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venerdì 17 giugno 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/831. Attraversare volando le frontiere incerte della poesia

 

 


 

Quando scopro un poeta per me nuovo e sconosciuto è sempre una festa. Ho iniziato a leggere durante questa pigra vacanza marina Alfonso Brezmes Quando non ci sono tradotto da Mirta Amanda Barbonetti per Einaudi. Sento molto la sua poesia e questo mi fa vibrare e mi mette allegria.

 

Ecco qualche piccolo assaggio della sue poesia che sto centellinando.

 

 

Vite parallele

 

Tu sulla linea 3,

che leggi Plutarco;

io sulla linea 5,

che faccio l’amore con te,

mentre fingo

di scrivere questa poesia.

 

Finzioni

 

 

Dimmi che questo è solo un sogno

o tutt’al più un altro racconto di Borges,

che i sentieri che percorre l’amore

sono labirinti che si biforcano

e si perdono, si biforcano

e si perdono, e che il tuo ricordo

è solo un uccello che attraversa

volando

le frontiere incerte della poesia.

Un universo in più

tra i mille universi possibili.

Un’ultima

e dolce

e superba

metafora dell’oblio.

 

 

Perduti

 

To celebrate this night we found each other,

let’s get lost, oh, let’s get lost…

Chet Baker

 

Rimani qui,

dove tutto è possibile.

Non aver paura,

anche se tutto è buio.

La realtà è qui.

Perché ci sarà sempre qualcuno

che tornerà ad aprire questo libro

e arriverà a questa pagina,

e nel pronunciare i nostri nomi

ci ritroverà.

 

 

Oggi è venerdì 17 giugno del terzo anno senza Carnevale e del primo anno di guerra e questa Cronaca 831 ascolta Chet Baker e canticchia a mezza voce.

domenica 29 marzo 2020

Cronache dalla'anno senza Carnevale/21: lo sguardo del ritorno, cosa troverà Ulisse


Stiamo raccontando in moltissimi tutti insieme la guerra, questa guerra non dichiarata che ci vede rinchiusi nella trincea delle nostre case, con una percezione del pericolo amplificata dalla concentrazione di ammalati e deceduti. Il bollettino delle 18 è diventato un triste appuntamento e tutti sogniamo il momento in cui i numeri saranno vicini allo zero. E poi?

I soliti Dioscuri della politica, probabilmente disperati per la mancanza di visibilità che li schiaccia, spingono sui fronti opposti, uno che vorrebbe chiudere tutto a tempo indefinito e uno che vorrebbe riaprire dopo Pasqua. È impossibile per loro aspettare il parere autorevole degli scienziati, dei virologi, epidemiologi, statistici. È vero che è compito della politica agire per il bene comune, ma in questa situazione è il fattore tempo a essere determinante. Un tempo denso come miele, che ci imprigiona non solo i corpi ma anche la mente.

Però è importante iniziare a pensare al dopo. Per non trovarci di fronte alla domanda fatidica “e adesso?”. In migliaia stiamo scrivendo diari, testimonianze, cronache e lettere. Uno sforzo letterario collettivo che non ha precedenti nella storia dell’umanità.

Non è solo il tempo presente a diventare materia di narrazione, il passato che non ritornerà deve essere in qualche modo preservato e trasmesso alle generazioni future.
In uno dei film che più amo Lo sguardo di Ulisse, il direttore della cinemateca di Sarajevo ha fatto di tutto per preservarne l’archivio. Questo monologo è l’ultima prova attoriale di Gian Maria Volonté: “Poi, poi è scoppiata la guerra e mi sono dedicato alla protezione della cinemateca, che ne resti la memoria, era tutta la mia vita. E adesso che senso potrebbe avere qualsiasi cosa, che senso può avere in mezzo a questo massacro?”. Il protagonista del film, il regista greco chiamato con la sola iniziale A., intraprende un viaggio nei Balcani alla ricerca di tre bobine cinematografiche dei fratelli Manakis, i pionieri del cinema che lo diffusero in quella regione agli inizi del Novecento. È proprio dal vecchio direttore che A. trova le tre preziose bobine e le salva. Dopo aver girato quella scena Volonté ebbe un attacco cardiaco e morì; il suo personaggio venne interpretato da Erland Josephson. Così Angelopoulos racconta dell’ultima volta che vide Volonté vivo: “L’ultima sera stavamo tornando a Florina passando da Skopie, Gianmaria era seduto da solo in fondo all’autobus, nell’ultima fila di sedili. Beveva e cantava, io penso che abbia cantato tutte le canzoni che conosceva, da “avanti popolo alla riscossa” a “bandiera rossa”, ho sentito tutte le canzoni che conoscevo della sinistra italiana… ma credo che ci fosse qualcosa che non era vera gioia, sembrava come un addio”. E addio fu, senza un saluto, come sta accadendo alle migliaia di nostri contemporanei in ogni angolo del mondo, come succedeva anche senza questa pandemia, senza che ci fossero molti scossoni nelle nostre vite comuni. Sono i grandi numeri a terrorizzarci, la loro eccezionalità e ripetitività. Lo sguardo di Ulisse racconta anche la dissoluzione dell’Europa dell’est, emblematica la scena del barcone che trasporta una statua coricata e spezzata di Lenin. Gli anni e i sogni spezzati di molteplici generazioni, perché la Storia si presenta con i conti in mano ed è cieca. Forse è proprio lo sguardo di Ulisse, del guerriero indomito, di colui che ritorna, è lo sguardo che dobbiamo risvegliare in noi, consapevoli che non torneremo alla stessa casa, che la sposa e il figlio sono cambiati così come il volto dell’eroe omerico. Solo il letto nuziale, intagliato in un ulivo è identico a quello che mani ben più giovani e forti avevano costruito.

Lo sguardo del ritorno, lo sguardo del dopo, dobbiamo iniziare a immaginarlo questo dopo e a essere pronti a fare bene quello che già sappiamo fare, con il cuore colmo di indulgenza e speranza, consapevoli di non essere padroni di niente ma solo custodi di tutto questo mondo che non ci appartiene. Neanche questo immenso silenzio è nostro, la città lo inghiottirà di nuovo. La vita riprenderà, come dipenderà anche da noi.

Angelopoulos finì di girare Lo sguardo di Ulisse senza Volonté. La musica struggente di Eleni Karaindrou culla tutte le scene salienti del film. Anche quando il regista arriva a Sarajevo immersa nella nebbia e incrocia dei giovani che recitano Romeo e Giulietta. Perché l’amore è la prima risposta e va mano nella mano con l’amicizia, con la compassione, la pietà e l’empatia.

Francesco, un mio amico di gioventù, strappato alla vita troppo presto, l’amico che mi ha ispirato il protagonista del mio primo romanzo Frammenti del tredicesimo mese, aveva incontrato in non so più quale isola delle Cicladi Eleni e lui, che in Grecia, ogni estate viaggiava con il suo sax tenore, aveva suonato con la musicista che era uno dei suoi miti viventi.

La forza del dopo sta nel raccontare ancora e ripetere le storie di chi è stato. Quando voglio ricordare Francesco lo faccio ascoltando Ian Garbarek e The Hilliard Ensemble nel primo brano di Officium. Ai tempi lo ascoltammo insieme decine di volte. Ma una volta in particolare, seduti a casa sua, le mani intrecciate, lo avevamo ascoltato ad occhi chiusi, senza bisogno di parlare.

Angelopoulos girò altri film dopo Lo sguardo di Ulisse e morì dopo essere stato investito da una moto mentre girava un film rimasto incompiuto L’altro mare, con un altro magnifico attore italiano, Toni Servillo. Nel 2018, durante gli incendi tragici, anche la cittadina di Mati venne colpita e la casa di famiglia del regista fu interamente distrutta dalle fiamme. Dello studio dove erano conservati libri, manoscritti, sceneggiature, scambi epistolari, non è rimasto nulla. Non ci sono parallelismi o insegnamenti morali da trarre, solo una concatenazione di eventi.

Il passato è una continua rielaborazione della memoria e delle evocazioni. 
Il futuro non è scritto, è l’unica strada che resta quando abbiamo deciso di non prendere le altre.

Oggi il futuro ha il colore delle foglie nuove sui rami, della neve che scende inaspettata, del congedo dall’inverno e da questo tempo malato.

mercoledì 25 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/17: convocare la notte, scrivere il buio


Questa è l’ora incerta che tra il giorno e la notte sta, quella in cui la luce tremolante del giorno si abbandona alle mani salde dell’oscurità e poi scompare. Qualche anno fa avevo preso l’abitudine di ascoltare The Köln Concert di Keit Jarrett sul confine dell’imbrunire e lo faccio anche oggi e guardo il mondo, non quello sotto i miei occhi, non quello di oggi e non quello di allora, ma un mondo immaginato o vissuto in un tempo ancor più lontano. Richiamo nel teatro della memoria i monaci dell’Abbazia cistercense di Heiligenkreuz, consacrata nel 1133, in processione per recarsi nel coro a recitare i vespri, vedo il cielo nell’Abbazia di Jumièges, ancora più antica perché risale al 654, e sento risuonare anche lì canti che non ho mai udito. Dietro la casa di mia nonna paterna in Calabria, quando il sole scendeva e noi bambini dovevamo rientrare in casa per cena, staccavo una fogliolina di menta selvatica dai cespugli e andavo dietro il fienile per guardare i colori del tramonto e immaginare le vite degli altri che abitavano nelle case in collina di cui vedevo accendersi le luci.

Le luci che si accendono, ce ne sono altre. A un paio di chilometri dalla casa dei miei genitori dove sono cresciuta, intravedevo una fila di palazzi abbastanza alti da dare l’illusione di essere lo skyline di New York. Ogni finestra che si illuminava era un frammento di quel desiderio di essere altrove, di viaggiare, di scoprire l’America che ho coltivato per molti anni prima di poter far coincidere le mie immaginazioni con i grattacieli reali della città che non dorme mai, accompagnata dalla musica jazz che ascoltavo ossessivamente in quegli anni.

Dalla cima della Torre Nord, dalle finestre del ristorante Windows on the World e poi dalla terrazza ho visto il mondo dalla sua più alta vetta e lo stesso giorno ho visto le tanto agognate luci di Manhattan accendersi dalla cima dell’Empire State Building, proprio dove finisce il film con Meg Ryan e Tom Hanks Insonnia d’amore.

Ora che ho dato l’addio a questo giorno di una fredda primavera che ignora come stiamo noi, ora che ho convocato la notte, posso compiere il rito inverso e chiudere le persiane, chiudere tutto il mondo fuori da me. Apro e chiudo la mano destra per salutare l’albero che vive e respira ridosso alle mie finestre, vorrei che bastasse un gesto solitario a confondere il tessuto del buio con il tremolio della prima luce che ho acceso nello studio. Conosco a memoria le copertine dei libri che amo e che si offrono al mio sguardo laterale. Non ho bisogno di più luce per muovermi a piccoli passi come se non conoscessi tutti i sentieri che attraversano queste stanze e si tuffano in un altrove che neanche i muri possono fermare.

La notte è fatta di piccole ombre che si stringono le une alle altre e ci danno l’impressione di essere un unico corpo. Bisogna fermarsi e in silenzio aspettare che un chiarore misterioso si insinui e ci mostri la loro vera consistenza. Una si posa sulla mia mano ancora aperta. È come avere una farfalla che si è posata sul fiore della mia sera e si fida, sa che non cercherò di afferrarla. Una a una sfilano le piccole ombre e si mescolano con le finestre illuminate.

Dall'altro della stanza si apre all'improvviso uno scorcio della prima volta che ho visto le Dolomiti, del Sass Pordoi deserto e ancora ricoperto di neve, poi del Monte Bianco che non mi parlava, del rifugio nei Pirenei francesi chiuso da decenni e tutto le Cirque de Gavarnie che ci teneva nelle sue braccia di pietra e offriva gli alberi maestosi e il cielo chiaro come dimora per una sosta. L’imbrunire ci inseguiva sulla via del ritorno ma non ci prese, così ritornammo con in dono un desiderio di altri cammini e valli. La cima del Mottarone ci regalò i sette laghi sottostanti, luminosi come frammenti di vetro nel sole, soprattutto il lago d’Orta che fu meta di numerose soste e vacanze negli a venire che ora sono anni andati nel nido del tempo che fu, dove ci sono gusci di uova infrante e qualche piuma, nient’altro.

Chiudo gli occhi e chiedo ai ricordi di fermarsi, non so quanti ce ne siano ancora, né quanti ritorneranno a farmi visita. Ora che la notte mi avvolge, posso prendere il mio quaderno, la solita penna e scrivere il buio, non come fosse inchiostro, ma assecondando la sua vera natura simile alla carta in alcuni momenti, simile alla pietra in altri. Prima dei miei strumenti umani devo piegarmi a quelli dell’immaginazione e incidere le parole in frasi nel vento e nelle nuvole che si immergono nelle profondità dell’occhio di questo Dio addormentato.

Io non pretendo di conoscerne il volto, non posso immaginarne il pensiero, mi sono ignote le sue intenzioni. Ma so, che una sera di molti anni fa, quando ambivo al monastero e alle luci di New York allo stesso tempo, dopo avere guardato le solite finestre serali, mi ero accucciata nell'angolo, sotto il tavolo del soggiorno, da cui guardavo la televisione e mi ero sentita piccola, molto piccola. Avevo pensato a quella stanza come all'occhio di Dio e tempo, molto tempo dopo, avevo scritto questi pochi versi: “La stanza era l’occhio di Dio / e noi non eravamo che / polvere in quell'occhio”.

Ma ora so che la polvere è frammento di ciò che è stato e molecola di ciò che sarà.

Per questo non ho paura e torno ad aprire la finestra per salutare il mio albero e le nuvole invisibili, il cielo addormentato, voi che mi leggete e capite, voi che siete con me in quella stanza sotto il tavolo e in questa stanza, seduti in terra, silenziosi, se alzate una mano potete sfiorare la mia.

venerdì 22 giugno 2012

Fidarsi della gioia

Il profumo dei gelsomini, un vento leggero, l'aroma del caffè appena fatto, le rondini che sfrecciano nel cielo, il terzo cd di Paolo Fresu della serie Cinquant'anni suonati e la Satira preventiva di Michele Serra con l'Espresso.
Fidarsi della gioia che aleggia nell'aria con questi profumi e la musica che risuona. Una lista di piccoli piaceri, questo accade di prima mattina oggi a Milano.