lunedì 30 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/267: immagini del silenzio, stagione dopo stagione

 

In me il silenzio ha una dimora sicura, lo proteggo e ne proteggo le immagini che ne sono la narrazione e l’immaginazione.

In quest’anno funesto non è stato difficile immaginare il silenzio, lo abbiamo provato, mai come prima durante la nostra vita, durante il primo confinamento. Ora prosegue dalla sera tardi sino al mattino.

È un silenzio fatto di respiri che rimbombano nelle orecchie, accelerano o calmano il respiro, dipende solo da che lato della notte ci troviamo.

Il silenzio diurno è molto diverso da quello notturno, perché diverse sono le immagini che, in me, lo rappresentano.

Gli alberi spogli sono silenziosi, le foglie dopo che sono state raccolte sono figure del silenzio.

L’alba che sorprende gli insonni e accompagna i primi lavoratori è silenziosa, così come è silenziosa la brina che scontorna il buio dai rami e li fa brillare.

È silenzioso il mare che d’inverno risiede in una cartolina in bianco e nero, un fermo immagine, non il film evocato in una bella canzone di qualche decennio fa.

Anche l’autostrada è un’immagine del silenzio perché poche sono le auto che possono percorrerla.

Nel colmo della stagione fredda è il campo innevato che protegge il silenzio. I semi dormono nella dimora di terra e gelo e sognano i germogli che saranno.

Si dipana nel silenzio anche il fiume dalla superficie ghiacciata ed è silenzioso il cielo senza le rondini e gli storni.

Un silenzio da solo non basta, ogni silenzio ne chiama un altro speculare e insieme decorano le volte del Palazzo d’Inverno che tra non molto andremo a visitare.

Qui, oggi, nel palazzo d’Autunno ho richiamato tutte le immagini che ho potuto e ho scoperto che il silenzio vive soprattutto senza figure umane.

Perché noi parliamo e gridiamo e ridiamo e cantiamo. Il silenzio è una conquista che tiene a bada le nostre onde sonore. È uno spazio attraversato da un bagliore di stella che si riflette qui, sulla neve.

Le stelle, sì proprio le stelle, ci appaiono silenziose, ma solo perché siamo troppo lontani per udirle. Hanno voci implacabili le stelle ma riescono a mostrarci solo la loro luce.

Gli angeli, i tremendi angeli che vegliano questa povera nostra terra riescono a sentire il canto delle stelle e, di tanto in tanto, ce ne inviano qualche frammento.

È anche così, ma non solo così, che noi umani creiamo musica e poesia, è così che i pittori rubano frammenti di luce e la intrappolano sulla tela. È così che il poeta respira e trattiene per un attimo il fiato e poi lo lascia andare.

Il silenzio è una diversa qualità del respiro, è l’abito cangiante delle parole che ci emozionano, è la mano del Signore che per un attimo ci sfiora i capelli e ci fa addormentare.

 

Questa è la Cronaca 267, nata dal silenzio di lunedì 30 novembre dell’anno senza Carnevale, l’anno che si avvia alla sua ineludibile fine.


domenica 29 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/266: la casa avanza lenta nella notte mentre aspetta la tua voce

 

Giulio Ario Tarrutenio, prefetto della città di Roma nel V° secolo, giunse ad Argentanum, quella che sarebbe diventata la città di San Marco Argentano, in una tiepida giornata di primavera. Fu prima ospite del console locale, ma poi, aggirandosi per le campagne scelse di far costruire la propria dimora a metà strada tra il fiume Follone e le Fontane che sgorgavano dalla collina. Per ricordare la bellezza del luogo fece piantare ulivi e fichi e in mezzo al campo di grano più ampio una quercia che lo avrebbe ricordato nei secoli a venire.

Cinque secoli dopo, la città venne conquistata dai Normanni di Roberto il Guiscardo cui si devono numerose architetture che ancora oggi testimoniano l’importanza del luogo. Anche il Guiscardo restò incantato dalla piccola valle tra le Fontane e il fiume e fece erigere, non lontano dalla grande quercia, un casino di caccia dove svagarsi lontano dalle questioni di palazzo. 

Dopo numerosi secoli ancora, ecco che la grande quercia ormai millenaria era diventata il rifugio dei bambini durante la calura estiva. Non bastavamo noi cugini, ed eravamo in quindici, a cingerle il tronco con le nostre piccole braccia.

I nostri giochi selvaggi non avevano niente di terribile e pericoloso come ai tempi di Giulio e Roberto. Ma furono i nostri tempi di pace che videro mani sacrileghe abbattere la nostra quercia. La piango ancora dopo decenni e a volte la sogno.

Così oggi ho deciso di portarla con me nelle terre delle Montagne della Nebbia, dove già ci sono numerose querce.

Vedete, non è difficile popolare quella vasta regione che abita al centro della mia immaginazione. Penso una cosa, la vedo nel teatro della mente e poi la ritrovo laggiù proprio come la volevo. Non mi sono mai posta la domanda sulla natura delle sue foglie, così anche oggi, nel cuore dell’autunno, i rami risplendono di un bel verde cupo e io mi nascondo da un sole pallido e chiuso da sembrare dipinto, sotto i suoi rami.

Subito mi raggiunge la lupa festosa, è sola e questo è molto strano. Il lupo sarà forse a caccia ma sono certa che a breve ritornerà. Giochiamo come due cuccioli e poi torniamo verso la Casa delle Parole dove non c’è nessuno e questa casa sembra l’ultima casa di Rilke:


In questo villaggio l’ultima casa

è sola come fosse l’ultima casa del mondo.

 

La strada, che il piccolo villaggio non trattiene,

va oltre, ancora, lenta nella notte.

 

Il piccolo villaggio è solo un passo tra due luoghi

vasti – colmo di presentimenti, timoroso:

un sentiero tra le case, neanche un ponte.

 

Chi lascia il villaggio vaga a lungo,

e molti muoiono, forse, per la via.

 

La quercia millenaria protegge il nostro piccolo villaggio, la Casa delle Parole e la Casa delle Stelle, la Casa delle Tre Sorelle in riva al mare, l’antica torre e il bosco. E so che allo stesso tempo la Casa delle Parole veglia su tutti noi e aspetta chi non è ancora rientrato.

Accendo il fuoco, chiamo i gatti, sul tavolo metto un ramo di quercia con le foglie lucide e numerose ghiande. Brucio nel fuoco alcune pigne resinose e poi getto anche le bucce del mandarino.

Chiamo la quiete notturna a farmi compagnia e ricordo tutto, ricordo la voce e lo sguardo, le risa di chi non è con me.

 

Oggi è il 29, l’ultima domenica di novembre dell’anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 266. È bene che inizi a cercare un nome per le Cronache che verranno perché questo anno funesto non sarà l’ultimo senza Carnevale. La poesia di R. M. Rilke è tratta da Il libro d’ore, a cura di Lorenzo Gobbi, Servitium 2008.


sabato 28 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/265: senza troppe parole, un uomo sogna una poesia

 

Bisogna restare saldi anche nel pieno della tempesta, governare la propria barca e sperare che il vento cali e le rive tornino visibili.

Dobbiamo credere al melograno che imita il rosso dei campi di papaveri con il suo succo dolce e aspro allo stesso tempo.

Dobbiamo credere al giallo delle foglie che imitano la scia dorata del carro del sole. Non dobbiamo smettere di credere anche quando le giornate passano senza il conforto di chi amiamo accanto, ma sempre con una poesia acciambellata nell’incavo della nostra spalla.

 

Fermo posta

 

Oh, tutto va bene,

come componi la tua poesia,

melodioso recitativo,

e tu, cauto,

con moto,

e tu, grammatica tormentata,

rimata e sfilacciata,

un grido nella notte.

Oggi, però, devo fare diversamente,

senza troppe parole,

come la luna risplende

attraverso la zanzariera, qui

sul mio letto,

così semplice

e silenziosa.

 

 

Sono un abbraccio le poesie che amiamo, una consolazione e un dono in queste giornate di nebbia e poca luce. Il gelo si è ormai impadronito delle nostre case e la luna regna appesa ai lampioni, qui nella città silenziosa, dove gli sguardi si incrociano sopra le mascherine e chissà come nascono i nuovi amori se i sorrisi restano celati?


Riconoscimento

 

Allora vide

nel parco di Charlottenburg

un’ombra stagliarsi contro il sole

circonfusa di una luce

che lo accecava.

 

Sguardi di un attimo.

Timido quello di lei,

in armonia col cader delle foglie,

il nero dello stagno,

il freddo di un’altra vita.

 

Cosa vedeva?

Un uomo su una panchina

Che sogna una poesia.

 

Autunno, quasi sera.

I corvi rincasavano,

macchie gracchianti.

 

 

Oggi nessuno è rincasato perché nessuno è uscito, né qui nella Casa delle Parole, né laggiù nella città silenziosa, né nel Monastero di Colorno e nella Biblioteca di Babele dove i poeti fanno conoscenza tra di loro e Nooteboom assedia Borges e gli recita la poesia che domani trascriverò per voi.

Nessuno è uscito e io vi immagino intenti nelle vostre letture, nella scrittura, nei sogni ad occhi aperti, nelle piccole gioie fatte d’aria e sogni notturni. In quell’ultimo sogno dove eravamo insieme, felici.

La Cronaca 265 sorge nel tardo pomeriggio di sabato 28 novembre dell’anno senza Carnevale. Anche le poesie odierne sono di Cees Nooteboom, tradotte da Fulvio Ferrari per la raccolta Luce ovunque. 2012 - 1964, Einaudi 2016.

venerdì 27 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/264: di notte, lungo palazzi di nuvole aspettiamo il sorgere del fuoco



Inizia una nuova cerimonia nel Monastero di Colorno, gli abitanti sono già tutti schierati e io mi confondo tra loro e cerco tra quelli che arrivano, la nuova voce che qui si fermerà.

Lo riconosco dalla folta chioma bianca e dall’uomo che lo precede, una versione di se stesso in vesti giovanili.

Mi chiedo sempre se il poeta giovane già senta in sé la ruggine del tempo, le rughe che saranno, il disincanto e le parole che sono ancora nell’occhio di Dio.

Allo stesso tempo mi chiedo se il poeta incarnato nell’uomo anziano, ancora tenga in sé quel furore dei versi giovanili. Mi chiedo se sia ancora in grado di separare il grano dal loglio e accettare la sentenza della luce che non fa mai sconti a chi vive nelle parole, a chi cerca nomi anche dove nomi non ci sono, né possono esserci.  

 

Fuori

 

Fuori ormai non vado più,

ci sono, fuori. A metà strada tra la palma

e il fico. Sotto la mezza

luna, sette ore ancora alla rugiada.

Gocce sulla piombaggine.

 

Come si chiama ogni ora

della notte, come si chiama ogni minuto

dell’ora? Se i giorni hanno nomi,

perché non i minuti?

 

Ogni istante della nostra vita

dovrebbe avere un nome

che non assomigli al nostro,

che ci dimentichi. Ogni secondo

una cifra su un registro

 

di battiti di ciglia, sussurrio

origliato, versi di poesia

inframmezzati ai giornali,

sussurrio di brina e di neve,

la più lenta poesia

della durata.

 

Tutto a formare un cerchio,

tondo come un quadrato,


ogni cosa per sempre

sposata a se stessa.

 

 

Così ci mancano i nomi e ci mancheranno per sempre, perché i frammenti di tempo non possono avere un nome, non sono divisibili oltre una certa misura. La più piccola unità di tempo è l’istante e di istanti costruiamo la narrazione delle nostre vite.

Ma come il pescatore non riesce a intrappolare i pesci più piccoli, così noi lasciamo sfuggire le preziose sembianze di un tempo che pure è stato ed è ancora dentro di noi, anche se non lo sappiamo.

Così quando il buio scivola tra le strade e le case, cerchiamo una nuova forma per l’attesa e rinunciamo al nome che non ci verrà donato.

 

Notte

 

Di notte, lungo palazzi di nuvole

e un’ultima terrazza di chiaro di luna,

il sogno di viaggi proibiti,

un portone, sempre chiuso,

ora socchiuso, il pericolo di un’altra

vita, una poesia

 

di un’esistenza capovolta,

in cui la morte non ha falce:

è un amante su zoccoli d’oro

che ti accarezza il seno

e srotola il tappeto di stelle

perché ti ci possa stendere sopra.

 

Luce ovunque, fino ai denti

della belva, fino alle unghie

dell’assassino e al pugnale lucente

che scrive l’ultima parola,

fuoco, poi con i tuoi occhi di nessuno

vedere senza mai una fine,

 

vedere chi eri.

 

 

Ma è il fuoco che scrive l’ultima parola di questa sera e ci invita al riposo e alla quiete. Ora, nella cesta davanti al camino, riposano anche i frammenti di tempo, brillano come lucciole per un po’, e poi si spengono allo sguardo e restano vivi solo nel nostro cuore.

 

Questa Cronaca 264 è figlia dell’ultimo venerdì e ventisettesimo giorno di novembre dell’anno senza Carnevale. Nel silenzio degli alberi e nella voce del fuoco cerco risposte e sono poesie che mi vengono incontro a far scintillare questo tempo ancora oscuro, quelle di stasera sono di Cees Nooteboom, tradotte da Fulvio Ferrari per la raccolta Luce ovunque. 2012 - 1964, Einaudi 2016.

giovedì 26 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/263: da due continenti viene il vento che mi vortica intorno

 


Questo infinito, o che appare come tale, tempo tra il tempo di prima e il tempo che verrà è un tempo che ha bisogno di essere raccontato.

È un tempo, soprattutto, che ha bisogno di simboli, di un simbolo almeno per ciascuno di noi, perché l’io che eravamo possa consegnare all’io che saremo una traccia di ciò che era e ciò che non è più.

Portiamo nel tempo futuro che già ci appartiene quel che di noi appartiene al passato. Riusciremo a trovare il modo di far coincidere le due metà? O forse i pezzi sono più di due e potremo rimetterli insieme solo copiando la tecnica giapponese del kintsugi? Di che materia sarà fatto l’oro necessario a riempire le crepe?

Saremo di nuovo uno o saremo, in maniera ancor più evidente, un insieme di frammenti che ricordano l’unità di un tempo ma che esaltano la nostra molteplicità?

Dal mio io passato ricevo un libro di versi e un quaderno già scritto. L’io presente si trasforma ogni giorno nella scrittura di una Cronaca, l’io futuro si gira distratto verso di noi, perché abita un tempo e uno spazio che ancora non ci appartengono.

Il presente è come una chiusa sul fiume, ferma l’acqua, la fa rifluire, lascia che scorra e raggiunga il luogo dove il destino si compie. Le chiare, fresche e dolci acque possono essere il ristoro della terra assetata, possono fuggire di nuovo nelle nuvole e aspettare la prossima pioggia per ritornare. O possono lasciarsi andare, immemori, distratte, quiete fino al mare.

È lì che la bocca cambia sapore e in maniera così violenta, il troppo sale diventa amaro, ci ottenebra il gusto, a stento riconosciamo i sapori e i profumi.

Sale e corbezzolo, mirto e miele, sapori di una terra antica cui Antonella Anedda ci ha ridato la voce

 

Contra Scaurum

 

No ischio iscrivere de Roma.

Meda belluria, dechidu, mutas 'e linu.

Forzis gòi – sunt binti seculus – pessaint cuddos sardos

bennitos a dimandare zusstissia contra Scauro.

 

"Zente chene ide... terra ue peri su mele est 'ele"

 

Gòi nàrriat Cicero in faeddu suo. Ora, in mesu petras

bortat suo lumene, lestru, minutu. Ma sicutera

morint sos distimonzos, s'ape tribulat.

Reghet su mele: limba e 'lidone, gardu et sale.

 

 

*

 

Contro Scauro

 

Non so scrivere di Roma.

Troppa bellezza, eleganza, tuniche di lino.

Forse così – venti secoli fa – pensarono quei sardi

venuti a chiedere giustizia contro Scauro.

 

"Gente senza fede... terra dove perfino il miele è fiele"

 

Così diceva Cicerone nella sua orazione. Ora il suo nome

gira tra le pietre, minuscolo, veloce. Ma come allora

muoiono i testimoni, l'ape si affatica.

Resiste il miele: la lingua di cardo, corbezzolo, sale.

 

 

Qual è il simbolo di questo anno che si avvia all’ineludibile fine?

I balconi affollati di gente che canta, maratoneti solitari che girano intorno allo stesso giardino, il silenzio diurno che le città non hanno mai conosciuto, le scuole chiuse, il lavoro diventato un affare privato.

Quale miele addolcirà la nostra bocca? Quale ape tornerà dall’invisibile a portarci poesia e conforto?

Apro a caso il libro Luce ovunque di Cees Noteboom e una voce risuona subito, alta e chiara, una voce muta che arriva dall’immaginazione.

 

Albero


Sii me, diventa me

almeno una volta nella tua vita inquieta.

Da due continenti

viene il vento che mi vortica intorno

e che danza con me come un uomo.

 

Io non ho anima,

io sono la mia anima.

Nel linguaggio del mio ininterrotto pensare

oscillo e mi piego e mormoro,

albero esemplare

con la sua lingua di una sola parola.

 

Non sono solo i monaci

a cantare, con la loro voce di esseri umani,

ci sono anch’io, sempre qui in attesa

soffrendo per il male del mondo

nella mia forma irripetibile

senza colpa.

 

 

Il mio albero bellissimo, davanti alle mie finestre sarà il simbolo dello sgomento e della poesia di questi mesi, della poesia che da lui mi arriva e fluisce, che a lui ritorna e nutre questa terra malata.

Questa Cronaca 263 è frutto di un giorno intenso di lavoro e studio, di pensieri di libertà, di suggestioni arrivate dalle parole di Chiara Mirabelli e Romano Madera: “Il simbolo è reso possibile dalla mancanza”. In queste mancanze di futuro e vita vissuta in tutte le sue innumerevoli potenzialità, in questa vita cerchiamo il senso e creiamo laddove c’è una mancanza, una crepa, il luogo attraverso cui la luce può filtrare come scriveva l’amato poeta e cantautore Leonard Cohen. La poesia di Antonella Anedda è tratta dalla raccolta Dal balcone del corpo, Mondadori 2007.

 

mercoledì 25 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/262: come fuoco sott’acqua, il viaggio verso l’inverno prosegue



Scrivo una lettera per qualcuno che non conosco, scrivo di fatti mai avvenuti, di sogni dimenticati al risveglio.

Scrivo di immaginazioni le cui immagini sono paesaggi senza figure, volti senza occhi, canti senza note.

Ti scrivo mia futura lettrice, mio sconosciuto lettore da questo angolo di tempo e spazio che è allo stesso tempo nella città silenziosa e nella Casa delle Parole, proprio lì, dove si intersecano i sentieri e la Biblioteca di Babele è dietro l’angolo della strada.

Oggi ti scrivo anche della morte di un calciatore del pibe de oro che in questa dimensione si chiamava Diego Armando Maradona. Ho pianto anch’io, anche se la mia conoscenza del calcio si ferma alla grande Inter di Helenio Herrera e non ho mai seguito il campionato se non quando lo seguiva mio padre, ma mi piacciono i mondiali di calcio e un po’ anche gli europei.

Noi ragazzi e ragazze del Novecento siamo intessuti di calcio che è stato bello sino a che non è impazzito e i calciatori hanno iniziato a guadagnare cifre stratosferiche.

Gli ultimi decenni del Novecento hanno spettacolarizzato qualunque dimensione della nostra vita e come poteva non restarci incastrato quel ragazzo che sembrava tenersi il pallone incollato ai piedi sino a quando non faceva goal?

Abbiamo smesso di essere adolescenti, tutti quanti e tutti insieme noi baby-boomer, in questo anno del Signore 2020.

Abbiamo scoperto che la vita non è un film dal lieto fine, abbiamo scoperto che non è neanche un reality show, abbiamo scoperto che l’economia e la finanza non possono essere il fine ultimo dell’esistenza.

Abbiamo avuto lezioni da maestri invisibili e inaspettati, lezioni di tenebre e perdite. Ma forse anche di maggiore consapevolezza e tenerezza, di gentilezza e di gioia nel flusso della vita quotidiana dove non abbiamo, non avevamo, tempo di fermarci per capire cosa stesse accadendo dentro e intorno a noi.

Abbiamo dovuto rallentare i ritmi, imparare a lavorare a casa, come una volta facevano solo le donne delle classi popolari. Abbiamo imparato a studiare a casa, come una volta facevano solo i bambini nobili e alto borghesi, incollati davanti ai nostri schermi e pian piano queste modalità di apprendimento, minoritarie sino all’anno scorso, hanno preso piede e sono diventate molto spesso l’unica modalità.

Sappiamo chi siamo stati, lo specchio della vita è stato implacabile nel mostrarcelo, non sappiamo chi diventeremo, dove saremo l’anno prossimo. Fra 36 giorni quest’anno dannato diventerà l’anno scorso.

E l’anno prossimo sarà l’anno in corso cui, forse, potremo iniziare col restituire il Carnevale. Le mie forme di resistenza sono sempre le stesse: i libri, le camminate tra la realtà e l’immaginazione, le conversazioni con le persone che amo.

So di avere potuto resistere sino ad ora perché amo la solitudine, stare da soli è qualcosa che si impara soprattutto da bambini e io l’ho dovuto imparare. Ma so anche che per la maggior parte delle persone non è così e allora vorrei che queste mie Cronache, che veleggiano in un mare di parole, di storie reali e di storie immaginate, siano diventate una piccola consolazione quotidiana, un rito che chiuda ogni giornata e apra il respiro e il pensiero per la notte che viene.

Questa è la Cronaca 262 scritta il venticinquesimo giorno di novembre dell’anno senza Carnevale. Alle cinque del pomeriggio era già quasi buio e adesso sono pronta per fare una passeggiata, avvolta in questo buio e nei miei pensieri con un libro di poesie in tasca, come fosse un talismano, il libro Luce ovunque. Poesie 2012-1964 del poeta e scrittore olandese Cees Nooteboom. Magari domani scriverò di lui visto che il titolo di questa Cronaca è fatto di frammenti mescolati delle sue poesie.

martedì 24 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/261: l’oceano dei libri e i gatti lettori


Ci sono bacche rosse e ippocastani svenuti sulle strade, sono lucidi e bellissimi, vien voglia di raccoglierli, ma per farne cosa? Un cestino invernale, una natura morta, disposti con i ricci e le foglie, gialle, rosse e marroni farebbero una macchia di colore sul tavolo.

Ma il tavolo è ingombro di riviste e quaderni, di libri che devo sistemare nella libreria e non posso occuparmi di questa natura morta che sarà inutile e imbruttita in pochi giorni.

Da sempre raccolgo foglie secche e fiori che ripongo nei libri su cui scrivo la data e il luogo del raccolto. Anche i sassi non sfuggono alle mie manie, ne ho alcuni davvero belli che uso come fermacarte sulla scrivania e mi piace guardarli e sentirne il peso nella mano e ricordare sulla riva di quale mare li ho raccolti.

Da cosa nasce la passione per il collezionismo? Le mie manie sono abbastanza innocue e, libri a parte, non particolarmente costose.

Cosa ci fa appassionare a un determinato oggetto al punto di volerlo replicare in forme, colori e dimensioni tra le più svariate?

Il culto degli oggetti è così profondo nella nostra civiltà sedentaria, che siamo arrivati a collezionare antiche reliquie, autografi, fotografie e vestiti di santi, personaggi noti, persone amate.

Forse lo facciamo perché sappiamo che negli oggetti rimangono impigliati frammenti luminosi dell’anima dei proprietari precedenti. O forse, anche, frammenti dell’ombra più segreta che percepiamo comunque.

Forse è questo che intendono gli antropologi quando parlano di “mana”, di quel potere primordiale, di quella forza insita nelle cose.

La fisica quantistica ci ha spiazzato quando ha introdotto il concetto di “entanglement”, il legame di correlazione quantistica. Due particelle si influenzano a vicenda anche quando sono lontanissime e lontanissime vale più per il tempo che per lo spazio.

Sono immagini e valori di non immediata comprensione, ma mi danno i brividi e riesco a immaginare l’eternità, cioè il tempo e lo spazio che sono tutt’uno, stendersi da ogni lato come un’immensa rete di vibrazioni sonore e luminose. 

Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Un poeta intuisce e arriva sempre prima, o quasi, di uno scienziato a scoprire le leggi fondamentali della vita e della morte. Freud diceva che ovunque arrivasse con i suoi studi, scopriva sempre che un artista ci era arrivato prima.

Artisti, poeti, scienziati e narratori sanno che la realtà non è solo ciò che i nostri sensi ci permettono di vedere e percepire.

L’essenza del mondo è invisibile agli occhi e abbiamo bisogno di altri strumenti umani per indagare e capire.

Strumenti umani che sono numeri e lettere variamente combinati, con 10 numeri e un numero variabile di lettere tra 10 e 74, i 56 mila ideogrammi cinesi e i circa 50 mila giapponesi, le 22 lettere dell’alfabeto ebraico e le 29 di quello arabo.

Non provate anche voi le vertigini che scaturiscono da queste combinazioni? Io sì e mi piace immaginare davvero come fosse un oceano, l’insieme delle lingue, degli alfabeti e delle parole.

E da questo oceano, come lo definisce un uomo sapiente in un'opera immensa ancora inedita, torniamo a uno degli oggetti più ambiti da collezionare e che è fatto di lettere, sillabe e parole.

Nella mia piccola dependance della Biblioteca di Babele, ho istituito il rifugio dei libri preferiti, che negli anni ho dovuto ampliare perché i ripiani non bastano mai.

I libri danno gioia e speranza, sono la promessa di un cambiamento che è racchiuso nelle pagine che non conosciamo, la solidità di un percorso noto, di un autore amato.

Invisibili particelle di scrittori e poeti, scrittrici e poetesse è sospeso nelle pagine di ogni libro.

Sta a noi andare a cercarli e intrecciare nuovi dialoghi ed essere felici di non essere mai soli.

Oggi è martedì 24 novembre dell’anno senza Carnevale e i numeri di questo giorno sono tristi e cupi. Per questo chiedo ai libri la mia consolazione quotidiana e i libri rispondono, scendono dagli scaffali e giocano con i gatti. Perché anche i gatti leggono, di nascosto da noi. Ecco perché ci capiscono così bene.

lunedì 23 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/260: ci saranno nuovi passi su sentieri mai percorsi e nuove storie attraverso le strade

 

La vita ha radici trasparenti di cui non siamo consapevoli, almeno fino al giorno in cui uno strappo inaspettato ce ne fa sentire la presenza.

 

Queste radici non sono solo la storia della nostra vita, sono l’insieme delle abitudini che nel tempo abbiamo prima creato e poi consolidato.

 

Proprio per le loro intrinseche proprietà le abitudini hanno regole precise e sono l’esoscheletro della nostra vita.

 

Partiamo dal mattino presto, il caffè lo bevete in casa o al bar? Mangiate biscotti o brioche? Bevete una spremuta d’arancia o un succo di frutta? Uscite di casa prima o dopo le 7:30?

 

Chi mai si fermava a pensare a queste piccole cose che disegnavano l’inizio di ogni giornata?

 

In un lento disfarsi del quotidiano ci siamo opposti con pazienza, canti e determinazione. Poi l’estate ha restituito una parvenza di normalità, ma era frutto di un errore di prospettiva madornale.

 

Ora è di nuovo freddo e fa buio presto, le vacanze di Natale sono un’incognita. Forse, l’anno senza Carnevale diventerà anche l’anno senza Natale.

 

Tutte rinunce, niente progetti, le radici sono visibili e ricoperte di fuliggine. E poi c’è la città che oscilla tra l’implosione e la disperazione.

 

Ma penso che sia questo il momento per prendersi cura delle nostre radici, che non sono solo abitudine di gesti e percorsi. In una via misteriosa riscopro in me echi della vita dei miei genitori, un modo di chinare il capo sulla spalla destra, il gesticolare vivace delle mani, un sorriso gentile che si apre sul mondo.

 

Anche questi giorni diventeranno radici e abitudini, avremo appreso il piacere di trascorrere più tempo in casa e meno tempo sui mezzi pubblici, di fare colazione con un caffè della moka e una torta fatta in casa.

 

Oggi ho fatto una lunga passeggiata in giro per il quartiere e ho sfidato il sole a splendere più di quanto non splenda la speranza che porto in me.

 

Scrivo perché mi dà gioia farlo, pubblico queste Cronache perché mi piace farlo, anche quando non è successo nulla, o sembra che non sia successo nulla, quando lo sguardo è tutto concentrato sulla New York letteraria di Paul Auster e la Londra di Virginia Woolf. Un giorno torneremo a viaggiare non solo con la mente e la memoria.

 

Ci saranno passi su sentieri mai percorsi e nuovi volti che ci sfioreranno, nuovi desideri e nuove storie da raccontare.

 

Oggi è lunedì 23 novembre dell’anno senza Carnevale. Le radici sonnecchiano davanti al fuoco con le parole, questa stanza è sempre più affollata, mancano solo i gatti che stanno giocando sul letto e intorno al mio cuore.