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venerdì 3 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/26: questo paesaggio, capace di fare a meno di me


Nelle mie immaginazioni pomeridiane, sono a loro a cercarmi ogni giorno dopo le diciotto, continuo a chiedermi quale città vorrei poter visitare in assenza dei suoi abitanti. Stasera ho finalmente deciso che quella città è Venezia. Ci sono stata tante volte e le immagini si sovrappongono, così mi fermo a pensare alla prima volta che ci sono andata, ero già adulta, reduce dalla rottura di una relazione importante. Così avevo deciso di iniziare a fare tutte le cose che nei lunghi anni di quel sodalizio avevo sempre fatto in coppia. Viaggiare era in cima alla lista e così, una mattina di un caldo ma non afoso luglio, sono partita dalla Stazione Centrale di Milano alle 7 circa. Nella fretta della partenza ho dimenticato il libro che stavo leggendo, La via del mare di Ursula K. Le Guin una delle scrittrici che adoro, sul bancone della biglietteria e che non sono mai più riuscita a leggere, come se il libro fosse rimasto imprigionato in quell’istante.

Senza niente da leggere, avevo trascorso il lungo viaggio, che all’epoca durava oltre cinque ore, guardando fuori dal finestrino e scrivendo. Quando uscii dalla stazione due dei miei sensi furono colpiti d’impatto. La mancanza del rumore delle auto spiazzò il mio udito e la qualità della luce la mia vista. Presi il traghetto per Piazza San Marco e andai a vedere due mostre che mi interessavano. La prima era dedicata a Giorgione, la seconda ai Normanni. Mi ero data due ore in tutto, come faccio sempre scelgo su cosa fermarmi, salto molte cose, evito le visite guidate e razzolo per i percorsi seguendo l’istinto. Furono due visiti felici e, forse, inadeguate alla bellezza delle opere esposte, ma ero contenta anche perché imparai molte cose sui Normanni che avevano dominato per secoli il paese natio di mio padre, San Marco Argentano e dove si trovano ancora la torre a pianta circolare, una delle uniche due intatte nel nostro meridione, le rovine del castello e la Fonte normanna di Sikelgaita. Il quartiere ai piedi della Torre del Guiscardo era il ghetto ebraico detto La Giudecca. C’era infatti una fiorente comunità in loco, che si dedicava all’allevamento dei bachi da seta, alla filatura e al commercio della seta, e l’antica sinagoga è da decenni una residenza privata.

Con quella visita avevo vissuto un po’ del passato di famiglia e con gli occhi pieni di bellezza, avevo deciso di lasciarmi trascinare dalla città senza seguire nessun suggerimento della guida che pure avevo portato con me.

Non molto tempo dopo ero passata davanti a una trattoria dove pranzavano alcuni gondolieri. Mi fermai anch'io e il gusto di quel pranzo, spaghetti con le vongole e un fritto misto indimenticabili, lo sento ancora sulle mie papille gustative. Avevo bevuto anche un paio di bicchieri di vino bianco fresco e leggero e il momento rasentava la perfezione. L’acqua del canale su cui si affacciava la trattoria era verde e silenziosa, i gondolieri ridevano e seminavano la loro allegria intorno. In un taccuino riposto in non so più quale cassetto, scrivevo via via i nomi delle calli e delle rive, delle fondamenta e dei campielli che si aprivano davanti a me come una mutevole e affascinante quinta teatrale.

Il mio treno sarebbe partito alle 20.30, così a un certo punto avevo iniziato a seguire le indicazioni dipinte sulle facciate delle case e, non molto tempo prima della partenza, ero arrivata sul piazzale della stazione e mi ero fermata a spigolare tra le bancarelle dei libri dove avevo ricomprato i racconti di Katherine Mansfield e una vecchia edizione del Viaggio in Italia di Ruskin. Riempii molte altre pagine di quel taccuino che ho deciso di non consultare oggi, e a memoria ricordo di avere pensato che i veri abitanti di Venezia sono i palazzi prima ancora che gli abitanti.

Le emozioni di quella prima visita le ho provate tutte le volte e ho deciso di tornarci non appena potremo uscire. L’ultima volta che sono andata a Venezia è stato tre anni fa per un workshop di lavoro, ho ancora negli occhi l’acqua e il cielo bianchi, presi in unico abbraccio dalla nebbia con un sole tondo e netto che pareva un fermaglio rosso appuntato su un mantello di velluto.

Questa sera vi saluto con una doppia citazione, cullata da quelle acque e dai sussurri dei palazzi.

Prima un’impressione di Venezia.

“Eravamo a Venezia in aprile, e io ero ebbra di luce acquamarina. È una luce impalpabile, che gioca con le superfici mobili e scure dei canali, che luccica sulla pietra e sul marmo fondendoli insieme con molteplici sfumature, sempre acquamarina. Sperimentavo una bizzarra sensazione. Ogni volta che chiudevo gli occhi - e lo facevo sempre più spesso, deliberatamente - vedevo un verde molto inglese, molto più giallo, un’amalgama di luce scintillante su prati rasati e di pastosa luce verde dei boschi inglesi, una luce che svanisce dentro tronchi nodosi, guizzando tra le ombre di strati di foglie estive”.

Antonia S. Byatt
Fortuny
sulla rivista Gondola days
traduzione di Maria Nadotti

E poi una poesia

Strofe veneziane
VIII

Scrivo questi versi, seduto all'aperto
su una sedia bianca,
d'inverno, con la sola giacca addosso,
dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi
con frasi in madrelingua.
Nella tazza si raffredda il caffè.
Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi
la torbida pupilla con l'ansia di fissare nel ricordo
questo paesaggio, capace di fare a meno di me.

Iosif Brodskij
Poesie italiane
traduzione di Giovanni Buttafava e Serena Vitale
Adelphi 1996

mercoledì 8 aprile 2015

Eravamo a Venezia in aprile, e io ero ebbra di luce acquamarina

Eravamo a Venezia in aprile, e io ero ebbra di luce acquamarina. È una luce impalpabile, che gioca con le superfici mobili e scure dei canali, che luccica sulla pietra e sul marmo fondendoli insieme con molteplici sfumature, sempre acquamarina. Sperimentavo una bizzarra sensazione. Ogni volta che chiudevo gli occhi - e lo facevo sempre più spesso, deliberatamente - vedevo un verde molto inglese, molto più giallo, un'amalgama di luce scintillante su prati rasati e di pastosa luce verde dei boschi inglesi, una luce che svanisce dentro tronchi nodosi, guizzando tra le ombre di strati di foglie estive.

Antonia S. Byatt
Fortuny
sulla rivista Gondola days 
traduzione di Maria Nadotti

giovedì 24 luglio 2014

La scrittura inizia con due pensieri che diventano uno

Col passare del tempo mi sono resa conto che la mia scrittura - fantasia e pensiero - inizia con un istante in cui d'un tratto mi accorgo che due cose a cui avevo pensato separatamente sono parti dello stesso pensiero, dello stesso lavoro. Io penso, forse fantasiosamente, che l'eccitazione sia l'eccitazione dei neuroni nel cervello, che attiva le sinapsi che connettono la rete di dendriti, due movimenti che diventano uno. 

Antonia S. Byatt
Fortuny
sulla rivista Gondola days 
traduzione di Maria Nadotti

martedì 25 febbraio 2014

La mia mente funziona per metafore

C' è un suo bellissimo racconto, inserito nella raccolta La cosa nella foresta, in cui una donna si tramuta lentamente in pietra, esempio inusuale se guardiamo alla sua narrativa in cui il fantastico sopravanza il reale: 

«In Una donna di pietra l' aspetto reale mi sembra ancora più importante che in tutti i racconti o romanzi che abbia mai scritto. Perché era una storia sul dolore, su una donna che si trasforma in bellissime pietre. Solo attraverso la fantasia, in maniera indiretta, potevo affrontare questo argomento così personale». 
L'attenzione al multiforme femminile non è comunque preminente nelle sue opere anche se, precisa, «la parola metamorfosi nella sua radice è imparentata con la parola metafora. E la mia mente funziona per metafore». 
Preponderante è invece l' uso enciclopedico delle discipline letterarie e scientifiche, inclusa l' attenzione per la vita delle formiche o lo studio delle chiocciole: afferma che la forma di tutti i suoi romanzi, anche della più realistica quadrilogia fondata sull'alter ego Federica Potter, nasce da una metafora dominante: le lumache ne La torre di Babele, i burattini ne Il libro dei bambini
(...) 
I romanzi, scrive in uno dei saggi presenti in On Histories and Stories, nascono dalle mancanze, dalle carenze della storia: «Perché lo scrittore osserva cose diverse dallo storico. 
(...)
Quando era più giovane non possedeva il senso della forma, dice, «dovevo riscrivere i libri venti o trenta volte, poi ho capito che devo trovarlo prima di iniziare perché è l' unico modo per controllare la scrittura. Comincio a lavorare alla struttura di un romanzo molto prima di pensare a personaggi, dettagli, eventi o relazioni fra le cose. In questo modo posso rendermi conto in una maniera quasi matematica se c' è qualcosa che non funziona». 
(...)
Credo di amare la pittura perché è silenziosa e perché dà l' idea che non ci sia il tempo» spiega. «I pittori guardano al mondo in una maniera completamente diversa, per me i quadri sono immagini provenienti da un altrove che non ci appartiene.
(...)
Al tentativo di rintracciare una verità ontologica è unita anche l'idea di fondo della sua narrativa: raccontare come funziona la mente umana, nell'ipotesi suggestiva di tracciarne una grammatica: 
«È vero. Siamo proprio all'inizio del metodo con il quale possiamo guardare con la neuroscienza alla grammatica della mente. Quando ero una bambina pensavo che c' era qualcosa dentro la testa, qui dietro, che ti guardava. Oggi, più correttamente, l' immagine con la quale si comincia a guardare alla grammatica della mente è un albero, con diverse radici e ramificazioni, e una struttura matematica molto precisa».

frammenti dell'intervista di Sebastiano Triulzi a Antonia S. Byatt
Repubblica 18 settembre 2011