarono un avvelenamento da tannino con febbre a 40°. E ancora i salti sul lettone di zia Maria, gli arrampicamenti sul baule della camera da letto che era sotto la finestra e saltare giù stando in piedi, così sembrava alto il doppio quel salto. E le colline che ci circondavano e il mare che era di là, oltre, ma sempre presente. Quelle erano vacanze, quella era la gioia del corpo, lo stordimento del sole, la freschezza dell’acqua.

La partenza: significava ore di pianti, abbracci, promesse per l’estate dell’anno prossimo che iniziava già da quel giorno. Si partiva con la macchina con le valigie legate sul portapacchi insieme a cassette di legno con le bottiglie di salsa che dovevano bastare a superare l’inverno, i pomodori freschi, i mazzi di basilico, i peperoni verdi da friggere e quelli secchi rossi da mangiare in inverno con i broccoli e qualche cucchiaiata di scarafuogli, cioè tutto il grasso e la carne del maiale che restavano sul fondo del pentolone dopo avere bollito le ossa. E ancora il pollo fritto con l’aglio, l’origano e le patate avvolti poi nella carta oleata, la pagnotta e le pite, le frese, i pomodori, le cipolle rosse di Tropea, i fichi maturi, le more.

L’arrivo a Milano: l’odore della pianura, il cielo grigiastro all’alba, l’ultimo Autogrill dopo Bologna, il casello di Melegnano, la tangenziale. E la gioia che diventava sogno e desiderio per l’estate che sarebbe arrivata dopo tre stagioni milanesi.

Se potessi fare un viaggio nel tempo è proprio lì che vorrei andare, in quella terra, con quelle persone, con quel sole e quei profumi, a cercare la bambina di campagna che sono stata e di tornare ad arrampicarmi sul gelso da more con Mariuccia e un vaso di Nutella sottratto a zia Maria, che per lei era nonna Maria, che ci spalmammo sulla faccia prima di mangiarla.

 

Oggi è sabato 31 luglio, l’inizio delle vacanze, la fine vera dell’anno che è ancora un anno senza Carnevale, come questa Cronaca calabrese che è la 510.

P.S. del giorno dopo: mio fratello mi ha ricordato che tra le merende del viaggio di andata c’erano anche i biscotti Togo. La memoria ha davvero anche una dimensione collettiva incredibile, per questo 1+1 fa 5.


venerdì 30 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/509. Una galassia che ruota, una costellazione, un sole sconosciuto

 

L’inizio di ogni viaggio era una festa, si comprava la cartina del paese che avevamo voglia di visitare e una guida, Michelin o Touring. Si decidevano poi il giorno della partenza da Milano e quello del ritorno. Tutto il tempo in mezzo, da una a cinque settimane, era da inventare giorno dopo giorno. Di quei primi viaggi amavo proprio il non sapere cosa sarebbe accaduto, le persone che avremmo incontrato, i luoghi nuovi che avremmo visitato, il cibo nuovo che avremmo assaggiato e sotto quale cielo avremmo dormito. Il riparo notturno erano piccole tende canadesi, si dormiva nei sacchi a pelo, qualche volta si cucinava sul fornello a gas, prima il sugo e poi la pasta. Partivamo sempre con due borsoni di libri, un taccuino, pochi abiti comodi, qualche scatola di spaghetti, lattine di pelati, sale, olio e peperoncino. Viaggiare significava uscire dalla propria pelle, sottrarsi agli stessi cieli che ci conoscevano dalla nascita, cercare un senso alla vita adulta che si stava presentando, sfuggire al controllo delle famiglie.

Fu durante uno di quei remoti viaggi che provai per le prime volte quel senso di sgomento cosmico, un miscuglio di inquietudine, finitudine e immensità dell’universo intorno a me. Una volta mi accadde a Narbonne plage, in un campeggio dove c’eravamo solo noi e una famiglia tedesca con due bambini piccoli. Aveva piovuto quasi tutto il giorno, avevamo mangiato solo un panino per pranzo, ma eravamo troppo stanchi per andare a cena in un bistrot. Così preparammo uno di quei piatti di spaghetti da vacanza che erano una pallida imitazione di quelli che si mangiavano a casa. Prima di cena mi allontanai da sola a passeggiare sulla spiaggia, vasta, vuota e grigia, come il mare e come il cielo. Provai un senso di vertigine e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Intorno era come se l’intera galassia fosse ruotata per mostrarmi che, in quasi tutte le angolazioni, ero a testa in giù e che le stelle non danzavano sopra di me, ma il cielo stellato era un diverso mare nel quale non sapevo nuotare, non ancora, almeno. Non condivisi quella singolare esperienza con i compagni di viaggio, ma subito dopo cena andai a rinchiudermi nella mia tenda. Avevo bisogno di un guscio protettivo intorno a me e persa nella visione di quell’oceano stellato, mi addormentai, tranquilla. Fu proprio durante quei viaggi, che interrompevano la routine quotidiana fatta di lavoro d’ufficio, studio matto dopo il lavoro e scrittura e lettura fatte di notte, che imparai a lasciarmi andare alla sensazioni che mi avvolgevano o mi precipitavano addosso dalla natura circostante. Il vento, il cielo, le nuvole, il mare, le onde, la pioggia, gli alberi, che già appartenevano al mondo degli amori infantili, scavarono nel mio immaginario quei luoghi che negli si sono riempiti di immagini, di suoni, di gioia e di sgomento. In questi due anni di pandemia i viaggi sono stati soprattutto immaginari o ricordati, molti ricordi di ciò che ho visto e vissuto. Non so dire se la fonte di consolazione principale sia la memoria o l’immaginazione, ma so che tutti quei mondi, visti, sognati, immaginati, scritti e ricordati, vivono in me, sono parte di me. Come se anch’io fossi una galassia che ruota, come se insieme non fossimo che costellazioni o il sole remoto di un sistema solare ancora sconosciuto. 




Quanto mare è nascosto in me?


Mi sorprende ogni 

volta sapere che tutte

quelle immagini stanno

al chiuso, in un posto 

invisibile come il mio 

cervello che non vedo,

mentre vedo quella

spiaggia francese e

le onde di quel mare

serale che mi inquietava.

Quanto mare è nascosto

in me? Quante nuvole

non possono più andare

libere in quei cieli? Eppure

so, che in questo microcosmo,

nessuno ha nostalgia di

quella libertà. Nessuno, 

perché essere vivi in

un ricordo o in una poesia,

è molto più che essere

stati quel giorno, in quel

tempo, su quella spiaggia. 




Così accompagno al suo declino questo venerdì 30 luglio del secondo anno senza Carnevale, mentre questa Cronaca 509 è tutta orgogliosa di essere una galassia e una costellazione.


giovedì 29 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/508. L’estate la sentivo arrivare dal viale


Verso la fine degli anni Ottanta frequentavo un’edicola, gestita da madre, padre, figlio uno, figlio due e figlia, cui ruotava intorno un mondo di storie e di passioni che un giorno scriverò. Tra le micro-storie satellite di quel luogo, ricordo che un giorno stavo chiacchierando con Marisa, la figlia, di un romanzo che stavamo leggendo, dire quale fosse è impossibile, ma era un libro edito o da Einaudi o da Feltrinelli. Sopraggiunse durante queste chiacchiere, mentre sbocconcellavamo insieme un panino fatto da Leo, gestore del bar contiguo all’edicola, un’elegante signora che chiameremo Silvia, proprietaria di un elegante negozio di bigiotteria, oggetti esotici ed eccentrici, mobili, cuscini, coperte. A lungo nella vetrina aveva troneggiato un letto a baldacchino, forse cinese, forse indiano, e molti dei gioielli d’argento che indossava, arrivavano proprio da quella vetrina cui passava davanti tutti i giorni. Possiedo ancora dei bellissimi orecchini d’argento che non metto più da anni, ma che erano fissi alle mie orecchie in quel periodo della mia vita, insieme a pesanti bracciali e collane, tutti di provenienza indiana e abbastanza vintage. Ora alcuni sono davvero antichi e sono begli oggetti da guardare, motivo per cui ancora li conservo. La signora Silvia, dunque, elegante e raffinata, con i capelli rossi, né lunghi né corti, venne chiamata in causa dalla mia amica che le chiese se per caso avesse letto il romanzo in questione che le mostrò. E la signora Silvia inorridì ed esclamò: “Ah no! Io leggo solo libri Adelphi!”. E se ne andò sdegnata. Noi due ridemmo molto di quella esclamazione e provammo a immaginare la nuova collezione autunno-inverno che la Silvia avrebbe esposto in bella vista e in ordine di colore nelle sue raffinate librerie. Le copertine di Adelphi sono sempre state il primo punto di attrazione e di attenzione, non solo per la densità del colore senza immagini della Piccola Biblioteca, ma anche per quegli stessi colori che facevano da cornice a un dipinto sconosciuto, o una fotografia, di cui poi si andava a cercare notizie sul pittore o il fotografo. A memoria, senza andare a frugare nella mia libreria, penso agli autori in ordine di apparizione nella mia vita a partire dall’inizio degli anni Ottanta sino a oggi. L’elenco è lungo, ma io adoro elenchi e liste, quindi non mi sottraggo: Karl Kraus, Joseph Roth, J. L. Borges, Oliver Sacks, Frederic Prokosch, Il Cantico dei Cantici, Fernando Pessoa, Henri-Pierre Roché, Anna Maria Ortese, Etty Hillesum, Milan Kundera, Robert Walser, Vladimir Nabokov, Alberto Savinio, George Simenon,Henri Michaux, Henry Miller, C. S. Lewis, Czeslaw Milosz, Karen Blixen, Marianne Moore, Elémire Zolla, Cristina Campo, Irène Némirovsky, Ingeborg Bachmann, Simone Weil, Paul Valéry, Somerset W. Maugham, Sandor Marai, Adam Zagajewski, Nina Cassian, Stefan Zweig, W. G. Sebald, Geminello Alvi, Iosif Brodskij e Roberto Calasso, il co-fondatore di Adelphi morto oggi a ottant’anni. L’elenco delle mie letture adelphiane è incompleto, ma ripensando a quanto siano importanti nella mia vita i libri di questi autori, non posso che pensare con riconoscenza all’editore che ha costruito non solo un mondo, ma lo spirito del tempo, un tempo novecentesco che con la sua morte, viene sigillato ancor più nel tempo passato. Lui aveva questo fiuto di pubblicare autori che sono diventati i tessitori di quello spirito, anche altri editori lo hanno fatto, ma non in maniera così totale come Calasso. È proprio così, ci sono libri che sono quel tempo e libri che lo attraversano e libri che non se ne curano.

Oggi per rendere onore all’editore e alla sua opera, sono andata a comprare i suoi due ultimi libri che sono arrivati in libreria proprio oggi. Solo un mago come lui poteva far coincidere il giorno della sua morte con la pubblicazione dei due libri della Piccola Biblioteca e ho passato la giornata a leggerli. Mi sono piaciuti molto, di più Memè Scianca, autobiografia dei primi tredici anni di vita, e Bobi dedicato a Roberto Bobi Bazlen, ideatore della casa editrice dove “avrebbero pubblicato solo libri che gli erano piaciuti”. Di Bazlen vengono raccontati diversi aneddoti e relazioni, inclusa quella con Montale cui diede da leggere Svevo. Non copierò citazioni se non quella finale, sulla scrittura, per non rovinare il piacere della lettura di questi libri popolati dalla letteratura che amiamo e che fa parte di noi.

 

“E questa idea di uno scritto che nasce da un altro scritto, lo rielabora, gli aggiunge qualcosa che prima non c’era, mi sembrava qualcosa da seguire”. La scrittura è davvero un’arte infinita che affonda le radici nei libri già scritti e i rami nel cielo di quelli che saranno scritti, seguendo quella strada che porta alla biblioteca universale di Borges. Buon viaggio Roberto Calasso, chissà se hai già ritrovato Bobi, e Montale e Svevo.

 

Oggi è giovedì 29 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 508 che continua a saltellare tra i libri sugli scaffali, cercando di scoprire in che ordine li ho disposti.

Il titolo della Cronaca è l’incipit delle prime memorie che Calasso iniziò a scrivere a dodici anni, la sua fotografia giovanile gira in Rete da stamattina ed è molto bella.

mercoledì 28 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/507. Nell’ombra di una rosa troverai l’uscita

 


Storie dall’arcipelago del tempo/2


Fino a che avremmo avuto cibo e acqua e una certa sicurezza, avremmo potuto continuare a vivere così come avevamo scelto? Ce lo chiedevamo tutti i giorni, era il nostro argomento di conversazione principale e pensavamo di essere stati fortunati a ritrovarci in così tanti nel territorio che un tempo era l’amena località di Bellagio. Proprio sulla biforcazione dei due rami del lago di Como avevamo insediato la nostra comunità. Utilizzammo tutte le case ancora agibili, iniziammo a coltivare i giardini per farne orti, ma cercando di preservare fiori e cespugli che davano grazia al luogo. La fitta rete di canali, fiumiciattoli e stagni era molto pescosa e dopo un primo inverno dove eravamo sopravvissuti grazie al cibo in scatola recuperato dalle case svuotate dai loro abitanti, gli ortaggi e il pesce fresco andarono a costituire la nostra dieta. A tutti mancavano gli agi della vita di “prima”, ma avevamo imparato a non lamentarci, eravamo vivi, eravamo stati in grado di dare vita a una piccola comunità di gente che sentiva e parlava. All’inizio eravamo circa un migliaio, non fu difficile scegliere di organizzarci in una forma di democrazia diretta dove tutti i maggiorenni si esprimevano per alzata di mano. E non fu neanche difficile scegliere le nostre guide, i nostri “portavoce”, come suggerì qualcuno che aveva studiato antropologia e le popolazioni della foresta amazzonica. Certo, non potevamo poetizzare quanto ci stava accadendo, ma eravamo vivi e in buona salute. Molti tra noi erano sopravvissuti a una delle tante pandemie che avevano colpito il pianeta, alcuni neanche si erano ammalati. Tra questi, i discendenti di una donna che aveva diciotto anni quando era scoppiata la pandemia di Spagnola nel lontanissimo 1918 e che non si era neanche ammalata, come tutta la sua famiglia, mentre nel paesello dove viveva prima di emigrare a Milano, più di metà della popolazione si era ammalata e non aveva superato la malattia. La donna aveva raccontato a una delle nipoti questa storia e lei aveva fatto altrettanto. Fu dopo averla ascoltata, che decidemmo di raccogliere le testimonianze e i racconti di noi sopravvissuti. La decisione venne presa all’unanimità dopo che il Consiglio dei cinque Portavoce si fu insediato. Era composta da tre donne: Anna, medico chirurgo; Silvia, fito-biologa; Elisabetta, ingegnere e architetto. I due uomini erano Davide, un informatico convertito all’agricoltura ben prima dell’ultima catastrofe, e Giovanni, geologo e ingegnere delle acque. I loro titoli accademici non valevano più nulla, ma l’esperienza e la competenza che avevano maturato nelle loro vite precedenti, nessuno aveva meno di quaranta anni, furono decisive per far diventare la nostra nuova casa un luogo dove poter vivere. A partire dalla bonifica dell’acquitrino fangoso che era diventato il grande lago.

 

Poi arrivò il giorno in cui la Rete smise di funzionare e così smettemmo di angosciarci per eventi su cui non avevamo alcun controllo e di perdere tempo a scrivere arguti commenti sui social che nessuno mai avrebbe letto. Fino a che riuscimmo a far funzionare le auto elettriche con le scorte di energia, i coraggiosi e i forti andavano esplorando il territorio e recuperavano tutto quello che ci poteva servire per vivere: cibo, acqua, vestiti, mobili, medicine. I palazzi in miglior stato diventarono i nostri magazzini gestiti da Raffaella che dirigeva un centro commerciale un tempo, insieme a una dozzina di altre persone che avevano lavorato come commessi. Cercammo, almeno all’inizio, di non dare più valore alla forza, all’età, all’intelligenza, ma trovammo il modo di far sì che a ciascuno fosse data la possibilità di avere ciò di cui aveva bisogno e di dare ciò di cui era capace. Non credo che il sistema funzionasse perché noi fossimo buoni o migliori, funzionava perché eravamo spaventati, perché eravamo quasi tutti ben oltre la trentina. I giovani, gli adolescenti e i bambini non erano che una cinquantina, così come gli anziani. I virus avevano decimato prima gli anziani in ogni ondata, ma poi avevano iniziato a morire anche i bambini e nessun medico o virologo riusciva a capire perché. Per questo tenevamo in grande considerazione questa parte di popolazione e riuscimmo a organizzare anche una scuola aperta a chiunque volesse apprendere. La priorità venne data alle arti manuali, chi sapeva cucinare, cucire, scolpire, assemblare, coltivare, insegnava ai giovani. Tra noi c’era anche una violinista di mezza età che aveva salvato il suo violino durante la grande fuga da Milano. Iniziò a insegnare musica e gli strumenti via via recuperati nelle case e nelle scuole abbandonate, le permisero di avere un discreto numero di allievi.

Tra i grandi vecchi c’era anche un anzianissimo poeta che aveva scritto centinaia di poesie e i cui libri avevamo trovato nella biblioteca comunale del paese. Aveva confessato di essere proprio lui dopo che, durante une delle serate dedicate alle arti, uno dei ragazzi aveva letto tutto uno dei suoi libri. Quando il ragazzo stava per leggere le ultime poesie, il vecchio poeta si era alzato e ne aveva recitata una guardandoci a turno:

 

 

Fuga

 

Quando sei nel labirinto

il filo della fuga si aggroviglia

ma nell’ombra di una rosa

troverai l’uscita.

 

 

Noi, non solo eravamo nel labirinto, noi eravamo il labirinto stesso. Bisognava solo capire a quale rosa si riferisse e in quale ombra dovevamo cercare l’uscita. Ma quelli che arrivavano da un altro tempo la trovarono prima di noi.

 

 

Un altro mondo sta emergendo, lo lascio affiorare, lascio che prenda casa in queste Cronache e che mi guidi in uno degli altrove dove la mia immaginazione si nutre, pesce e mare allo stesso tempo. Ringrazio Danilo Bramati per avermi fatto utilizzare una delle sue poesie della raccolta Una ruggine nel sangue, che uscirà subito dopo l’estate.

Oggi è mercoledì 28 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 507 è ancora smarrita nel giardino delle rose.

martedì 27 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/506. Quando il tempo si moltiplica nei tempi infiniti

 


Storie dall’arcipelago del tempo/1


Quando le cose iniziarono a cambiare nessuno se ne accorse e quando il mondo capì, non c’erano parole per dire come erano diventate le stagioni. In mezzo all’estate più torrida, appariva uno squarcio improvviso di primavera, piovosa, assediata dalla voglia di ricominciare. E in primavera accadeva che fosse l’inverno a irrompere tra i germogli e i boccioli appena aperti, e che tutto gelasse e la promessa di rinnovamento finisse in cristalli di ghiaccio. In autunno le foglie resistevano aggrappate ai frutti tardivi e profumati come nel colmo della stagione bella. Così l’estate si salvava apparendo a Natale e scaldando gli alberi che germogliavano e poi morivano. Non erano più quattro le stagioni, ma infinite come le combinazioni di alberi, fiori, frutti e germogli.

Fu poi la volta della luce, che arrivava troppo presto, o il buio che cadeva nel pieno mezzogiorno, ed era come se un’eclissi infinita del sole si fosse impadronita del cielo.

All’inizio erano fenomeni che duravano pochi secondi, così era difficile rendersene conto, e il cervello ricomponeva il buio come se fosse stata solo un’ombra e la luce, la luce era più difficile, ma c’erano pur sempre le scie delle stelle cadenti che illuminavano l’oscurità.

La realtà intorno a noi non era più quella che avevamo imparato a conoscere, cercavamo disperati di capire se potevamo fare qualcosa, ma non c’era modo di tornare a quei tempi che erano rimasti solo nella nostra memoria. Almeno così credevamo all’inizio, perché poi qualcuno riuscì ad andare indietro e a ritornare e tutti volevano farlo perché nessuno amava il presente. Tutti insieme stavamo cercando di ritrovare l’infanzia e la giovinezza, almeno chi ne aveva ricordi felici, e chi non aveva un’età mitica a cui ritornare, cercava anche solo quell’unico istante che aveva reso la vita degna di essere vissuta.

Poi in molti iniziarono a non ritornare e il mondo così si divise tra quelli che erano ritornati e quelli che non erano ancora partiti.

Mentre i ghiacci si scioglievano, mentre il livello delle acque saliva in tutti i mari e oceani, intere città furono sommerse in entrambi gli emisferi, ma chi aveva il tempo di ricordare Venezia o New York? Si poteva tornare indietro, perché limitarsi a conservare quello che era stato costruito secoli prima?

Il mondo come lo conoscevamo non esisteva più, caddero le nazioni, si estinsero altre centinaia di specie animali, ma quelli che potevano continuavano a pagare per tornare indietro, viaggiavano. Gli altri, le masse, le moltitudini, si arrabattavano e arrancavano, storditi dagli smartphone e dalle immagini che stavano soppiantando ogni lingua parlata. Si comunicava solo con gli emoticon e con versi simili a grugniti. Solo chi conosceva la lingua dei segni si salvò da questa decadenza. Furono proprio loro, i sordi o i minorati sensoriali dell’udito, come si preferiva dire in quell’epoca di politicamente corretto, che si unirono e andarono a costituire la nuova casta dei governanti insieme ai fisici quantistici che garantivano la possibilità di viaggiare avanti e indietro nel tempo a se stessi e a chi poteva permettersi di pagare le cifre a tre zeri per poter andare in un angolo qualunque dello spazio tempo. Le moltitudini stordite vennero poi sterminate da una sequenza di altri corona-virus che si succedevano come un tempo la stagione dei raffreddori. Così cambiava il mondo che avevamo conosciuto, così rimanemmo in poche migliaia a parlare alla vecchia maniera, a decidere di non tornare indietro. Come gli uomini libro di Fahrenheit 451, avevamo scelto di vivere lontani dalle grandi città e di coltivare le piante di cui ci saremmo nutriti e di allevare pecore e capre per la lana, il latte e il formaggio. Il villaggio dove vivevamo quando tutto iniziò, non era lontano da quello che un tempo era stato uno dei grandi laghi lombardi e che era ridotto più a un acquitrino fangoso che a un laghetto. Ci eravamo adattati e non ci allontanavamo mai oltre il necessario per portare al pascolo gli animali. Eravamo sempre meno nel mondo e lo sentivamo anche senza andare a cercare le notizie, scarse e incomplete, che la Rete continuava a portare come fa la marea con i relitti di un naufragio. Forse eravamo davvero come dei naufraghi. Ma poi accadde che in quel tempo, nel nostro tempo malato, iniziarono ad arrivare viaggiatori che arrivavano non solo da altre epoche, ma anche da altre realtà. Il tempo era davvero uscito dai cardini, a qualcuno toccò di ritrovarsi bambino e di vivere il paradosso di non conoscere il proprio passato. Questo era il nostro mondo, a metà di quello che era stato chiamato XXI° secolo, ma che era solo un’isola in un arcipelago di istanti che non riuscivamo più a tenere insieme.

 

Ecco l’inizio di una nuova storia che forse scriverò, una storia di fantascienza, come quelle che leggevo nelle estati dell’adolescenza. In questi giorni questa pioggia così poco estiva mi ha fatto venire voglia di rileggere alcuni di quegli autori. E intanto di scrivere l’incipit di una storia senza punti di riferimento. Cosa ne verrà fuori in questo secondo anno senza Carnevale? Oggi è martedì 27 luglio e questa è la Cronaca 506, ancora sdraiata in giardino a leggere Ray Bradbury.

lunedì 26 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/505. Vorrei che almeno il vento avesse le parole, ma qui c’è solo la pioggia

 


Il mistero che mai potremo svelare è quello della pioggia, perché nessuna goccia è uguale a un’altra, proprio come i fiocchi di neve. Ma nessuno può fermare la forza della caduta per notare le differenze, così lavoriamo di immaginazione, qui seduti sotto al portico della Casa delle Parole. Mentre la città è attraversata da una tempesta rabbiosa che arriva da altre latitudini, nel nostro giardino la pioggia non è ancora temporale, ma dall’odore nell’aria, sento che presto arriverà anche da noi. Com’è verde questo mondo intorno, come profuma l’erba, e il vento porta anche l’odore salato del mare, al punto che i lupi, sì proprio loro che non incontravamo da mesi, i lupi si mettono a fiutare l’aria e ululano verso il cielo, verso quelle nuvole che vorrebbero essere altrove, ma non sanno mai dove, perché è il vento a decidere ogni tragitto e scava solchi nell’aria, in se stesso, e spinge le nuvole perché si muove come un cane da pastore e lui è il vento da nuvole. Molto diverso dal vento da cielo sereno, dove sono gli alberi a giocare pur non potendosi muovere. Com’è pieno di armonia questo silenzio di voci umane, affidato solo al suono lieve della pioggia. Le notizie dal mondo non sono buone, ma c’è un’eco di commenti che sovrastano i fatti. È un’epoca di opinioni che sovrastano le notizie, che sono tante, troppe, che ogni giorno ci stendono e che domani saranno dimenticate quasi tutte, perché altri fatti e altre opinioni, li avranno sepolti. Tutta la nostra memoria è affidata all’elettronica: scritti, immagini, tutto sepolto nelle fredde memorie digitali, cosa resterà davvero del tempo che abbiamo attraversato ma non abbiamo vissuto? Agli storici del futuro, ammesso che la loro disciplina sopravviva a questi tempi, si porrà un problema di selezione dei materiali e non di reperimento. Ci sono sin troppe testimonianze, troppi ricordi e allora cosa resterà davvero? Cosa sarà importante conservare? Cosa lasciar scivolare nell’oblio?

 

 

Verso il buio dei nostri cuori

 

Anche la nostra memoria è

fragile, si piega alla tempesta,

non cede, ma poi si frantuma

sugli scogli della realtà, ultima

onda che ha incendiato la nostra

immaginazione. Dove saranno

gli anni? Dove saranno i visi che

abbiamo amato un giorno?

Vorrei che almeno il vento avesse

le parole, ma qui c’è solo la pioggia

e una nenia lontana cantata da

una sirena e un pastore. Anche

le stelle li stanno ad ascoltare e

lanciano le lucciole verso il buio

dei nostri cuori, nel fitto bosco

di questo tempo oscuro.

 

 

Oggi nel tardo pomeriggio ho fatto una lunga passeggiata con mia cognata Monica, la quiete dopo la tempesta di qualche ora prima era reale, si stava bene, abbiamo parlato a lungo e così ho deciso di lasciare una traccia di questo pomeriggio nella Cronaca 505 di lunedì 26 luglio del secondo anno senza Carnevale.

domenica 25 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/504. Il tempo non esiste davvero, è un’unica, infinita estate



Gli odori più di ogni altra cosa: anguria, pomodoro, basilico, menta selvatica. E poi peperoni verdi, melanzane, aglio, cipolla rossa, origano. L’olio dell’anno prima, il pane e le pite appena sfornati da nonna. Le frese strofinate con l’aglio e condite con pomodoro, olio, sale e origano. Il profumo del cibo che mangeremo crudo mentre il sole è al culmine e anche mentre la sera scende dolce e raccoglieremo la menta per condire le zucchine fredde e poi aggiungere anche un po’ di aceto. Il mattino e il latte appena munto, il caffè sempre pronto, lo zucchero conservato nella credenza che profuma anche di anice, i taralli cotti nel forno a legna e ancora l’aroma dell’anice.

Le stanze fresche, imbiancate a calce, il pavimento di pietra grezza, i mobili di legno, le lenzuola di cotone tessute al telaio a mano, il sapone di Marsiglia, i gummuli di terracotta che conservano l’acqua fresca, la cassapanca di legno dove conservare i cibi che verranno mangiati in giornata. Il focolare dove cuciniamo i peperoni con le patate, il pollo fritto con l’origano. Si mescolano anche le immagini delle mani che impastano, nonna impasta i maccaroni e arrotola la pasta su una sottile canna e ogni tanto spalma un po’ di strutto sulle mani. Mamma impasta con la stessa abilità e dalle sue mani escono orecchiette perfette che verranno condite con un sugo di pomodori freschi, cipolla e basilico. Con abbondante olio e anche un poco di origano. Beviamo acqua, il vino è riservato al pranzo della domenica o alle grandi occasioni. Quando si cucina quasi tutto al forno, pasta, peperoni ripieni, pollo e tacchino arrosto, patate.

Le stoviglie di terracotta dipinta d’avorio punteggiato di verde, i bicchieri di vetro lavorato, le brocche, le tazzine del caffè di porcellana bianca, la zuccheriera e la piccola guantiera (vassoietto) di vetro per servire il caffè agli ospiti. Poi lavare i piatti alla fontana sotto l’acqua che scorre tutto il giorno, giocare con le bolle di sapone, come quando laviamo i panni nell’acqua. Zia indossa sempre degli stivaloni da pescatore, mamma e nonna stanno a piedi nudi e noi la imitiamo. Strofinare ogni capo sulla pietra, sbatterlo, sciacquarlo e strofinarlo ancora, sciacquarlo e poi strizzarlo. Il profumo dell’oleandro bianco dà le vertigini, il sole ancora di più. Poi il pomeriggio viene inghiottito dalla frescura della casa, dal sonno, dal silenzio intessuto dal canto delle cicale. I bambini si svegliano prima dei grandi, con la cuginetta corriamo nell’orto, camminiamo in equilibrio sul bordo dell’abbeveratoio dove, verso il tramonto, si fermeranno i carri trainati dai buoi che devono abbeverarsi. Andiamo anche nell’essiccatoio a sbirciare il tabacco steso a seccare e poi ci arrampichiamo sul nespolo, ci intrufoliamo nel pollaio a raccogliere le uova appena deposte, l’odore della paglia e degli escrementi, l’uovo millenario che sta in ogni nido per invogliare le galline a deporne altri. Le papere che vanno a nuotare nell’acquaro, e noi che le inseguiamo, il gatto tigrato enorme che amava mangiare i peperoni e le cipolle dell’insalata, il cane Black, uno spinone da caccia, implacabile e simpatico, sposato da sempre e per sempre con la bastardina Diana, fino alla morte, i cuccioli bicolori che poi trovavano altre famiglie. I ricci che uscivano di notte a cui Black dava la caccia, le mucche nella stalla, tranquille, ancora odore di fieno e di erba, non avere mai paura degli animali, dei loro odori, perdersi nei loro sguardi e sentire il senso profondo delle loro vite. I maialini appena nati, rosa e strillanti, la vecchia scrofa che grugniva felice quando le portavamo i resti delle verdure e soprattutto le bucce dell’anguria. Il branco dei tacchini governati da uno dei cuginetti, l’altalena appesa alla quercia dietro la casa di zio. La grande quercia a bordo del campo di grano dove andavamo a riposare guidati in fila indiana da papà, gli alberi di fico, il loro latte che usciva dai frutti acerbi, la delizia di quelli maturi di cui Black amava le bucce. Il sentiero che portava al fiume, a volte ci si andava a piedi, a volte nel rimorchio del trattore condotto da zio. Il cugino grande pesca con le mani, guardiamo mamma e cugina che puliscono i pesci prima di arrostirli sulla brace con i peperoni. Il fiume è stretto e basso, possiamo giocare e fare il bagno da soli. Le colline sono ricamate di querce e ulivi centenari, le luci degli altri paesi sono le lanterne dei giganti che escono solo di notte. Dormiamo con le finestre aperte, siamo in tanti e ci sono letti e lettini in ogni stanza. Sopra la mia testa un crocifisso e un’immagine della Madonna del Pettoruto con un rosario appeso. Fuori le luci oscillano al canto dolce dei grilli, ci addormentiamo.

Il paese con la sua torre rotonda, il castello e la fontana normanni, la Cattedrale, il Monastero, il vecchio ghetto ebraico, le Contrade con nomi incantati, è tutto lì che ci aspetta, domani mattina, ogni mattina.

Ora tutte quelle giornate, quei mesi, quegli anni, sono un’unica infinita estate che mi accompagna e basta il profumo dell’anguria a riportarmi laggiù, con tutti voi che amo come se fossimo ancora lì, tutti insieme. Il tempo non esiste davvero, è solo una convenzione per farci raccontare storie almeno un po’ ordinate.

 

Oggi è domenica 25 luglio del secondo anno senza Carnevale, abbiamo festeggiato il diciottesimo compleanno del mio nipote più piccolo. Abbiamo passato tutti insieme una giornata bellissima con altre e nuove famiglie e che il profumo dell’anguria ha legato alle estati della nostra infanzia, in questa Cronaca 504 che non vuole uscire dall’orto se non per andare a sonnecchiare sotto la grande quercia.


sabato 24 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/503. Immagina una moltitudine di persone imprigionate fin dalla nascita in uno spazio di luce abbacinante


 


 Nel bizzarro clima milanese fatto di acquazzoni e vento fresco, oggi pomeriggio sono andata a vedere la mostra di Mario Sironi al Museo del Novecento. È una bella retrospettiva, molto ricca, con tante opere giovanili, i bozzetti per le grandi opere murali, molti autoritratti, e molti quadri appartenenti a collezioni private che difficilmente ci sarà occasione di rivedere.

Sironi è un artista geniale e monumentale come le sue opere. La storia della sua vita è in qualche modo la storia del primo Novecento italiano. Fascista dalla prima ora, nevrotico, futurista, illustratore, padre di due figlie di cui una suicida a soli 18 anni, salvato dalla fucilazione per mano dei partigiani verso la fine della guerra grazie, così ha raccontato il salvatore, ma ci sono altre versioni, a Gianni Rodari che lo aveva riconosciuto.

Fondatore con altri artisti del movimento Novecento, Sironi è diventato Sironi, senza più maestri, epigoni o compagni di strada. Ho visto questa mostra con i miei amici Grazia e Danilo, che di Sironi sa tutto e gli ha dedicato un’opera teatrale davvero bellissima: Il mito rovesciato. Sironi incontra le ombre, che in premessa recita “Fiaba drammatica in due atti e un atto finale”. Potrei continuare a elencare le emozioni che questo artista sa trasmettermi, la commozione, i paesaggi urbani che mi struggono perché rappresentano la Milano industriale che emerge dalle rovine di quella contadina. Però preferisco che siano le parole scritte da Danilo Bramati a introdurvi nell’universo sironiano.

 

(sul lato destro rispetto al pubblico c’è una foresta di alberi spogli in stile sironiano che occupa quasi metà palcoscenico e si perde fra le quinte. Al margine sono sparse pietre in stile sironiano. Su una pietra è seduto Sironi. Una ragazza bionda esce dalla foresta cantando questi versi di Michelangelo:

 

“Cosa mobil non è che sotto il sole

non vinca morte e cangi la fortuna...”.

 

poi rientra nella foresta. Dal lato opposto si fa avanti il Personaggio e va verso il proscenio)

 

Personaggio.

È quell’uomo laggiù. Brusco, scontroso, onesto. Non lusingò nessuno. Non si pentì di niente. La sua opera sfida il tempo. Non puntò mai alla felicità. (raggiunge Sironi e siede su una pietra)

 

SIRONI.

Immagina una moltitudine di persone imprigionate fin dalla nascita in uno spazio di luce abbacinante che violenta e percuote ogni angolo di mondo, ogni foglia sottile, ogni impronta lieve figurata nella sabbia, ogni pensiero appena accennato nei cuori e nelle menti. Immagina una miriade di sentieri allucinati da un sole a picco, percorsi in lungo e in largo da una marea di gente di ogni razza, età, e tutti quanti se ne vanno in giro brancolando e si portano le mani sulla fronte per dar sollievo agli occhi folgorati. Ai lati dei sentieri, innumerevoli muretti circondati da una gran folla, simili a quelli dove i burattinai fanno muovere i burattini, e le persone ci salgono sopra, ci improvvisano scene, si inventano delle storie, piangono, ridono, fanno amicizia e poi si tradiscono, si azzuffano e rifanno pace. Altri assistono allo spettacolo e aspettano il loro momento. Ma a dispetto di quelle farse nessuno può sfuggire alla luce devastante che infierisce sui corpi, nelle anime... ora immagina, alle spalle della gente, l’ingresso di una caverna, una voragine buia, profonda, nascosta da una gran massa arruffata di sterpi. Immagina che uno del pubblico – forse annoiato dalle recite, forse per via di un’intuizione improvvisa – giri la testa e veda! (si alza e si rivolge al pubblico) Incalzato dalla frenesia lui si lancia verso la caverna, si apre un varco fra le sterpaglie, trova l’entrata, è dentro! Dentro, in una notte elementare... (la luce cala lentamente) E non ha paura, la cecità non gli spezza il fiato mentre incespica nell’eco dei suoi passi fra sporgenze di calcare e tufo. (nel buio, sullo sfondo a sinistra, viene proiettato lo studio preparatorio per l’affresco l’Italia tra le arti e le scienze) ma all’improvviso, su quella parete laggiù, laggiù, fra spigoli di roccia, quelle figure che si affollano come ombre proiettate su un lenzuolo e si tingono di grigi, ocra, terre, bruni van dyck e grumi sanguinanti e spatolate azzurre come le vene che rigano i polsi... lui guarda stupefatto, si smarrisce in quell’evento misterioso, il tempo non scorre più mentre le ombre si fanno concrete, prendono corpo fra quelle tenebre, vengono, gli vogliono parlare, un enigma si scioglie lentamente e lui è sul punto di afferrarlo... (l’immagine sparisce. Si ode un crollo spaventoso. Il Personaggio fugge fuori scena. Fine del crollo) Sono il pittore Mario Sironi. Sono stato fascista e futurista. Futuristi e fascisti mi hanno coperto d’insulti. Sono esistito in bilico fra due mondi. Sono morto in una clinica milanese il tredici agosto del sessantuno. (Sironi entra nella foresta. Lo intravediamo fra gli alberi. Dal lato opposto irrompono i gemelli Fafù. Fa è vestito da squadrista e ha un manganello alla cintura, Fu indossa un abito futurista e sfoggia grandi baffi a manubrio. Dalla cintura gli pende un aggeggio bizzarro. Avanzano aggressivi)

 

All’uscita dalla mostra ho scattato la foto che vedete e poi è scoppiato un acquazzone e ci siamo salutati in fretta, in questo sabato 24 luglio del secondo anno senza Carnevale e in questa Cronaca 503 sironiana con gli occhi ancora pieni di bellezza e meraviglia.

venerdì 23 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/502. Oggi ti penso come si pensa al sorriso del ciliegio

 

 


Un’altra giornata afosa e zanzarosa, le cicale devono avere terminato il loro ciclo vitale perché non le sento più e di notte non ho ancora sentito i grilli. Questa è la città mai più silenziosa in questi giorni. Ma poi c’è il mio giardino incantato dove mi rifugio a leggere e scrivere, un luogo dell’anima prima ancora che fisico, un luogo dove poter respirare e lasciarmi rapire dalla bellezza della poesia. Anche oggi vi offro da leggere Danilo Bramati, dalla sua raccolta appena pubblicata L’ultima promessa.

 

 

Il rito

 

Oggi ti penso come si pensa

al sorriso del ciliegio.

Hai salutato il mondo?

Hai ruotato la sfera

nel palmo della tua mano,

accarezzato le terre e gli oceani?

 

Anch’io, sai, oggi mi sento

come uno che abita,

la mia casa è questo vento

che non distingue.

E adesso voglio compiere

il rito, adesso apparecchio la tavola

come un altare

poi tufferò le dita

nella tazza benedetta,

mi segnerò la pelle.

 

 

 

Abitare nel vento, accarezzare le terre e gli oceani, compiere un rito per rendere sacro anche il giorno più normale. È in questa dimensione fuori dal tempo e in un diverso spazio, dove la grande poesia ci può condurre anche a contemplare il sorriso di un ciliegio.

 

La vita è fatta soprattutto di questo, di attimi che diventano eternità, attimi che viviamo, scriviamo, ricordiamo, rileggiamo.

 

Oggi è venerdì 23 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 502 anch’essa immersa nella bellezza e nella gioia della poesia.

giovedì 22 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/501. In questo andare nel fuoco dei sentieri

 

 


 

Sui siti dei maggiori quotidiani italiani oggi prevalgono le informazioni sul Green Pass, riforma della Giustizia, colori delle zone d’Italia che dipendono dalle percentuali dei ricoveri e delle terapie intensive, che dire?

“Andate in vacanza, ma potreste non partire, o magari non tornare”, “Andate al teatro, al cinema, al ristorante, ma solo se avete il Green”. Da un lato il messaggio è liberi tutti, dall’altro state attenti. Il caos regna sovrano dal punto di vista comunicativo, ma le persone partono, cercano di vivere un’estate normale, negano l’evidenza, negano che il virus sa un problema. Il mondo è pieno di complottisti che continuano a scrivere post su “loro” che ci vogliono proni, asserviti e vaccinati. Ma la maggior parte delle persone che conosco si è vaccinata, alcuni con timore, alcuni ritardano perché hanno problemi di salute. Ma almeno nella mia bolla non è venuta meno la fiducia nella scienza e nell’autorevolezza di chi sa di cosa sta parlando. Seguendo il filo di questo elementare ragionamento non dovrei neanche star scrivendo questa Cronaca, la mia è un’opinione tra centinaia di migliaia, non sono medico, né tanto meno virologo, mi fido perché ho scelto di fidarmi.

Per tornare a scrivere in un campo di maggior confidenza com’è la poesia per me, stasera rileggerò un libro straordinario di Danilo Bramati che è appena uscito. Vi parlerò più e meglio di queste poesie meravigliose, per questa sera prendo commiato con le prime due poesie che aprono la raccolta:

 

 

L’ultima promessa

 

Al bordo di quale fiume

ho attraversato il sonno dei canneti

con un piede oltre il confine?

Smarriti i limiti

ero platano fra i platani,

una sostanza verde,

una crescita incosciente

ma avevo sogni, figure come sfingi

mi traducevano gli oracoli.

 

Era l’ultima promessa. Ora

il fiume giace in un bicchiere,

la riva accoglie

creature di fumo

che prima erano respiri.

 

§

 

Nel fuoco dei sentieri

 

Labile cosa il mondo,

labile cosa la poesia,

labile cosa anche la morte.

Guarda la primula sul ciglio

come si sfa, come si sfoglia

e si tramuta in soffio…


Ma tu sei vivo, abiti lo spazio

dove creature vanno e vengono,

non parli la lingua scura,

l’alfabeto delle ombre.

 

Quanti giri faranno le lancette

prima che l’ultima foglia autunnale

si stacchi, cada nella nebbia?

Perché ancora, ancora ti ossessiona

la memoria del platano

folgorato dalla luce?

 

Ma tu resta nel presente,

nelle cose elementari,

un germoglio, un canneto, un fiume, un sasso,

non consultare oracoli,

il destino è già qui,

in questo andare nel fuoco dei sentieri

con la polvere negli occhi.

 

 

Oggi è giovedì 22 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 501, avvolta in una nube di poesia e speranza.

mercoledì 21 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/500. La Cronaca che non c’è o la Cronaca assente?

 


Per “celebrare” il cinquecentesimo giorno delle Cronache oggi non c’è una Cronaca, ci sono ricordi e una grande fetta d’anguria matura.

martedì 20 luglio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/499. Il mare, le stelle, il vento e noi sdraiati a pancia in su


 


C’era un tempo in cui ogni istante del giorno era foriero di gioia, una gioia che nasceva dalla felicità dei sensi, dall’adesione del nostro essere all’intero creato. Le domande già esistevano ed erano una sequenza infinita, e allo stesso tempo, né le domande, né le risposte andavano a inficiare quella sensazione di essere nella propria pelle, vivi, circondati da colori e profumi, da un mondo così bello da essere commovente. Non c’era bisogno di fare cose straordinarie, bastava respirare il profumo della pelle della mamma e del papà stando in braccio e ascoltando le loro conversazioni da grandi. Era salire in piedi su una sedia per guardare mamma che impastava la farina e l’acqua per farne delle orecchiette squisite, era chiedere al papà di essere sollevata per guardare il sugo di pomodoro, profumato di cipolla e basilico, che stava preparando. Era addormentarsi al suono delle loro voci in soggiorno e non avere mai paura del buio perché loro erano di là. Era giocare con il cuginetto Gianfranco (detto Ciccio), nascosti sotto la lunga tovaglia di pizzo del tavolo del soggiorno, sbirciando fuori, convinti che le mamme non ci vedessero. Era camminare lungo il Naviglio Grande e Vicolo dei Lavandai, dove davvero c’erano le lavandaie e saltellare come fanno tutti i bambini e tutti i cuccioli. Era andare di corsa a comprare il cono a tre gusti nella latteria del signor Mario, giù dal ponte dei biscotti della nonna (ora ponte Alda Merini) e desiderare tutto l’inverno che tornasse l’estate per poter mangiare di nuovo il gelato. Erano quelle gite sul Ticino, al ponte delle barche di Bereguardo, dove le domeniche erano una teoria infinita di bagni a riva, risate, cocomeri e vino messi a rinfrescare nell’acqua, pasta al forno a temperatura ambiente, pomodori e polpette, pesche, albicocche e ciliegie. L’esperienza del mondo che facciamo da bambini darà forma a qualunque altro mondo scopriremo ed esploreremo. Perché dall’esperienza originaria si procede nella conoscenza per somiglianze e differenze. Sappiamo dalle neuroscienze che restano impresse nella memoria tutte quelle esperienze che hanno un portato emotivo forte, che coinvolge il cervello e tutto il sistema nervoso centrale, in particolare l’amigdala, dove risiedono i ricordi olfattivi e del gusto. Quegli attimi magici che sono rimasti impressi, tornano a farsi vivi quando una qualunque immagine, sensazione, percezione ce li ricorda, ma spesso anche in assenza di stimoli arrivano immagini dai tempi più remoti della nostra vita e ci parlano. Oggi mi sono vista davanti mia madre con una gonna scozzese grigia e azzurra e un golfino turchese che sta impastando le orecchiette, dovevo avere circa quattro anni. Poi ho visto anche zia Franca, sua sorella, con in braccio il cuginetto Ciccio. Era una sera d’estate, io ero già andata a dormire. Ma poi loro sono arrivati con il gelato e allora la mamma mi ha presa in braccio. Vi sembrerà azzardato, ma secondo me avevamo un anno appena, perché lui era ancora piccolo e batuffoloso e di questo ricordo sono certa che sia un mio ricordo e non il ricordo di un racconto. Tutte queste visite che arrivano dal passato hanno sempre fatto parte della mia vita, forse per questo mi sono appassionata alle neuroscienze, soprattutto agli studi su memoria, immaginazione e coscienza. Ma ad abbracciare immagini, ricordi, passioni, libri e studio, ecco che mi accompagna e mi guida la poesia. Che non so da dove venga e perché proprio si manifesti, così come fa.

 

 

I mari sono stati molti e anche le nuvole

 

 

Sedute in riva al mare

stanno la bambina e

la neonata, la ragazzina

allegra e quella ombrosa.

E l’adolescente goffa e

la giovane che scalpitava

per andare via e cambiare

l’orizzonte e il mare. Certo,

i mari sono stati molti, e pure

le nuvole e il confine degli

orizzonti, ma il mare, sapete,

il mare, è sempre lo stesso,

sempre quello che ho amato

per primo, durante l’infanzia,

e sento le onde, sento il canto

delle sirene, il profumo

delle alghe e dei narcisi,

e il vento che mi chiama

e che mi segue da allora

anche nella grande città

silenziosa e che mi riporta

con un solo sussurro là,

dove tutti i venti e tutte

le nuvole nascono e poi

mi raggiungono. Là dove

il mare è un rifugio e anche

un sogno sognato notte

dopo notte. Il mare, le stelle,

il vento e noi sdraiati a

pancia in su a contare ciò

che non si può contare e

questo contare è la fiducia

nella vita e nella gioia, sempre,

sempre, nel mare, in attesa,

in veglia e in sonno, nel ricordo

e nell’immaginazione.

 

 

Ecco, è ancora presto, è pomeriggio, ma ho finito di scrivere per lasciare spazio alle immaginazioni, alla lettura, alla scrittura. La sera si aprirà così come un ventaglio che fa fresco e indica quell’orizzonte dove la notte ci attende e non è mai sola, è con le stelle e una nuova poesia. Oggi è martedì 20 luglio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 499 che indica i 499 giorni che sono passati dal primo giorno del primo lockdown il 9 marzo 2020.