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mercoledì 22 dicembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/654. Fuggire nella notte che si accorcia, fuggire lontano dai fuochi

 



Storie dell’Avvento/15. Dopo la fanciulla è la sacerdotessa a indicare il cammino

 

Continuava a correre nel bosco senza sapere dove stesse andando, era buio e doveva stare lontana dai fuochi, se no l’avrebbero catturata. Correva come una cerbiatta braccata dai cacciatori, la sua stessa gente, quelli che l’avevano vista crescere e che una manciata di minuti prima erano pronti a sacrificare il suo cuore e la sua giovane vita per dissetare il suolo ricoperto di neve e il sole avvolto nella nebbia. Quando l’avevano scelta, cosa che sapeva sarebbe potuta accadere da anni, non aveva provato paura. Piuttosto un misto di curiosità e rassegnazione. Ma quando le avevano porto la ciotola con la bevanda allucinogena a base di funghi ed erbe che lei stessa sapeva raccogliere e preparare, la scagliò lontano da sé con un colpo di mano e si mise a correre come non aveva mai corso in vita sua. Aveva partecipato molte volte alla caccia, tutte le donne non sposate lo facevano, e sapeva riconoscere il respiro della preda braccata, il suo stesso respiro in quel frangente.

 

-     " Cerva, cerva della mia notte perché vuoi fuggire al tuo destino?

-      Chi mi chiama? Chi mi chiede conto della mia fuga e di questa corsa?

-      Cerva, cerva tu sei e nera, sorella della notte. Nessuna si ribella a questo destino. Nessuna se non una. Lei, quella che andrò a cercare notte dopo notte, prima di acconsentire al mio destino.

-      Non sapevo di avere gambe veloci e leggere, fuggo e penso alla stessa velocità. Ora ti ho riconosciuto mio signore. Tu sei il re cervo prima che il destino si compia. Ma la terra vuole anche il mio sangue prima del tuo, solo così la neve si scioglierà e il sole ritornerà, e il ghiaccio si creperà e scioglierà e noi sentiremo l’acqua cantare il canto misterioso della primavera.

-      Tu sei la prescelta, ma non per dare il sangue. Segui le tue gambe e arriva alla grotta d’oro, dove il sole risplende nel buio più profondo. Quella sarà la tua nuova dimora, i cacciatori non ti seguiranno sino a lì. Cerva, cerva della mia perfezione, tu sei la prescelta e io il tuo sposo divino. Amami prima che i fuochi si spengano e poi lascia che i lupi si possano cibare della mia carne e la terra bere il mio sangue. Io muoio nel dolore per poter risorgere. Non c’è nascita senza morte, il nuovo non può manifestarsi se il vecchio non gli cede il passo. Muore terrorizzato questo vecchio re, ma solo dopo che tu avrai lasciato andare la sua mano.

-      Tu sei il mio re e io la tua regina, il bambino divino, d’oro i riccioli e di cielo gli occhi, lo metteremo insieme nella culla. Ora vieni, mio sposo della notte. Amami sino a quando il lupo non ti chiamerà per nome".

 

Così aveva preso corpo una storia nuova, un miscuglio di leggende conosciute e di storie inventate. Parker decise che questa era una delle storie di Natale. Una delle tante, una delle prime. Ne avrebbe fatto un libro per il Natale dell’anno successivo, ne era certa. Ora doveva solo finire questa leggenda del re cervo e della sacerdotessa che sarebbe nata dalla morte della fanciulla.

 

Oggi è mercoledì 22 dicembre del secondo anno senza Carnevale, Milano è fredda e avvolta in una leggera coltre di nebbia. Le luci di Natale si moltiplicano alle finestre e ai balconi e sembra chiamino tutte queste storie, perché noi possiamo scriverle e leggerle. Questa Cronaca 654 lo sa, per questo gongola e si sente molto, molto importante.

martedì 21 dicembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/653. Nel giorno del solstizio d’inverno tornano a splendere i miti

 


Storie dell’Avvento/14. Il re cervo e i lupi

 

Fuori era ancora buio, la neve scendeva fitta, il silenzio era assoluto. Un sogno l’aveva svegliata, un sogno marino, una spiaggia di sabbia rosa in un piccola isola del Mediterraneo.

La stufa era ancora tiepida, accese le luci basse sulla cucina e alla scrivania, preparò il caffè e poi iniziò a scrivere e il mondo intorno non esisteva più. Di tanto in tanto si fermava, chiudeva gli occhi, faceva qualche esercizio per il collo, allargava le dita e le stirava. Scriveva veloce come una dattilografa e le prime cartelle del racconto di Natale erano pronte. Rimase con gli occhi chiusi ancora per un po’, ma poi li aprì di colpo, c’era qualcuno fuori dalla finestra. Il mattino era entrato nella sua fase finale, l’orso era passato a salutarla senza che lei se ne accorgesse, come sempre, le impronte erano ancora ben visibili sulla neve fresca. Ma non era la presenza dell’orso ad avere fatto scattare il suo sesto senso. Fuori dalla finestra c’era un maestoso cervo bianco che la stava fissando. La pelliccia si confondeva con il manto nevoso alle sue spalle. Aveva occhi colore dell’ambra e il palco delle corna indicava un’età ragguardevole per la sua specie. Guardandola negli occhi il cervo girò la testa verso destra con un piccolo movimento, come se la stesse invitando a uscire. Si allontanò di corsa e poi tornò, fermo nella stessa posizione e di nuovo le fece cenno di uscire. La scrittrice infilò in fretta pantaloni imbottiti, stivali, giacca a vento, cappello e occhiali da sole e si precipitò fuori. Il cervo bianco era alto almeno due metri, le corna svettavano verso il cielo e il loro profilo si confondeva con quello degli alberi spogli nella radura dietro la casa. Com’era la leggenda del re cervo e della cacciatrice vergine? Si mise a ridere e lo seguì senza chiedersi cosa stesse facendo. Non si allontanarono poi molto dalla casa, avevano costeggiato il lago fino al capanno del vecchio Lee che ormai non ci andava più da un sacco di anni. il cervo bramì e strofinò il muso nella neve. Aveva voglia di giocare e lei lo accontentò mettendosi a correre in direzione opposta a quella dove si trovava lui, che la inseguì. Quando lei si fermò di colpo, lui fece altrettanto e scartò per non andarle addosso. Fu allora che, dopo essersi inginocchiato nella neve, il re cervo si sollevò sulle due zampe posteriori e aveva perso le sue sembianze di cervo e solo il re era rimasto. Ricoperto da pelli di orso bianco e volpi artiche, aveva i capelli così biondi da essere quasi bianchi, sovrastati dallo stesso palco di corna del cervo maestoso. La guardò e sorrise, emise un lunghissimo ululato e dalla foresta arrivò correndo un branco di lupi guidato da un maschio alfa nero e bianco e con gli occhi rossi. Cosa diceva la leggenda del re cervo? Oggi era il giorno del solstizio d’inverno, di questo era sicura. Cosa sarebbe accaduto? Quello che accadeva sempre, il re si avventò sui lupi e li allontanò da lei. Il cervo si fece sbranare, la notte era scesa veloce e mille fuochi rischiaravano la neve. Nell’ombra di queste luci remote, il re e il cervo danzavano allo stesso passo, il rito era compiuto, la notte aveva divorato la maggior parte del tempo, la notte più lunga e una delle più sacre, si era stesa su tutto l’emisfero settentrionale. Parker, così amava chiamarsi tra sé e se stessa, tornò nella casa riscaldata e si sedette a scrivere nello stesso posto che aveva lasciato qualche ora prima. Quanto era stato veloce il tempo? Quanto il cervo? Quanto la luce? Quanto la sua creatività mentre scriveva? Il re cervo le aveva indicato che doveva scrivere un’altra storia, non quella che aveva iniziato quel mattino. Prese un foglio nuovo e iniziò a scrivere una diversa storia di Natale.

 

Oggi è martedì 21 dicembre del secondo anno senza Carnevale, giorno del solstizio d’inverno e dell’apparizione di un animale che appartiene al mito e alle leggende. Cosa trarrà da questa visione Parker, la nostra scrittrice e compagna di queste ore? Se lo chiede anche questa Cronaca 653 che siede impaziente sul bordo della sedia in attesa di ascoltare questa nuova storia.

giovedì 4 novembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/606. Il canto della foresta, dove il vento non ha voce noi l’udiamo

 


 

È l’albero piccolo a scegliere un Maestro tra gli alberi grandi, niente gli viene regalato. L’alberello riconosce la forma delle foglie e si tira e si tende verso l’albero maggiore e lo sfiora. Allora tutti i rami fremono, le radici si arricciano e le foglie chiamano il vento che accorre e inizia a insegnare all’albero piccolo il canto della specie, la giusta intonazione. L’alberello ripete con il vento, agita le foglie allo stesso ritmo, impara presto perché il canto scorre con la linfa e sbagliare è impossibile. Mano a mano che gli alberi giovani nascono e crescono intorno all’albero madre, ecco che il bosco, più piccolo e vicino a noi umani, ce ne sono diversi non lontano dalla Casa delle Parole, si infittisce e si regala radure solo per il piacere di vedere i raggi del sole cadere dritti sull’erba e i cespugli. Tutto pullula di vita sopra e sotto gli alberi e sotto la terra e nel cielo. Quanto più gli umani sono distanti, tanto più il bosco può a iniziare a espandersi oltre i confini che si era dato. Sale e striscia su verso la sommità della collina e non ci saranno padri e regole a fermare questa scalata, il mondo è immenso visto da lassù, le colline seguono altre colline, giù fino alla pianura e al mare da un lato. Mentre dall’altro salgono, dolci e impetuose su fino alle Montagne della Nebbia. Così il bosco è cresciuto e negli anni è diventato foresta, il luogo dove i misteri si infittiscono e dove i lupi regnano in tutte le stagioni.

 

 

La casa che era bosco, era linfa e foglia

 

Foglie, foglie sono il mio

tetto, l’acqua scorre nel

suo letto e si abbeverano

le creature che camminano

e strisciano, anche la pioggia

si ferma sulla soglia della

radura e leva lo sguardo oltre

gli alberi, oltre le colline,

cerca il mare questa pioggia

d’autunno, ma il mare non

risponde al suo richiamo,

neanche il vento ha voce,

possiamo solo restare tutti

zitti e sperare che questo

silenzio attiri i lupi e con

loro potremo trascorrere

la stagione bianca e grigia,

dormire sotto una coltre di

neve e sognare che l’autunno

non è mai arrivato, che noi

non siamo invecchiati di

un giorno, che corriamo ancora

nel bosco, da una radura a quella

dopo, come i cerbiatti e le poiane,

certi che ci sarà una risposta

proprio in fondo al sentiero.

 

Non solo sento la casa crescermi intorno, offrirmi riparo, sento i rami che stanno crescendo dalle mie braccia, sento le foglie dove c’erano le dita e le unghie. In quale mito sono rimasta se adesso non sono più una fanciulla ma un’antica quercia che i pellegrini si fermano a salutare a metà del loro cammino?

Oggi è giovedì 4 novembre del secondo anno senza Carnevale e questa Cronaca 606 ha proprio assunto la forma di quella quercia e della mia immaginazione.

giovedì 21 ottobre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/592. Sotto la grande quercia rossa non c’è una tavola rotonda

 


Sta proprio nel mezzo, maestoso e regale, proprio come si addice al re dell’Olimpo. Mentre Lunedì, Martedì e Mercoledì stanno alla sua sinistra, già seduti nel passato, Venerdì, Sabato e Domenica si aprono verso destra, verso il tempo che verrà. Giovedì, Giovedì che racconto mi porgi ora che stai finendo? Alla mensa della scuola elementare di giovedì c’era il menù peggiore, con il rollé di pollo in gelatina. Di giovedì la settimana ha già il suo peso, mentre il venerdì, la promessa del sabato si appropinqua. Quanti giovedì abbiamo vissuto sinora? Quanti ne vivremo ancora? Perché diamo così tanta importanza ai giorni della settimana? Forse perché ognuno porta nel nome il nome degli dèi e dei pianeti. Lunedì è la Luna, Martedì il dio della guerra Marte, Mercoledì è Mercurio il messaggero, Giovedì è Giove il padre di tutti gli dèì, Venerdì è il giorno di Venere, la dea della bellezza e dell’amore, ma per i Cristiani è il giorno della penitenza e della morte di Cristo. A Sabato, ma solo per i latini e greci, appartiene l’ombroso dio Saturno, e agli Ebrei il riposo, mentre è di Domenica, giorno del Sole e del Signore, che la luce torna a risplendere. Così viviamo, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, tutta la storia che ci ha preceduto, rivivono gli dèi dimenticati e quelli abbandonati. Ma tutti noi siamo conformati e abitati da questa sequenza del tempo, dalle leggende che contiene e con le quali potremmo intrecciare storie su storie. A me il giovedì evoca il Carnevale, dove lo si definisce “grasso” e forse perché è il pianeta più grande, non è difficile immaginarlo tondo e imponente che si ingozza di leccornie. Ma in questi tempi disincantati, dove niente delle forze numinose del passato funziona ancora, in questi tempi dove si continua a lavorare a casa per la maggior parte del tempo, il quarto giorno ha perso il suo splendore perché non annuncia più la fine della settimana. A Giove si consacrava la quercia e allora posso spostarmi io pure dal puro mondo dell’astrazione, da quel monte Olimpo, dove gli dèi vivono solo nel ricordo, per andare a ripararmi sotto la chioma maestosa della quercia più grande che abita nella città silenziosa, in piazza XXIV Maggio. È così pesante questa chioma che è stata puntellata e so che non dovrei stare qui sotto, perché è pericoloso e di sicuro a breve spunteranno i vigili e mi faranno minimo una ramanzina, se non una multa. Ma intanto che sono qui, tutti i rumori della città sono svaniti e sento gli uccellini che cantano sopra la mia testa, le foglie che hanno appena iniziato a ingiallire, le ghiande cadute a terra e qualche piccola quercia che è già spuntata a cercare la luce. Ogni quartiere di Milano ha almeno un albero simbolo e mi piacerebbe raccontare una storia, raccontarne la storia e fingere che anche i palazzi siano alberi e tutta la città solo un immenso bosco.

 

 

Nella foresta che non è Brocéliande

 

Se anche gli alberi sono

solo un’immaginazione,

non è bello credere che

l’antica foresta sia ancora

tutta qui? Possiamo sostare,

evocare le fate e i folletti,

anche se questa non è

Brocéliande la mitica e

non c’è un signore che

torna verso il suo castello

dove una regina fedele dorme

ancora, dove una tavola rotonda

è solo un desco e non ci sono

cavalieri e armature splendenti,

ma solo questa città vuota che

ha dimenticato le sue leggende

e le storie d’amore.

 

 

Anche oggi, giovedì 21 ottobre del secondo anno senza Carnevale, il giorno è finito e questa Cronaca 592 ha lucidato la tavola rotonda e spera che qualche cavaliere, almeno quel cavaliere, torni a sedersi per raccontarle una storia.

sabato 16 ottobre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/587. Il segreto della scrittura: respirare il fiore e mordere il frutto nello stesso momento

 



Quanti anni sono passati da quando ho ricevuto la tua lettera? Se non lo sapessi potrei indagare, decifrare il timbro postale sbiadito e vedere l’anno che è sempre lo stesso da diversi decenni ormai. Posso immaginarti mentre camminavi lungo la strada in discesa che portava al lago, in una chiara mattina di ottobre, proprio come questa. La busta è pesante perché hai scritto parecchi fogli, sono sempre sette anche se li conto a ogni anniversario, come se avessi paura di avere inventato parte della tua lettera o di avere mancato la lettura delle pagine in mezzo. Perché l’inizio e la fine mi sono noti, li conosco a memoria, li potrei scrivere identici ogni giorno. Ma non ho voluto imparare tutte le tue frasi, per poter pensare di non avere colto il senso di tutto quello che mi hai scritto e dirmi “Ecco, non avevo capito, quando avrà finito il viaggio, tornerà”. Ma sono passati gli anni, così come passa il tempo, così come passa ogni istante di cui non sappiano nulla mentre lo viviamo e ancor meno sapremo quando sarà declinato nel nostro passato. Perché la vita è tutta qui, una teoria di frammenti luminosi che vive attraverso di noi e ci oltrepassa, diventa istante, si muove verso la coda delle comete, svanisce. Ma davvero siamo esistiti? Davvero abbiamo vissuto?

Nella scatola dove conservo la tua lettera ci sono anche tre libri: Le briciole filosofiche di Søren Kierkegaard, Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud, il primo volume del Diario di Anaïs Nin. Sono i tre libri che stavamo leggendo quando ci siamo conosciuti, mi hai affidato i tuoi dicendomi di conservarli per il tuo ritorno e ora le pagine sono ingiallite e nessuno, nessuno al mondo legge più Artaud e la Nin, forse qualche studente di filosofia Kierkegaard, ma che importanza ha? Ci sono anche le nostre fotografie, i volti splendenti di due ventenni pronti a divorare il mondo, pronti a farsi divorare. Certo che siamo riusciti a portare avanti i nostri progetti, il mondo è stato gentile con noi. Anche se non ci siamo più visti so che sei diventato un uomo famoso, che hai avuto dei figli e una moglie soltanto. Ti avevo promesso che avrei scritto dei libri e l’ho fatto, ti avevo promesso che non avrei mai scritto la tua storia, ma come posso non scriverla ora che il tempo mi ha presentato un nuovo conto? Se non la scriverò io quella storia chi mai potrebbe scriverla? So che ti riconoscerai nel libro perché dirò la verità, tutta la verità che le parole mi lasceranno dire e la finta verità che la letteratura concede ai suoi folli seguaci. So che non vivi più nel piccolo appartamento, nel palazzo dove vivevano tutti quelli che non avevano un luogo. Solo il tuo volto aveva la tenerezza di una mano, solo nella tua casa l’inverno aveva il passo gentile della primavera e mi accoglieva come se fossi un frutto maturo, il melograno riportato dall’Ade che avresti tenuto sul tuo tavolo stagione dopo stagione. I libri che mi dicevi di voler scrivere sono rimasti tutti nelle matite che non hai usato, forse perché sono nella scatola insieme al tuo quaderno dei racconti. Così ora potrò rileggerlo e scrivere quelle storie che tu mi hai lasciato come pegno d’amore.

 

 

Quando la stagione è tutte le stagioni

 

Se l’amore è una promessa

dimenticata, allora sarà solo

il frutto rosso e spezzato che

potrà ricordarti che non hai

mantenuto nessuna delle tue

promesse e che io sola sono

stata la muta vestale di questa

storia. Ma Persefone ritorna

sulla terra per metà dell’anno,

pensa cosa accadrà quando

le stagioni mancate saranno

una sola stagione? La stagione

che sta per accadere? Sul

tavolo avremo il frutto e i suoi

fiori rossi appena sbocciati.

È questo il segreto della scrittura:

respirare il fiore e mordere il frutto,

nello stesso momento.

 

 

 

Il tuo quaderno ha la copertina d’argento, gli incipit delle tue storie, gli spunti ora sono tutti miei. Non ci sono storie complete, ma solo immagini e le tue parole saranno la chiave per entrare nelle case della mia immaginazione dove forse ti ritroverò intero e intatto, forse perché sei stato tu, anno dopo anno, a tornare sulla terra, mentre nel cuore della pietra e della lava io ho lavorato con la forgia e con la mia penna, zoppicando e sudando, sempre da sola, così come accade a chi ha scelto questo vita, a chi è stato scelto dalle molte parole che cercavano dimora.

Oggi è sabato 16 ottobre del secondo anno senza Carnevale e questa mitologica Cronaca 587 continua a sfogliare quel quaderno dalla copertina d’argento e mi sussurra “Scrivi, scrivi ancora, scrivi queste storie e voltati indietro. Solo nella perdita nasce la poesia e il poeta è sempre colui che si è voltato”.

sabato 3 aprile 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/391. In silenzio camminare nell’ombra delle cose

 


È un tempo sospeso questo del Sabato Santo, sappiamo che tutto è già accaduto, aspettiamo che il nuovo accada, che l’inaudito trovi voce, che una storia nuova venga scritta.

In quella terra oscura che è il regno della morte, entriamo ancora interi, non sappiamo come ne usciremo, né quando. Cosa ha provato Kore quando è rimasta accanto al suo sposo infero? Ma cosa accadrebbe se Kore fuggisse, se non rispettasse il patto, se non mangiasse i chicchi di melograno? Ade sarebbe costretto a uscire per cercarla e l’ordine costituito delle cose ne verrebbe sovvertito.

 

 

A Kore che cammina sola

 

Il vecchio è troppo vecchio per

correre a cercarla, ma deve

farlo pena l’ira dei suoi pari,

la vergogna di se stesso giocato

dall’innocente ragazzina che per

millenni aveva rispettato regole

che non aveva scelto. Se ne va

per la terra la fanciulla divina e

non sta sfuggendo solo al troppo

vecchio marito, è alla madre che

vuole sfuggire, non le importa

essere una dea, vuole soltanto

sparire, essere lasciata in pace.

Cosa farà Demetra? Cosa dirà

Ade? Lei è svanita sull’orlo di

una vallata, cerca la terra tiepida

e ubertosa, cerca il mare calmo

dei sogni adolescenti. Troppa madre,

troppo marito, come sarà essere

la fanciulla e basta, lontana dai

cori che la richiamano al dovere,

lontana dalle lacrime materne che

la ricattano? Non lo sa Kore, non

ancora, seguiamola nel suo

cammino, tornata dal regno

delle ombre di cos’altro potrebbe

avere paura?

 

 

In una crasi dell’immaginazione, vedo Kore sfiorare il Cristo morto, appena arrivato. Lei cammina nel silenzio, attraversa l’ombra delle cose, lui tace perché i morti non hanno voce, ma solo sogni e qualche rimpianto, molta nostalgia. Si può sfuggire al destino che altri hanno disegnato per noi? Kore alla madre e Cristo al padre? Si può? È accaduto? No, forse potrebbe accadere, se Kore restasse sempre sulla terra, libera di vagare, se Cristo rifiutasse di muovere la pietra del sepolcro e accettasse che non c’è ritorno per lui. Ora che Ade è sulla terra a cercare la sua sposa, la terra delle ombre sta cercando un nuovo sovrano.

 

Questo Sabato Santo, e un po’ blasfemo, perché ho mescolato simboli religiosi e mitologici, cammina lento verso il tramonto. Un’ora di luce ancora ci accoglie e noi l’accettiamo. Per questo riesco ancora a intravedere Kore che cammina nel bosco, sola, e il Cristo che si è risvegliato anzitempo, ancora incerto sul da fare.

Oggi è il 3 aprile del secondo anno senza Carnevale e non mi faccio domande, accolgo le immagini come arrivano e le restituisco in parole, come posso, con la poesia.

lunedì 29 marzo 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/386. Dopo la primavera aspettiamo la seconda primavera, una nuova fioritura

 



Nella penombra la stanza potrebbe essere un giardino, gli scuri lasciano filtrare la luce dorata del mattino, pochi i rumori in strada, per questo sento il canto degli uccellini, ma non quello delle rondini.

Aspetto con più impazienza la primavera ogni anno che passa, forse perché so che sono sempre meno quelle a cui potrò assistere, un pensiero fugace ma presente, non doloroso, perché è una pura constatazione.

Quello che a ogni stagione appena iniziata, tra marzo e aprile, mi fa disperare ogni volta, sono i cambi repentini di tempo, per cui a giornate tiepide e deliziose, punteggiate dai fiori neonati e dai germogli, seguono acquazzoni, tempeste di vento e il risultato è sempre lo stesso: pozzanghere che riflettono il cielo color antracite e i petali strappati che galleggiano nell’acqua e sono riflesso delle speranze cadute una dopo l’altra.

Contemplare la natura è una delle più grandi consolazioni di quest’epoca di pandemia e mi ritrovo a raccogliere foglie e sassi come ho iniziato a fare da bambina, prima ancora di saper leggere e scrivere.

Forse la prima lingua che abbiamo imparato è proprio quella degli alberi e dei rami, del loro netto stagliarsi contro la volta chiara del cielo, dipinti su una carta di riso sottile con pennelli giapponesi, dalla mano invisibile che colora a ogni risveglio il mondo, prima che noi apriamo gli occhi.

La lingua della pioggia è più complicata, perché ha varianti e dialetti che dipendono dall’intreccio con le nuvole, figlie capricciose del vento e del cielo, figlie di due padri celesti e di una madre terra che parla, invece, la lingua scura del fango e del fuoco e svela la sua gemella silenziosa che lavora all’ombra del vulcano sepolto.

Questa mitologia ctonia nasceva nel mio teatro mentale mescolata agli antichi miti greci, la cui narrazione paterna ha accompagnato la mia infanzia.

 

 

Persefone non era figlia unica

 

Gira, sorella il foglio che

hai in mano, lascia che io

guardi il mondo di sopra,

lo sa nostra madre che sono

ancora prigioniera? Che Ade

scherza quando lascia che

tu vada? Ma come potrebbe

lei, la madre, conoscermi

quando sono stata strappata

al suo grembo e condotta

dal vecchio fabbro nel silenzio

delle ancelle e nella rabbia

del re? Lei non ricorda che

siamo due perché non lo ha

mai saputo, non conosce

il patto scellerato che l’ha

orbata di entrambe le figlie.

E ora il re non può rivelare,

pena nuove carestie e siccità,

alla sua amante che il suo

grembo fu fertile due volte,

ma il re degli Inferi ancora

più astuto di tutti gli dei.

Io aspetto solo che tu mi

raggiunga nella stagione

scura, ma se non arrivi

presto, sorella, io fuggirò

e non so cosa accadrà

dopo. Se sarà la primavera

a fiorire due volte, o l’autunno

ancora più gonfio di acque

morte e foglie ingiallite, a

costringere il mondo nei suoi

colori del tempo che è stato.

Ecco che sei partita, principessa

dei germogli, regina di tutte

le rose. Ti seguirò questa volta

perché i tempi hanno bisogno

di una doppia speranza e della

seconda fioritura, gemella di

quella che abbiamo appena

veduto.

 

Così abbiamo scoperto perché la primavera di quest’anno è doppia, doppia la fioritura, doppia la speranza. E anche in cielo pare che siano due gli astri che splendono e i mari si acquietano, accolgono la luna e cullano la luce orfana delle stelle e noi siamo vicini a questa seconda nascita, a questa primavera inarrestabile e invincibile come l’estate che ci portiamo dentro.

Oggi è un lunedì mitologico, il 29 marzo del secondo anno senza Carnevale dove ho conosciuto la gemella di Persefone ma non ho ancora scoperto il suo vero nome. Questa Cronaca 386 è madrina delle gemelle di Demetra, ancora non so quali saranno gli effetti della doppia primavera, forse la pandemia sta scomparendo, forse il virus si sarà stancato e scomparirà, forse domani usciremo e l’aria avrà di nuovo il suo profumo.

giovedì 7 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/305: ancora non parliamo la lingua dell’anno nuovo


 


Nelle lunghe passeggiate solitarie che mi portano a cercare il conforto dei ricordi da apporre a questo confuso presente, mi vengono sempre più spesso in mente alcuni personaggi, poetici, letterari e biblici che sono venuti meno a un patto, che hanno compiuto un gesto che gli era stato proibito e al prezzo che hanno dovuto pagare.

Si muovono nel Teatro del Mondo tre poeti: Orfeo, Rilke e Montale.

Orfeo piange e canta la sposa perduta Euridice, scende nell’Ade a cercarla e ottiene di poterla portare con sé alla luce purché non si volti mai a guardarla. Durante la risalita teme di stare tenendo per mano un’ombra e si volta, così, nel momento stesso in cui vede la propria sposa, la “Tanto Amata”, la perde per sempre, lei ridiventa un’ombra e torna nell’Ade. Orfeo, inconsolabile, continuerà a piangerla e cantarla, a cantare il loro amore e a scolpire le radici della poesia orfica e neo-orfica che tanto amo.

Rilke canta le figure dei due sposi e il loro amore immortale nei Sonetti a Orfeo, dove la poesia è canto dell’assenza che ne è condizione fondamentale.

Cantiamo ciò che abbiamo perduto o ciò che desideriamo, perché noi umani amiamo struggerci nel desiderio e nella nostalgia.

È poi Montale, che se ne va tra gli uomini che non si voltano, lui il poeta che si è voltato e ha visto il nulla alle sue spalle; perché il passato è abitato solo da ombre e non basta l’amore a sovvertire l’ordine del tempo.

 

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
 

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

 

L’ultimo “voltarsi indietro” di queste brevi riflessioni è quello di una donna, Ado la moglie di Lot raccontata nel versetto 26 del diciannovesimo capitolo della Genesi: “La moglie di Lot si volse a guardare indietro e diventò una statua di sale”. Voltarsi a rimpiangere il passato ci costringe in una forma immutabile, il sale è simbolo di conoscenza e condivisione, di ricchezza, ma anche di un tempo bloccato che ci governa.

 

Qualche anno fa ho scritto questa poesia dedicata a questo gesto così carico di simboli e valenze:

 

Voltarsi nell’aria di vetro

 

Non ho bisogno di voltarmi indietro

né di quella fresca aria di vetro

che scontorna le mie immaginazioni

per vedere l’albero che diventa

il nulla e la strada farsi

vuoto anziché sostegno ai miei

passi. Non ho bisogno di farlo

ancora perché già troppe volte

mi sono girata e adesso ho

imparato che solo la parola

tiene il mio passo e non ho

bisogno, non più, di guardare

dove va perché abito a ogni

ora il regno della mia immaginazione

e trasformo la foglia caduta

in un fiore appena sbocciato,

la pioggia lieve di questo autunno,

nel sole fendente di un’estate

che mai più sarà. Tengo gli

occhi chiusi e solo la tua voce

conosce la strada per varcare

il mio cancello.

 

 

Ora il regno della mia immaginazione vive nell’inverno più profondo di quest’anno appena iniziato e di cui, ancora, non conosciamo la lingua.

Per impararla dovremo continuare a interrogare le nuvole e il cielo, gli alberi spogli, le assenze e le nostalgie, pronti a voltarci per cercare ancora con lo sguardo ciò che abbiamo perduto e subito tornare a guardare avanti per non smarrire la strada.

Tra questi due movimenti oscillatori sta il poeta e scrive, prendendo per la coda la scia luminosa della poesia.

 

Questa è la Cronaca 305 dagli anni senza Carnevale e oggi è giovedì 7 gennaio. La poesia di
Eugenio Montale
è tratta dalla raccolta Ossi di seppia. La mia poesia Voltarsi nell’aria di vetro è tratta dalla raccolta Scrivere il vento, Atì editore 2016.

lunedì 2 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/239: dove una torre e un falco diventano preghiera

 


In questi giorni di attesa e inquietudine continuano a risuonarmi in testa questi versi di Rilke:

 

Giro attorno a Dio, all’antica torre,

giro da millenni;

e ancora non so se sono un falco, una tempesta

o un grande canto.

 

Così ho scritto questa risposta che risuona non solo di Rilke ma anche di Etty Hillesum e anche dei miei sentimenti. Quando la vita ci mette di fronte alle prove più dure, quando perdiamo uno dei nostri cari, quando siamo separati da chi amiamo a causa di quanto sta accadendo, dal nuovo lockdown incombente, il trascendente, per quanto la nostra società secolarizzata e in gran parte laica, lo respinga, torna a visitarci e ci chiede conto.


 

Preghiera della torre e del falco

 

Entro nella torre anziché girarci

intorno e il falco mi agita il petto,

la tempesta è nei miei pensieri e

il canto si leva alto dove la mia

voce non arriva, perché la torre

sono io e Dio mi guarda dall’altro

lato del tempo che non passa e

che non arriva. Gli chiedo tregua

ma non risponde, gira il volto

verso il falco e insieme prendono

il volo. A me restano torre e

tempesta che cantano per dire a

Dio di tornare su queste rive che

ha abbandonato. Giro da millenni

attorno a questa torre e il solco

dei miei passi è la mia muta

preghiera. Tornerà Dio alle nostre

rive se lo avremo perdonato.

 

Ho scritto questa poesia ieri sera molto tardi, prima di andare a dormire, mentre la città silenziosa sprofondava nel sonno e nella nebbia.

Poi questa mattina molto presto, era ancora buio fuori, ho letto sulla pagina Facebook del teologo e scrittore Vito Mancuso queste sue parole:

«Io non ho mai perso la fede in Dio, ho modificato la mia fede nella trascendenza ritenendo che la visione cristiana avesse incongruenze che ho fatto emergere nei miei libri, e adesso per onestà intellettuale non mi definisco più cristiano ma post cristiano; il cristianesimo è parte di me ma non è più la meta, è una strada verso il Dio ignoto, la trascendenza».

Ecco, queste parole mi interrogano, non mi danno risposte, ma solo nuove domande. La nostra società laica non ha trovato risposte efficaci, consolatorie al nostro bisogno di pensare che non siamo finiti dopo questo breve passaggio nella dimensione che chiamiamo realtà.

Ho poi letto su Repubblica due interviste a “grandi vecchi” della nostra cultura. La prima alla sociologa Chiara Saraceno, 79 anni, che si dice favorevole a un lockdown mirato per gli ultra-settantenni: «I nostri figli e nipoti hanno già pagato un prezzo fin troppo alto per questa pandemia. Nella primavera scorsa sono stati chiusi in casa, hanno fatto lezione a distanza, hanno rinunciato alla socialità per proteggere noi, gli anziani. Adesso basta. È la mia generazione che deve fare un passo indietro. Possiamo limitare la nostra libertà, se questo vuol dire lasciare le scuole aperte e permettere ai bambini e ai ragazzi di vivere la loro giovinezza».

La seconda intervista è al critico letterario e storico della letteratura Alberto Asor Rosa, 87 anni, che dice: «Costringere un vecchio dentro le mura di casa è un modo per anticiparne la morte. In fondo ti viene imposto quello che ti accadrà quando uscirai letteralmente di scena: l’allontanamento dal resto del mondo».

Entrambi i pensatori ben argomentano le loro affermazioni ma non sciolgono i dubbi collettivi che ci attanagliano.

Alla fine, le domande che dobbiamo porci sono in fondo sempre le stesse: “Come mi sentirei io se avessi 20 anni? Come mi sentirei se ne avessi 80?”

Siamo in grado singolarmente e collettivamente di continuare a reggere il peso di Anchise sulle nostre povere spalle? Enea non dovette salvare la madre che era la dea Afrodite, ma non abbandonò a morte certa il proprio padre.

Come possiamo salvaguardare i nostri anziani senza mettere in ginocchio la nostra società? E non è forse questo dilemma che ci suggerisce che nella nostra vita reale e simbolica c’è una distonia tale, una contraddizione, una non sostenibilità che ci costringe oggi a interrogarci senza timore di guardare ciò che siamo, di avere il coraggio di amare la fragilità dei bambini e degli anziani, specchio di ciò che siamo stati, e questo è certo, e di ciò che saremo, se saremo fortunati.

Forse bisognerà iniziare a ripensare alla nostra civiltà a partire dal piano mitologico e psicologico.

Forse il Sessantotto è davvero stato il momento in cui l’orda dei fratelli ha simbolicamente ucciso il padre – vedi Totem e tabù di Freud – e ne ha preso il posto sino ad oggi.

Oggi tutti quei fratelli sono invecchiati, i baby-boomers hanno tra i 74 e i 56 anni, la vecchiaia incombe e non c’è nessun mito ad accogliere quest’orda di gente di mezza età e anziana che si ribella al destino biologico di ogni essere vivente.

In questa mancanza di un mito per l’orda primordiale che è invecchiata, manca, vistosamente, anche un riferimento al destino delle donne di questa generazione.

Anche noi preda dell’illusione di un’eterna adolescenza, anche noi fatichiamo nell’impresa di invecchiare con grazia? Dalla quantità di ritocchini e chirurgie plastiche pare proprio di sì. Se la vecchiaia è negata come possiamo rispecchiarci in uno specchio opaco se non addirittura vuoto? Di cosa abbiamo bisogno per guardare la vecchiaia, la nostra Medusa, in faccia senza diventare di pietra?

Così oggi, anziché iniziare la mia poesia dei doni, ho scritto una lunga serie di interrogativi che mi portano a studiare e a riflettere, qui alla mia scrivania, mentre la notte è già scesa e l’incertezza è il suo mantello. Questa Cronaca 239 è figlia di inquietudine e incertezza, due nomi per lunedì 2 novembre dell’anno senza Carnevale. I versi di Rilke sono tratti dal Libro d’ore. La mia poesia Preghiera della torre e del falco è inedita e sbarca nel mondo insieme alla torre che ha aperto la sua porta per me.


 


domenica 5 luglio 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/119: avremo scritto il nostro sogno, avremo sognato il nostro scrivere


Viviamo di impressioni e ricordi, ricordiamo quel che ci ha impressionato, così la vita è la trama quotidiana degli istanti vissuti, di quelli ricordati, di quelli immaginati. Questa tessitura non è fine a se stessa perché fino a che le immagini, tutte le immagini, non entrano nell'arazzo di cui le parole sono ordito, non abbiamo un quadro coerente che dia senso al nostro vissuto.

Conveniamo su questo sistema che dà forma e senso al mondo e ciascuno porta un frammento, una citazione, una poesia che possano rendere memorabile la nostra domenica d’estate. Il mattino è passato tra passeggiate, corse in riva al mare, nuotate e giochi con la palla, dove i bambini che siamo stati hanno preso il sopravvento e, liberi, hanno giocato.
Ora che è pomeriggio, la brezza marina ha cullato la nostra siesta e reso dolce il risveglio. Sulla tavola in veranda brocche di acqua fresca con limone e menta, ciotole piene di ghiaccio su cui riposano ciotole più piccole colme di cubetti di melone, anguria, pesca e fragole. Le albicocche e le ciliegie sono scampate alle manie geometriche della regina e tutto l’insieme dei colori, i rossi, i gialli, gli arancioni, rendono giustizia all’estate e al sistema solare nel quale rotoliamo, grati delle stagioni, di questa stagione, soprattutto.

La prima lettura è un frammento di Albert Camus:


“Fiotti di sole caduti dal sommo del cielo rimbalzano brutalmente sulla campagna intorno a noi. Tutto tace davanti a questo tumulto e il Lubéron, laggiù, è soltanto un enorme blocco di silenzio che io ascolto senza tregua. Tendo l'orecchio, di lontano corrono verso di me, mi chiamano invisibili amici, la mia gioia aumenta, la stessa di molti anni fa. Un felice enigma mi aiuta di nuovo a capire tutto. Dove sta l'assurdità del mondo? È questo splendore o il ricordo della sua assenza?”


Lo splendore dell’assenza, lo splendore del ricordo, ritorniamo sempre nei luoghi che ci hanno segnato anche solo scrivendo una poesia. Ma qui, oggi, vi porto una voce nuova che ancora non ho ospitato nelle Cronache ma che sta nel mio piccolo Olimpo della poesia contemporanea, ed è la voce di Camilla Miglio.


Bassa marea

La linea dei pini
ci ha cavati dall'onda abolita,
e intanto la diomedea tace
mimando la Murgia, non più marina.
L’altopiano è quasi una faglia
spartita tra grano e zolle
mentre
l’eucalipto sorprende
un pianto, lo raccoglie
sognandosi in rosa di salice.
Il canale del vento
s’incide nella ruga dei mulini
di un paese
che non conosce acqua
ma nel tempo è una fonte.


La fanciulla divina è tornata dalla madre nel colmo della stagione. Per questo la madre concede alla terra di darci tutti questi frutti. Perché la madre non può stare senza la figlia? Qual è la storia dietro la storia?


Kore

Sguardo di rondine
dal ramo.
Vestita di lino, bianca,
ma senza Demetra.
Arde dentro, il corpo
ma freddo risplende.

Fuori c’è il mare di Otranto.


Al quel mare torna la fanciulla che pensa al principe rinchiuso a forgiare nel sottosuolo.



Al principe dei gigli (da Goethe)


In mille forme potrai pure nasconderti
di tutti mio più amato, ti riconosco subito.

Vestiti pure col vento e con l’anello
in tutto tu presente, ti riconosco subito.

Nello slancio disperato del cipresso
tutto azzurro sei cresciuto, ti riconosco subito.

Nel continuo ondeggiare del mio mare
tutta roccia sgranata, e io ti riconosco.

Nella marea che sale e poi dilaga
tutto movimento in un riflesso, e io ti riconosco.

Se la nube prende forma e poi la perde
tutto orma sei nel labirinto, e io ti riconosco.

Sul tappeto fiorito del tuo dono,
tutto danza di stella, io ti riconosco.

E se con mille braccia l’edera dirama
tutti accogli tu, e per questo ti conosco.

Quando sul monte s’illumina il mattino
tutto saluti tu, e io ti saluto ancora.

E quando su di me s’inarca il cielo,
tutto tu attraversi, e poi io ti respiro.

Quello che apprendono i miei sensi dentro e fuori
tutto racconti a me, e da te l’apprendo io.

E quando dell’anima pronuncio i cento nomi,
in tutti segue in eco il nome tuo.


Il misterioso architetto legge poi una poesia che lo riporta nelle sue terre d’oltremare e mitiga la nostalgia.


L’art des femmes berbères

Ti offro il mio tappeto dell’Antiatlante rosso,
geometrica neolitica figura per vasi
cotti chiari e scuri, per tappeti, per tessuti,

identici a quelli di Gnathia.

Una lunga strada di migrazioni
avanti e indietro nel Mare di Mezzo
migliaia di anni di mano in mano
affidata a dita che maneggiano
fili, colori con fiori pestati,
segrete miscele di cardamomo
e zafferano, rosa del deserto
e lapislazzulo, azzurrissimo,
per tessere copricapo sottili
all'uomo dagli occhi lunghi tuo sposo:
Potrebbe essere greco o marocchino
Levante in occidente, Atlante in Tesprozia.

Tutto è vero nel grande
castello di Atlante

che è il mio tappeto.


Il tappeto di Camilla è intessuto di parole e narrazioni sognate prima ancora che scritte.


Lancio di dadi sull’acqua

C’era una tavola come apparecchiata, ma per terra.
Parevano scodelle quei fogli scritti e fitti
mezzo strappati da una tovaglia di carta –

“Avremo scritto il nostro sogno, avremo sognato il nostro scrivere”

C’erano come dadi sulle carte sgranate,
ma erano i ciottoli del Mar Nero
improvvisamente lanciati sulle nostre vite –

“Abbiamo seminato? Fiori. Raccoglieremo? Fogli”
“Avremo raccolto ancora ciottoli, ma chi potrà crederci”

Sulla carta apparecchiata
quasi una mappa confusa
tra pesci pane e un ricordo di vino.

C’era stata una fiamma, e intorno una tavola
come apparecchiata sullo scoglio
cancellata dalla sabbia e solo dopo secoli riemersa
sul fondo di un fiume essiccato.

Eravamo morti da tempo
e si parlava nel vento

“Vorrei rinascere per amarti in qualche forma”
“Ma tu lo sai, avremmo forme strane e imperscrutabili –”

“In mille forme potrai pure nasconderti, ti riconosco subito”
“In mille forme, e ancora ti respiro”
la brezza aveva spento ogni lume,
e non avremmo saputo più dire
se eravamo ancora anime antiche
o forse bambini con piedi piccoli
nelle pozze dello scoglio,
attenti a non farci ferire
dai granchi e dal vetro.



Dopo le letture abbiamo ripreso a camminare sulla spiaggia e ho visto le impronte di quei piccoli piedi accanto a una pozza dove due granchi sonnecchiavano.

Camilla è qui con noi, anche se sta scrivendo un nuovo libro, una forza della natura, una grande madre, una voce poetica che attinge alla grande poesia tedesca, alla Grecia e alla sua lingua antica, al mare che bagna la Puglia, all'amore per le persone e per i libri. Lei è l’estate incarnata, la dea dei frutti, la dea della stagione più lunga e colorata.




Tutte le poesie di questa Cronaca 119 sono di Camilla Miglio, poetessa, germanista, traduttrice e studiosa di Paul Celan e Ingeborg Bachmann.
L’art des femmes berbères è inedita e appartiene alla raccolta Stagioni di Kore, che spero Camilla vorrà pubblicare quest’anno.
Le altre poesie sono tratte dal volume Maree, Atì editore 2010

La citazione di Albert Camus è tratta da L'enigma in L'estate. Opere - Romanzi, racconti, saggi a cura e con introduzione di Roger Grenier, traduzione di Sergio Morando, Classici Bompiani 1988