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mercoledì 1 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/115: La nostra vita reale è per più di tre quarti composta di immaginazione e di finzione


Sono sdraiata in riva al mare, guardo il mare, io sono il mare.

Di che colore è il mare? Rosso? Azzurro? Verde?

E il cielo? Se guardo a lungo il cielo inizio a galleggiare come una nuvola, mi condenso e poi esplodo e divento pioggia.

Sono una nuvola, piccola, bianca, leggera che guarda verso la terra e vede persone sdraiate sulla sabbia che la guardano.

Così, in un solo momento, la nuvola e la sacerdotessa sono un’unica cosa traslucente e noi intuiamo più che vedere, la grazia di ogni movimento.

Un raggio di sole attraversa le onde, si riflette sul fondo chiaro e ritorna verso di noi in forma di schiuma.

Cosa sarebbe la poesia senza l’esercizio continuo dei cinque sensi?

Anche se è la vista, cioè lo sguardo, il senso più coinvolto, la nostra idea del mondo e degli altri dipende dalla nostra percezione. Scrive Flannery O’ Connor:

“La natura della narrativa è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato percettivo. La conoscenza umana inizia attraverso i sensi, e lo scrittore di narrativa inizia laddove inizia la percezione umana. Agisce attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle astrazioni. Ai più riesce molto meglio enunciare un’idea astratta anziché descrivere quindi ricreare un oggetto che hanno davanti agli occhi. Ma il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia ed è proprio questo che gli scrittori principianti sono così restii a creare. Il loro interesse precipuo va a idee ed emozioni disincarnate”.

Ma cosa sono esperienza e materia?

Introduciamo nel nostro discorso alcune intuizioni del filosofo e ingegnere Riccardo Manzotti che sono eccentriche ed eterodosse rispetto al dibattito contemporaneo guidato dalle neuroscienze:


“Ogni cosa esiste relativamente a un’altra cosa.

Quando guardiamo e vediamo il mondo, che cosa è la cosa che è tutt’uno con la nostra esperienza? Se il mondo è fatto di cose, come appare se ci guardiamo attorno, anche la nostra esperienza deve essere una cosa, una cosa fisica. Ma quale? Questo fatto non dovrebbe sorprendere nessuno. Quando guardiamo il mondo non vediamo niente che non sia fisico. Ovunque non c’è altro che oggetti, eventi, corpi, processi e proprietà fisiche. La nostra esperienza cosciente deve essere a sua volta fisica.
(…)
Il ruolo del corpo è simile a quello di una diga.

Una diga non contiene l’acqua del lago (non è una vasca). Una diga non crea l’acqua. Una diga alta 1 Km nel deserto non formerebbe alcun lago. Ma una diga, nelle opportune condizioni (terreno, pioggia, fiumi, etc.) è una delle condizioni sufficienti a far sì che un lago si formi ed inizi ad esistere.

In modo analogo, il nostro corpo è una delle condizioni che permettono a un mondo di oggetti, situazioni, persone, eventi, momenti, di esistere. Questi momenti sono ciò che troviamo dentro la nostra mente, anzi sono la nostra mente.

Dentro la nostra mente non troviamo l’idea di una mela, o il ricordo di una mela, troviamo una mela. Nei nostri sogni non incontriamo l’immagine di una mela – come ci hanno spesso detto – troviamo una mela.

Il nostro corpo è la diga che tiene insieme quel lago che è il nostro mondo e che, per tanti motivi, abbiamo pensato fosse la nostra mente. La diga è la condizione che rende possibile l’esistenza di un lago, ma non crea l’acqua del lago. (…)

Siamo un corpo? No. Siamo dentro un corpo? No. Siamo nel mondo, siamo il mondo. Il corpo è solo una diga.

Ma pensiamoci un attimo. Se non vediamo le stelle, che cosa vediamo? La risposta della guida è qualcosa tipo “vediamo la luce che le stelle ci hanno mandato”. Ma se questo è vero, allora anche quando guardiamo il palazzo di fronte o persino la nostra mano, non vediamo altro che la luce che ci mandano. Ma sarebbe un po’ strano dire che non vediamo mai niente e solo luce.

Se vediamo una mela, allo stesso modo vediamo anche le stelle. Non può esserci una differenza tra i due casi.

E quindi? Quindi nel caso delle stelle deve esserci un errore di ragionamento. Ma quale?

L’errore consiste nel pensare che quello che vediamo debba essere contemporaneo (cioè accadere nello stesso istante di tempo) della nostra percezione.

Io vedo la mela

Io ho un’immagine della mela

Io sono la mela”.



Questo io-mela-mondo apre il dibattito sugli infiniti io-cose-mondo che interagiscono, si guardano, si amano, si combattono.

Cerchiamo altre voci, così recupero qualche citazione da Jonah Lehrer, brillante giornalista scientifico, caduto in disgrazia per essersi inventato un’intervista mai fatta a Bob Dylan.

La prima citazione riguarda il poeta Walt Whitman:

“Whitman elaborò la sua teoria dei sentimenti corporei indagando se stesso. Per lui Foglie d'erba non era che «un tentativo, dalla prima all'ultima riga, di trascrivere in assoluta libertà, pienamente, sinceramente, un Individuo, un essere umano (me stesso, nella seconda metà
del secolo decimonono, in America)». E così il poeta si trasformò in empirista, in cantore della propria stessa esperienza. Come scrisse nella prefazione a Foglie d'erba: «Voi mi starete al fianco e osserverete lo specchio insieme a me». Questo metodo portò Whitman a considerare anima e corpo come indissolubilmente «intrecciati». Fu il primo poeta a scrivere versi in cui la carne non fosse un'estranea. Piuttosto, in quella forma senza metrica, il paesaggio del suo corpo divenne l'ispirazione per la sua poesia. Ogni verso recava dolorosamente in sé le sollecitazioni dell'anatomia di Whitman, i suoi desideri e le sue simpatie inarticolate.
Non vergognandosi di nulla, non ometteva niente. «La vostra carne stessa», promise ai suoi lettori, «diverrà un grande poema». Le neuroscienze oggi sanno che la poesia di Whitman diceva il vero: le emozioni sono generate dal corpo. Per quanto effimeri possano sembrare, i nostri sentimenti sono radicati nei movimenti dei nostri muscoli e nelle palpitazioni delle nostre viscere. Di più, questi sentimenti materiali sono un elemento essenziale nell'elaborazione
del pensiero. Come nota il neuroscienziato Antonio Damasio: «La mente è incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello»”.


E già qui vediamo affermazioni antitetiche a quelle di Riccardo Manzotti.

Ancora Lehrer ci offre spunti interessanti per la nostra ricerca quando scrive di Cézanne:

“La psicologia continuava a considerare i nostri sensi un riflesso perfetto del mondo esterno. L'occhio era come una macchina fotografica: catturava i pixel di luce e li inviava passivamente al cervello. Il fondatore di questa psicologia era l'eminente sperimentalista William Wundt, per il quale ogni sensazione poteva essere scomposta nei suoi dati elementari. La scienza poteva togliere via uno dopo l'altro gli strati della coscienza e rivelare i veri stimoli che ne erano alla base. Cézanne capovolse quest'idea della visione. I suoi dipinti riguardavano la soggettività dello sguardo, l'illusione delle superfici. Cézanne inventò il postimpressionismo perché gli impressionisti non erano abbastanza strani. «Quel che sto cercando di tradurre», disse il pittore, «è più misterioso; è intrecciato alle profondità dell'essere». Monet, Renoir e Degas credevano che la vista fosse semplicemente la totalità della sua luce. Nei loro bei quadri volevano descrivere i fugaci fotoni assorbiti dall'occhio, descrivere la natura rifacendosi soltanto alla sua illuminazione. Cézanne invece pensava che la luce fosse solo l'inizio
della visione. «L'occhio non basta», disse, «bisogna anche pensare». La sua intuizione fu che le nostre impressioni esigono un'interpretazione; guardare significa creare ciò che vediamo. Oggi sappiamo che Cézanne aveva ragione. La nostra visione comincia con i fotoni, ma è solo l'inizio. Ogni volta che apriamo gli occhi, il cervello si impegna in un atto di immaginazione, perché trasforma i residui di luce in un mondo di forme e spazio che può essere capito. Rovistando nella scatola cranica, gli scienziati possono vedere come vengono create le nostre sensazioni, come le cellule della corteccia visiva costruiscono silenziosamente la vista. La realtà non è lì fuori in attesa di essere testimoniata; la realtà è creata dalla mente. L'arte di Cézanne svela il processo della visione. I suoi lavori vennero criticati perché inutilmente astratti - persino gli impressionisti schernirono la sua tecnica-, eppure ci mostrano il mondo così come
appare inizialmente al cervello. Un quadro di Cézanne non ha contorni o precise righe nere che separino una cosa dall'altra. Ci sono solo pennellate e punti in cui un colore, raggrumato in superficie, sembra trasmutare in un altro. È l'inizio della visione, è l'aspetto che la realtà ha prima di essere elaborata dal cervello. La luce non è ancora stata trasformata in forma.
Ma Cézanne non si fermò qui. Sarebbe stato troppo facile. Anche quando la sua arte celebra la propria stravaganza, resta fedele a ciò che raffigura. Per questo riusciamo sempre a riconoscere i soggetti dei suoi quadri. Siccome l'artista dà al cervello sufficienti informazioni,
gli osservatori sono in grado di decifrare i suoi dipinti e salvare l'immagine dal baratro dell'oscurità (le sue forme saranno anche fragili, ma non sono mai incoerenti). Quelle pennellate stratificate, tanto precise nella loro ambiguità, diventano una ciotola di pesche,
una montagna di granito o un autoritratto. Questo è il genio di Cézanne: ci costringe a guardare, su una stessa tela statica, l'inizio e la fine della nostra visione. Ciò che comincia
come un astratto mosaico di colori diventa una descrizione realistica. Il dipinto emerge non dal colore o dalla luce, ma da un qualche luogo dentro la nostra mente. Entriamo a far parte dell'opera d'arte: la sua stranezza è anche la nostra.”

(E a proposito dell’essere una mela: quando Cézanne non sapeva cosa dipingere, si chiudeva nel suo studio, metteva delle mele sul tavolo e le copiava.)

Ecco cosa mi incanta dell’arte in generale e della poesia in particolare: la sua “stranezza”.

Anche Siri Hustvedt, scrittrice, studiosa di neuroscienze e moglie dello scrittore Paul Auster sostiene che:

“La percezione non è mai passiva. Non ci limitiamo a ricevere il mondo, lo produciamo anche. C’è un che di allucinatorio in qualsiasi percezione, ed è facile creare illusioni”.



Ecco cosa mi incanta dell’arte in generale e della poesia in particolare: la sua “capacità di creare illusioni”.

Mentre l’orecchio è impegnato a cogliere la conversazione, l’occhio oscilla tra il paesaggio intorno e quello mentale, tra la lettura e la scrittura.

Potrebbe esistere la poesia senza lo sguardo? Senza la percezione del mondo?

Guardo i lupi che si rincorrono in riva al mare.

Guardo la sacerdotessa e il guerriero sapiente che scrutano l’orizzonte con un vecchio cannocchiale.

Il misterioso architetto arriva in spiaggia con il re e la regina, mentre il poeta esce dell’acqua come un dio greco e ci lascia ammutoliti.

Tra poco inizierà a scemare la luce, andremo ancora in veranda a preparare la tavola e l’occhio si abituerà pian piano alla luce tenue delle candele.

Inizia così luglio, con un temporale, una passeggiata, una conversazione appassionata, la ricerca di un senso al mondo che vediamo e a quello che immaginiamo.

È estate, è davvero estate.

Lo sanno anche il mare e le stelle che si accomodano nel fondo del tuo occhio e illuminano il tuo pensiero.






Il titolo di questa Cronaca 115 è una citazione da L’ombra e la grazia di Simone Weil.

Riccardo Manzotti è autore del notevole saggio che sto leggendo La mente allargata, il Saggiatore 2019. Le citazioni sono tratte dal suo blog.

La citazione di Flannery O’Connor è tratta da Nel territorio del diavolo, Theoria 1993 e minimum fax 2003.

La citazione di Siri Hustvedt è tratta da L'estate senza uomini, traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi 2012.

martedì 5 maggio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/58: lo spazio chiede silenzio mentre la luce ama le carenze

Il viaggio tra la casa affollata e la casa nella città silenziosa è molto breve. 

Mi basta uscire dalla porta che si affaccia sulle Nebbie e con pochi passi ritorno nella casa del mio hortus conclusus

Qui posso vedere se il gelsomino è entrato nella piena fioritura, se l’albero bellissimo si è riempito di foglie, se i libri si sono moltiplicati nei loro modi singolari di riprodursi e in effetti ne trovo sul tavolo della cucina più di quanti non ricordassi di averne lasciati.

La città è ancora molto silenziosa, tranne che per il suono delle sirene che fende l’aria fresca cui si appendono le nuvole.

Esco a passeggiare in compagnia di Siri Hustvedt:

“Le radici della quercia sporgevano dalla ripida scarpata alle spalle della nostra casa, e si attorcigliavano creando un seggio regale, dove una sovrana poteva sedersi e contemplare il suo regno e perdersi in fantasticherie lasciando che i suoi pensieri veleggiassero verso l’inesprimibile e il sacro, e a quel punto io non ero più «io» ma un essere disseminato nel fruscio delle fronde che si muovevano in alto e nell'umido odore del letto del torrente e nei rami fradici che si andavano disfacendo e nei punti in cui la luce del sole saltava fra le foglie di equiseto. Quell'essere trascendente aveva la testa leggera come un palloncino pieno d’elio e saliva su, su, su, fra nuvole costellate di scintille. Ma gli strani viaggi che facevo fuori di me erano un segreto. Li conservavo in una tasca speciale sotto le costole, una tasca che solo Dio e gli angeli potevano vedere”.

Non ho la quercia della mia infanzia da circumnavigare ma il mio albero bellissimo mi aspetta.

Lo accarezzo, appoggio la mano sulla mia impronta come faccio da più di trenta anni, non ho scavato io quella forma nella corteccia, era già lì e io ho solo dovuto appoggiare la mano e sentire l’energia vitale dell’albero che mi attraversava e scambiare con lui quelle mute riflessioni che negli anni ci hanno legato. Anche questo è un segreto che ho tenuto per me per così tanto tempo.

Chiedo all’albero se vuole venire con me sull'Altipiano della Luna, proprio a ridosso delle Montagne della Nebbia.

Ma l’albero scuote le fronde verdeggianti e mi dice che gli piace stare dov’è, a conversare con i gelsomini e con le rondini, a solleticare le nuvole più basse e a fare fronte contro il vento anziché assecondarlo. Le sue radici sono ormai arrivate alle due piazze su cui sbucano le vie ad angolo dove si erge la casa, sotto la superficie ha conosciuto molte creature e non si annoia mai. Così è la vita di un albero, sembra immobile ma è tutto un fervere di vita sopra e sotto e tutto intorno.

Anche le due antiche querce che si erigevano davanti al palazzo di uffici dove ho lavorato tantissimi anni avevano questa vita sotterranea:

Dall’occaso

Ho visto le due querce
dopo sedici anni, erano
lì anche allora, mattina
dopo mattina. Ma ieri
le ho viste la prima volta
mentre la nebbia mista a
buio calava su noi. Due
tronchi forti, lontani, più
scuri della notte, con i rami
tutti intrecciati. Sotto la terra
sentivo le radici stringersi
nell’abbraccio immortale di
chi ama senza essere visto.
Sopra il cielo le tue foglie
accarezzavano le mie.


Saluto l’acero riccio con un’altra carezza e mi incammino verso il giardino dove adesso si può entrare. I lupi mi hanno raggiunta e vogliono venire con me, accarezzo il lupo sul muso e subito la lupa mi sfiora con una zampa perché anche lei vuole sentire il tocco della mia mano e io l’accontento.

Il giardino è vuoto, niente bambini che corrono, niente anziani che prendono il sole a occhi chiusi. Ci fermiamo alla fontanella dove l’acqua scorre senza sosta. Qui a Milano le chiamano “vedovelle”, forse perché il flusso dell’acqua ricorda il pianto inconsolabile delle vedove, o “draghi verdi” perché l’acqua esce da una testa di drago.

La città è talmente vuota e frastornata per la lunga clausura che nessuno bada a me e ai lupi, forse i passanti credono che si tratti di cani e quindi neanche si fermano a guardare.

Torniamo a casa e i lupi mi aspettano in cortile, raccolgo qualche libro che ho promesso al poeta e alla sacerdotessa e poi ritorniamo nel giardino della casa affollata, il passaggio è semplice, bisogna attraversare il giardino della città silenziosa all'incrocio delle strade dove passavano gli operai.

I lupi se ne vanno di corsa a rotolarsi nei prati pieni di fiori, io guardo le montagne che sono verdi e blu di solito a quest’ora, mentre oggi a causa delle nuvole sono grigie e argento, così una poesia si presenta alla porta:


Cime grigie

A mano a mano che il giorno cala il paesaggio si
semplifica. Cancella alberi, scava ombre elementari, è
una terra più concisa.
La concisione è un grande pregio; ma dire meno,
meno ancora…
Lo spazio chiede silenzio. Tramonta. Guarda le
cime grigie, guarda le nubi che si disfano, gli strappi
scuri nella trama delle nuvole. Guarda la luce come li
riempie, come penetra nei vuoti…
La luce ama le carenze, i buchi neri che la attirano
nel buio.


È ora di rientrare, non so ancora chi troverò nella casa, anche se il messaggero ha annunciato che Giovanna d’Arco arriverà con il suo esercito e le visioni. Cosa ne penseranno, il re che aspetta la sua regina, il poeta e la sacerdotessa che parlano fitto fitto davanti al fuoco?

Nessuno si gira a salutarmi, non ce n’è bisogno, tutti conosciamo i respiri e i pensieri degli altri.

La casa siamo noi in questo tempo sospeso tra un mondo scomparso e l’altro non ancora nato.

Le poesie di oggi sono:
Dall’occaso
Elena Petrassi
Sillabario della Luce
Moretti&Vitali editore 2007


Cime grigie

Danilo Bramati
Il fiore dell'assenza
Atì editore 2016


Il brano di Siri Hustvedt è tratto da
Ricordi dal futuro
traduzione di Laura Noulian
Einaudi 2019

venerdì 20 marzo 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/12: la primavera, i draghi e le illusioni


Passeggiata o contemplazione? Dato che non possiamo uscire mi immagino a passeggio, mentre guardo i rami gonfi di gemme che si stagliano contro il cielo già chiaro. L’aria è fresca ma non gelida, visto che dirigo io la passeggiata includo molti passanti e anche qualche auto. Ai semafori c’è poca gente, ma non sono ancora le sette del mattino. Guardo tutti i cespugli in fiore nelle aiuole sui marciapiedi intorno a Piazza Sicilia, ma poi torno sui miei passi perché la mia strada preferita, per arrivare in Piazza del Duomo segue altre vie, letteralmente. Così percorro tutta Via Sacco sino in Piazza De Angeli e a destra giù per Via Marghera, una delle strade più deliziose di Milano, dove i vecchi palazzi regnano silenziosi. A metà si può deviare per Via Ravizza, proseguire fino in piazza Wagner o imboccare Corso Vercelli, attraversare Piazza Piemonte, salutare i due palazzi gemelli, i grattacieli di Milano come li chiamava l’architetto Mario Borgato che li aveva progettati, e sbucare in Piazzale Baracca. Andando sempre dritti, nelle belle giornate si vede anche la Madonnina seguendo questo itinerario. Se invece di prendere Corso Vercelli si arriva sino in Piazza Wagner è bene imboccare via Belfiore, breve ma altrettanto suggestiva come Via Marghera. Da Largo Cherubini si imbocca comunque Corso Vercelli, si attraversa Piazzale Baracca e giù per Corso Magenta dove ci sono le tracce di Leonardo, con Santa Maria delle Grazie e il Cenacolo e le Vigne, di fronte uno dei miei palazzi preferiti in assoluto. Proseguendo questo cammino vediamo anche il Bar Magenta che è sempre bellissimo, Palazzo Litta, la spettacolare chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore, dove tanti anni fa partecipai a una lettura di poesia, e giù ancora per Via Meravigli, sino in piazza Cordusio, una piccola deviazione a rivedere Piazza Mercanti e poi ecco il Duomo che non finisce mai di lasciarmi stupefatta. Questo tragitto si può fare anche con il tram 16 e guardare palazzi e passanti con più agio. Ma a passeggio è proprio bello, soprattutto se è primavera, soprattutto se siamo liberi di scegliere il nostro itinerario. Adesso che ho ripercorso in pochi minuti una strada ben più lunga mi consola aver rivisto con gli occhi della memoria un pezzo della mia città che amo. Magari ne farò altre di passeggiate immaginarie nei prossimi giorni, ho tutto quel che mi serve. Non voglio piangermi addosso, non voglio cedere alle più facili emozioni in questo primo giorno di primavera, non voglio. Penso alle donne e agli uomini che sono al lavoro per mantenere in piedi noi e il nostro Paese, penso a coloro che ci hanno lasciati senza un saluto, penso al dolore di familiari e amici, penso allo sgomento, penso alla paura. Mi commuovo per un nonnulla, piango sulle note di Fratelli d’Italia, piango quando ascolto Gabriele Romagnoli e quando leggo Michele Serra e Paolo Rumiz su Repubblica, Claudio Magris e anche i tanti contributi di gente comune che racconta la propria storia. Ora che ho finito la mia passeggiata immaginaria, posso accingermi alla passeggiata trionfale nella mia dimora, dove lo spazio è quel che è, posso zigzagare tra i mobili, a volte compierne il periplo quasi completo. Posso spolverare qualche altro libro, decidere se conservare una recensione ritagliata dal Corriere della Sera nel 1993. Se tengo il libro tengo la recensione. Stesso discorso per un’intervista di Franco Marcoaldi a Josif Brodskij del 14 ottobre 1993 intitolata “I draghi di Brodskij”, e un’altra intervista, apparsa sull’Unità del 22 marzo 2003, di Maria Serena Palieri a Paul Auster e intitolata “L’illusione di vivere”. Illusione e draghi sono ottimi temi per una poesia sulla primavera che arriva comunque, magari stasera la scrivo. Seduta sul divano osservo la libreria di fronte a me. Tutti i libri di Paul Auster e Siri Husvedt, sua moglie, se ne stanno affiancati ed eleganti nelle loro copertine Einaudi, poco distante c’è un intero ripiano dedicato a Rilke, giusto ieri ho ritrovato alcuni versi tratti dal “Libro d’ore” e che mi risuonano nella testa senza sosta:

Giro attorno a Dio, all’antica torre,
giro da millenni;
e ancora non so se sono un falco, una tempesta
o un grande canto.


E mi viene in mente una poesia scovata qualche anno fa in Rete e che dice quanto sia pericoloso il mondo in primavera:

Un poeta non deve in primavera
passare da solo per i parchi.

Sotto i rami si abbracciano le coppie
e l’erba è umida.

Non deve attraversare
da solo i parchi in primavera.

Ci sono nuvole lanceolate, voli, resti
di amore già usato in terra, e i lillà,
i lillà così dolci, come feriscono.

In primavera è pericoloso il mondo.

Juan Cobos Wilkins

Biografia impura

Un poeta no debe en primavera
cruzar solo la tarde de los parques.

Bajo las ramas se abrazan las parejas
y la yerba humedece.

No debe pasear
en primavera solo por los parques.

Hay nubes lanceoladas, vuelos, restos
de amor usado ya en la tierra, y las lilas,
tan suaves las lilas, cómo hieren.
En primavera es peligroso el mundo.


Per oggi basta, dalla fase immaginativa mi pongo in quella contemplativa. Chissà che un drago non venga a sedersi sul mio davanzale, chissà che la primavera non ci porti sollievo.

lunedì 6 gennaio 2020

Gli strani viaggi che facevo fuori di me

Le radici della quercia sporgevano dalla ripida scarpata alle spalle della nostra casa, e si attorcigliavano creando un seggio regale, dove una sovrana poteva sedersi e contemplare il suo regno e perdersi in fantasticherie lasciando che i suoi pensieri veleggiassero verso l’inesprimibile e il sacro, e a quel punto io non ero più «io» ma un essere disseminato nel fruscio delle fronde che si muovevano in alto e nell'umido odore del letto del torrente e nei rami fradici che si andavano disfacendo e nei punti in cui la luce del sole saltava fra le foglie di equiseto. Quell'essere trascendente aveva la testa leggera come un palloncino pieno d’elio e saliva su, su, su, fra nuvole costellate di scintille. Ma gli strani viaggi che facevo fuori di me erano un segreto. Li conservavo in una tasca speciale sotto le costole, una tasca che solo Dio e gli angeli potevano vedere.

Siri Hustvedt
Ricordi del futuro
traduzione di Laura Noulian
Einaudi 2019

giovedì 2 gennaio 2020

L'architettura della nostra memoria

Siamo tutti creature piene di desideri, desideri che sono rivolti anche all'indietro, non solo in avanti; grazie al moto retrogrado ricostruiamo la bizzarra, friabile architettura della nostra memoria creando strutture più vivibili.

Siri Hustvedt
Ricordi del futuro
traduzione di Laura Noulian
Einaudi 2019

martedì 31 dicembre 2019

La memoria a volte è un coltello

La memoria a volte è un coltello.

Siri Hustvedt
Ricordi del futuro
traduzione di Laura Noulian
Einaudi 2019

lunedì 30 dicembre 2019

Scrivere il diario, rileggere il diario

Qui sono libera di fare un balzo di decenni nel piccolo spazio bianco fra un paragrafo e l’altro o di attardarmi per pagine e pagine su un singolo momento luminoso nella mia vita o giocare con i tempi verbali che indicano ora il passato, ora il futuro. Sono libera di seguire il mio io precedente pur con qualche intervallo dal punto di osservazione del mio io successivo perché la persona anziana ha una prospettiva che la persona giovane non può avere. Incontro me stessa sulla pagina, dunque, sulle pagine che lei scrisse tanti anni fa e su quelle che sto scrivendo adesso. Una giovane donna è seduta nella Pasticceria Ungherese, fra Amsterdam Avenue e la Centoundicesima Strada Ovest, e alza gli occhi dal suo libro quando sente che la porta si apre e gli occhi le cadono su un’affascinante creatura sconosciuta che varca la soglia del locale. Suppongo che, maschio o femmina che fosse, se si fosse presa la briga di scrutare anche solo per un istante il viso di quella giovane donna, nella sua espressione avrebbe visto la speranza.

Siri Hustvedt
Ricordi del futuro
traduzione di Laura Noulian
Einaudi 2019

lunedì 2 settembre 2019

La fragilità del passato

Il passato è fragile, fragile come le ossa che diventano deboli con l’età, fragile come i fantasmi visti alle finestre o i sogni che si disfano appena ci svegliamo e si lasciano dietro solo una sensazione di disagio o di angoscia o, più raramente, una specie di inesplicabile appagamento.


Siri Hustvedt
Ricordi del futuro
traduzione di Laura Noulian
Einaudi 2019

mercoledì 15 gennaio 2014

Narrare è ricordare ciò che non è mai avvenuto

«Ovvio che non si può smet­tere di vivere e poi rico­min­ciare, ma credo che ci siano momenti in cui si ha biso­gno di riti­rarsi in se stessi. Sono momenti in cui non suc­cede quasi niente, tranne ricor­dare e imma­gi­nare. L’ estate senza uomini è quindi prima di tutto una rifles­sione sulla potenza sal­vi­fica dell’ immaginazione».

Ma i ricordi di Mia sono selet­tivi. Pensa al suo matri­mo­nio, a quando era bam­bina, ma non a quello che le è suc­cesso quando il marito se n’ è andato. Non mi piace ricor­dare quella pazza, dice Mia di se stessa, mi fa vergognare.

«Per un periodo sono stata volon­ta­ria in un ospe­dale psi­chia­trico. Facevo lezioni di scrit­tura ai pazienti. Ho capito lavo­rando con loro quanto può essere dolo­roso un crollo così vio­lento. Soprat­tutto per la sua inde­ci­fra­bi­lità. Chi era quell’alieno, quell’ altro da me che gri­dava, si dibat­teva o tre­mava? Come fac­cio a fare i conti con que­sta parte di me? Ricor­dare signi­fica anche saper dimen­ti­care. O rein­ven­tare. L’ arte delle nar­ra­zione può essere defi­nita come la capa­cità di ricor­dare quello che non è mai accaduto».

Per­ché si rac­conta una sto­ria anzi­ché un’altra?
« Que­sto è il tema cen­trale della nar­ra­tiva. Le sto­rie sono delle appa­ri­zioni. Si può scri­vere di qual­siasi cosa, si pos­sono scri­vere libri su sciami di zebre volanti che volano da un pia­neta all’altro. Ma quanto è urgente? I grandi scrit­tori rispon­dono sem­pre a un’ urgenza pro­fonda. La fabula, come i for­ma­li­sti russi chia­mano il nucleo del rac­conto, ciò che non muta. C’ è una sorta di “Ur-Narrazione”, che non chia­me­rei auto­bio­gra­fia in senso stretto, ma è una sto­ria di auto­bio­gra­fia emo­zio­nale. In que­sto caso avevo finito di scri­vere due romanzi il cui pro­ta­go­ni­sta era un uomo ( Quello che ho amato e Ele­gia per un ame­ri­cano ). Ero stata per dieci anni nella voce di un maschio. Volevo tor­nare a essere una donna. Non ci sarà nes­sun uomo in que­sta sto­ria, ho pen­sato. E mi è arri­vata que­sta voce, leg­gera, buffa. Non avevo mai scritto in maniera iro­nica, gio­cando coi doppi sensi».

L’estate senza uomini è infatti, para­dos­sal­mente, una com­me­dia. Mia non fa altro che pian­gere per tutto il libro ma non pensi mai a lei come a una che sof­fre sul serio.
«Per­ché si prende in giro. Non volevo scri­vere un dia­rio della dispe­ra­zione. Soprav­vi­vere e tor­nare a vivere, è di que­sto che volevo par­lare. Mia è una donna colta, che ha i mezzi per inter­pre­tare e anche supe­rare il dolore. Legge Lacan, Der­rida, stu­dia la lin­gui­stica e ha con­fi­denza con Merleau-Ponty, ma sa arren­dersi di fronte alla forza dell’ umano. E quando, all’incon­tro in cui le anziane signore ana­liz­zano Per­sua­sione di Jane Austen, viene messa di fronte al biso­gno del let­tore di una sem­plice iden­ti­fi­ca­zione col per­so­nag­gio, cede. Ed è quello che è capi­tato a me. Anch’io, adesso, sono molto più attratta dalla sem­pli­cità. In fondo se il let­tore non rie­sce a iden­ti­fi­carsi con i pro­ta­go­ni­sti, vuol dire sol­tanto che lo scrit­tore non ha fatto un buon lavoro».

Nei suoi libri l’arte e l’invi­si­bi­lità sono due temi fon­da­men­tali, e sem­brano l’ una lo spec­chio dell’ altra.
«È così. Moki, l’ amico imma­gi­na­rio di Flora, ma anche mister Nes­suno, 
l’ uomo che appare dal nulla, come mit­tente di stram­pa­late email. La mia agente mi aveva chie­sto di spie­gare, alla fine, chi dia­volo fosse mister Nes­suno. Ma io non ho voluto. Mister Nes­suno è una pro­ie­zione di Mia, che appare in rispo­sta alla sua soli­tu­dine. È una sorta di altro da lei, da lei stessa imma­gi­nato. Nello stesso modo l’ arte non è un vero altrove, ma un altrove imma­gi­na­rio. L’ invi­si­bile e l’ arte sono quello che manca. Qual­cuno diceva che le per­sone per le quali il mondo non è abba­stanza sono i filo­sofi, i poeti e i let­tori di romanzi».


frammento dell'intervista di Elena Stancanelli a Siri Hustvedt
Repubblica 9 giugno 2012

lunedì 25 giugno 2012

L'incantesimo sta nel sentire e nel narrare


A eccezione del pregiudizio, nelle arti non ci sono sentimenti banditi, e non c’è storia che non possa essere raccontata. L’incantesimo sta nel sentire e nel narrare, nient’altro.

Siri Hustvedt
L'estate senza uomini
traduzione di Gioia Guerzoni
Einaudi 2012

domenica 24 giugno 2012

La mutevole trama del ricordare e dell'immaginare


Trent’anni è tantissimo tempo, un tempo durante il quale un matrimonio mette radici, diventa quasi incestuoso, con i suoi complesso ritmi di sentimenti, dialoghi, associazioni. Eravamo arrivati al punto in cui ascoltare una storia o un aneddoto a una cena ci faceva formulare lo stesso identico pensiero, ed era solo questione di chi l’avrebbe articolato ad alta voce. Anche i nostri ricordi avevano cominciato a mescolarsi. Boris giurava e spergiurava di essere stato lui a trovare l’airone azzurro maggiore sulla soglia della casa che affittavamo nel Maine, e io ero altrettanto certa di essere stata io a vedere per prima l’enorme volatile. Non c’era risposta a quell’enigma, nessuna documentazione – solo la fragile, mutevole trama del ricordare e dell’immaginare. Uno dei due aveva sentito l’altro raccontare la storia, aveva visto nella propria mente l’incontro con l’airone, e aveva creato un ricordo dalle immagini mentali che avevano accompagnato la narrazione ascoltata.


Siri Hustvedt
L'estate senza uomini
traduzione di Gioia Guerzoni
Einaudi 2012

La percezione non è mai passiva


La percezione non è mai passiva. Non ci limitiamo a ricevere il mondo, lo produciamo anche. C’è un che di allucinatorio in qualsiasi percezione, ed è facile creare illusioni.

Siri Hustvedt
L'estate senza uomini
traduzione di Gioia Guerzoni
Einaudi 2012

Le biblioteche sono fabbriche di sogni erotici


Era cominciato tutto in biblioteca, con Kant. Le biblioteche sono fabbriche di sogni erotici. Li stimola il languore del corpo, che deve trovare una posizione comoda – gambe accavallate, gomito a cui appoggiarsi, schiena allungata – ma non deve andare da nessuna parte. Li stimola anche la lettura e il fatto di alzare lo sguardo da quello che si sta leggendo: la mente lascia il libro e vaga verso un polso o una coscia, reali o immaginari. Li stimola anche l’oscurità degli scaffali, perché dà l’idea di nascondere qualcosa. Li stimola l’odore della carta e delle rilegature, e probabilmente anche quello di colla vecchia. Kant non era difficile: La critica della ragion pratica era molto più della Ragion pura, ma avevo vent’anni, e la Pratica era già abbastanza difficile, e lui si era proteso verso di me per vedere cosa stavo leggendo…

Siri Hustvedt
L'estate senza uomini
traduzione di Gioia Guerzoni
Einaudi 2012

sabato 23 giugno 2012

Il rumore della pioggia d'estate

Quella notte mentre ero a letto, un temporale estivo si scatenò sulla città, con tuoni e lampi fragorosi come detonazioni, che rimbombavano sopra di me con un'eco continua. Subito dopo sentii il rumore della pioggia che cadeva fitta, rapida, e ricordai le raffiche violente della mia infanzia, ricordai di quando mi svegliavo al mattino e vedevo i rami caduti qua e là sulla strada. Ricordai l'immobilità incantata che si percepiva prima della bufera o del tornado, come se la terra stesse trattenendo il respiro, e la sinistra sfumatura verde che tingeva il cielo. Ricordai l'immensità del mondo.


Siri Hustvedt
L'estate senza uomini
traduzione di Gioia Guerzoni
Einaudi 2012