Com'è scrivere un romanzo?
L'inizio: Una cavalcata nel bosco a primavera.
La parte centrale: Il deserto del Gobi.
La fine: Una notte d'amore,
Ora sono nel deserto del Gobi
Edith Wharton
dal diario del 1934 mentre scriveva Bucanieri
Elena Petrassi: Una città è un sogno di cemento e pietra sognato da centinaia di anni: io sono il sogno. Milano parla, io racconto Milano e il mondo visto e immaginato da questo sogno. Raccolgo frammenti dal mondo e dai libri e li trascrivo.
Com'è scrivere un romanzo?
L'inizio: Una cavalcata nel bosco a primavera.
La parte centrale: Il deserto del Gobi.
La fine: Una notte d'amore,
Ora sono nel deserto del Gobi
Edith Wharton
dal diario del 1934 mentre scriveva Bucanieri
Il vento cala di intensità, la foresta si quieta. È stata solo una buriana passeggera. Ma è bastata a pulire la mente.
Comincio a mettere in bella gli appunti di questa storia. Scrivo velocemente. È da qualche anno che sento di dover fare in fretta. La rapidità con cui si stratificano le mie agende annuali mi obbliga a fare i conti col tempo che mi resta e a lavorare più sodo. Scrivere - l'ho imparato - è anche un trucco per vivere più intensamente, vuotare il sacco e abbassare il livello dell'ansia.
"Lascia passare il vento tra le righe" raccomanda la giovane siriana di nome Europa nel mio libro sul mito fondativo del Continente. Stavolta il vento tuona, sconvolge la parola, fa tremare le righe. Mi obbliga ad aggrapparmi a frasi solide e brevi.
Comincio a vedere più chiaro. A trovare appigli fermi nella tempesta degli eventi e a collegare tra loro fatti trascurati dalle cronache.
Paolo Rumiz
Verranno di notte
Lo spettro della barbarie in Europa
Feltrinelli maggio 2024
(pag. 142)
Una giornata di maggio piovosa e buia, mentre fuori piove finisco di rileggere l'autobiografia di Janet Frame, ne copio dei passi relativi al periodo in cui andò a vivere in campagna nel Suffolk.
"Adesso pensavo di vivere la vera vita di una scrittrice, i miei due libri di racconti erano stati pubblicati e Giardini profumati per i ciechi lo sarebbe stato a breve; inoltre nel periodo trascorso a Grove Hill Road avevo avvertito un impercettibile spostamento della mia vita verso un mondo letterario in cui disponevo davanti a me tutto ciò che vedevo e sentivo, la gente che incontravo sull’autobus, per strada, nelle stazioni ferroviarie, e nel posto dove abitavo, mentre io sceglievo, fra i tesori sparsi, frammenti e momenti che si combinassero per formare il disegno di un romanzo, di una poesia o di un racconto. Niente era inutile. Avevo imparato a essere una cittadina della Città degli Specchi. L’unico motivo per continuare questa autobiografia è che, per quanto abbia usato, inventato, mescolato, rimodellato, cambiato, aggiunto, sottratto da tutte le mie esperienze, non ho mai scritto direttamente della mia vita e dei miei sentimenti. Senza dubbio mi sono mescolata ad altri personaggi che sono a loro volta il prodotto del noto e dell’ignoto, del reale e dell’immaginario; ho creato “esseri”, ma non ho mai scritto del mio essere. Perché? Perché se compio il pericoloso viaggio verso la Città degli Specchi dove tutto quello che ho conosciuto, visto o sognato è immerso nella luce di un altro mondo, a che serve tornare solo con uno specchio pieno di me? O, in verità, di altri che esistono benissimo nella comune luce del giorno? Il sé deve essere il contenitore dei tesori della Città degli Specchi, l’Inviato, per così dire, e quando viene il momento di catalogare quei tesori per dare loro una forma di parole, deve essere il sé a lavorare, a portare il peso, a scegliere, a sistemare e lucidare. E quando il lavoro è concluso e ci si deve rassegnare al non essere, il sé può prendersi una vacanza, anche soltanto per reintrecciare il paniere usato, in attesa della prossima visita alla Città degli Specchi. Sono questi i processi della narrativa. “Mettere giù tutto così come accade” non è narrativa: deve esserci il viaggio, fatto da soli, il cambiamento della luce concentrata sul materiale, la disponibilità dello stesso autore a vivere in quella luce, in quella città di riflessi governata da leggi, materiali e moneta diversi. Scrivere un romanzo non è soltanto andare a fare acquisti oltre frontiera in una terra irreale: sono ore e anni passati nelle fabbriche, nelle strade, nelle cattedrali dell’immaginazione per apprendere il funzionamento speciale della Città degli Specchi, i suoi cieli e il suo spazio, il suo sistema planetario, senza fermarsi a pensare che ci si potrebbe ritrovare senza casa al mondo, falliti, abbandonati dall’Inviato".
Janet Frame
Un angelo alla mia tavola
traduzione di Lidia Conetti Zazo
Neri Pozza Editore 2010
I tempi erano maturi. Acquistai un quaderno, carta per la macchina da scrivere (verde, diceva Frank, era meglio per gli occhi), un nastro inchiostrato e incominciai a scrivere il mio romanzo.
Janet Frame
Un angelo alla mia tavola
traduzione di Lidia Conetti Zazo
Neri Pozza Editore 2010
Saccheggio ancora Balistica
di Billy Collins per il titolo di questa Cronaca e poi mi metto a girovagare in
questi versi:
E dovrei ricordare la luce
che entra dalle grandi vetrate a quest’ora del giorno
e mette in corsivo ogni cosa che tocca.
È davvero la luce che scrive il mondo, lo rende visibile.
Ma senza l’ombra il lavoro è imperfetto. E qui ricorro a un maestro dell’ombra
il giapponese Junichiro Tanizaki e il suo Libro
d'ombra:
“L'inchiostro di china acquarellato (il sumi e) è, tra i generi della pittura,
quello a cui vorrei paragonare la stanza giapponese. Dove l'inchiostro sfuma,
la è lo shoji; dove si addensa, là è è il toko no ma. Ogni volta che mi
accade di vedere un toko no ma di
particolare eleganza, mi meraviglia la dimestichezza che i Giapponesi hanno con
i segreti dell'ombra. Con quanta raffinatezza sono state distribuite luce e
oscurità! Niente di maniera e di artificioso: solo uno spazio spoglio, la
semplicità del legno, la nudità delle pareti. I raggi luminosi che vi penetrano
provocano, ora in questo, ora in quell'angolo, il raggrumarsi dell'ombra.
Osservate come minuscolamente annotti dietro i travicelli, o tra i fiori, o
sotto una mensola. Non è altro che ombra, comunissima ombra; e tuttavia, com'è
alto il silenzio nelle anfrattuosità dell'aria, e com'è inalterabile la quiete!
Non sarà forse condensata, in quelle chiazze taciturne, la cosa che gli
Occidentali chiamano: "il mistero dell'Oriente"? Anch'io da bambino,
ero percorso da un brivido, quando il mio sguardo si sviava in quegli angoli
del soggiorno, o del salotto, dove la luce non giungeva mai.
In verità, non esistono né segreti, né misteri: tutto è
magia dell'ombra”.
Così, presa tra luce e ombra, tra casa e giardino, tra
narrativa e poesia, continuo il mio imperfetto stare nella soglia, il luogo preciso
dove nascono sillabe e versi.
Oggi è giovedì 19 maggio del terzo anno senza Carnevale e
del primo anno di guerra e questa Cronaca 802 è una perfetta sintesi degli
opposti che si completano.
In questi giorni sono rimasta intrappolata nella poesia
di Wislawa Szymborska e non ho proprio voglia di essere altrove, anzi mi sento
proprio come la cerva di questa poesia, come se anche io fossi solo una
creatura scritta.
La gioia di scrivere
Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi a un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio -anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola «bosco».
Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare.
Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà quanto dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?
La gioia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale.
Come dice bene l’ebbrezza del poeta, come intesse il
mistero dello scrivere versi con una gioia che non ha eguali. Per questo l’ho
scelta per questa Cronaca 800 di martedì 17 maggio del terzo anno senza
Carnevale e del primo anno di guerra. Tutti questi 800 giorni sono intessuti di
poesia che ho scritto, letto e copiato, poesia che è gioia e anche salvezza e
salute mentale.
Ancora non ho deciso se la smania di essere altrove, di
viaggiare, di dormire sotto cieli diversi da quelli abituali, di conoscere gente
nuova sia più un desiderio della gioventù o proprio un modo di essere, di stare
al mondo. Forse l’indole guida la smania anche quando siamo giovani, ma credo
sia la gioventù a far ardere questo desiderio di incontri e di luoghi mai
visti. Forse con l’età si diventa più nostalgici e più desiderosi di ritornare
là dove siamo già stati. Quando ero ragazza i viaggi più carichi di smania e
aspettative erano quelli che mi portavano in Svizzera, a Losanna dalle mie
carissime e perdute amiche, le sorelle E. e AM. Quanto mi piaceva stare con
loro! Erano poco più grandi di me ma avevano già viaggiato moltissimo,
lavoravano, amavano i libri e parlavano tre o quattro lingue con disinvoltura. La
letteratura francese e italiana sono state una scoperta che ho condiviso con
entrambe. Io sola volevo diventare una scrittrice da “grande”. Loro amavano i libri
ma volevano solo leggerli, non scriverli. Grazie alla loro ospitalità ho
incontrato F. che invece voleva diventare scrittore, proprio come me, e leggeva
Artaud, Kierkegaard e mi ha fatto ascoltare The
Köln Concert di Keith Jarrett per la prima volta. Ho creduto nelle affinità
elettive di quegli incontri, ma la forza centripeta della vita ci ha spinti
altrove, l’unica cosa che so per certo è che lui non è diventato uno scrittore.
Ma quanto era bello arrivare a Losanna e trovarli in stazione ad aspettarmi!
Per tornare in quegli attimi questa sera mi infilo in una
poesia della poetessa che gli attimi li conosceva a memoria, cioè Wisława
Szymborska. Questa poesia è tratta da Vista
con granello di sabbia, Adelphi,
1998.
La stazione
Il mio arrivo nella città di N. è avvenuto puntualmente.
Eri stato avvertito con una lettera non spedita.
Hai fatto in tempo a non venire all'ora prevista.
Il treno è arrivato sul terzo binario. È scesa molta
gente.
L'assenza della mia persona si avviava verso l'uscita tra
la folla.
Alcune donne mi hanno sostituito frettolosamente in
quella fretta.
A una è corso incontro qualcuno che non conoscevo, ma lei
lo ha riconosciuto immediatamente.
Si sono scambiati un bacio non nostro, intanto si è
perduta una valigia non mia.
La stazione della città di N. ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.
L'insieme restava al suo posto. I particolari si
muovevano sui binari designati.
È avvenuto perfino l'incontro fissato.
Fuori dalla portata della nostra presenza.
Nel paradiso perduto della probabilità.
Altrove. Altrove. Come risuonano queste piccole parole.
Mentre cammino in quella stazione incantata che mi
portava dai miei amori è scesa la notte di domenica 15 maggio del terzo anno
senza Carnevale e del primo anno di guerra. Questa Cronaca 798 ama i viaggi in
treno, proprio come me.
Arrivo dieci minuti prima
dell’ora precisa, le quattordici e cinque minuti. Butto i fiori vecchi, verso
diversi innaffiatoi d’acqua e poi pulisco il marmo. Il cipresseto che avevamo
scelto per farti compagnia è seccato da tempo, ma la rosa continua a crescere
stagione dopo stagione. Mentre sono intenta con queste faccende ecco che l’ora
esatta arriva e così sono quindici anni da quando sei morto papà. Ho pregato,
ho parlato con te, anche oggi c’è il sole, proprio come quel giorno anche se
allora l’aria era più luminosa e anche più calda. Mi sei mancato in tutti
questi anni, mi sei mancato in tutti i modi in cui un padre può mancare a una
figlia. Ancora mi capita di ascoltare o leggere una notizia e avere l’impulso
di telefonarti per commentarla con te. Ogni tanto ti sogno, in certi periodi di
frequente. Quasi sempre sei insieme alla mamma, siete giovani e belli come
quando ero bambina, parliamo molto nei sogni anche se la luce del giorno cela
le parole e quasi mai so cosa ci siamo detti. Sfoglio i tuoi codici tutti
annotati, i libri pieni di foglietti, ricordo la tua ansia di sapere. Continuo a
lucidare il marmo rosso della tua lapide, sorrido alla tua fotografia, mi
sorrido. Perché abbiamo la stessa bocca, le stesse orecchie e la stessa attaccatura
del naso. Ti sorrido perché mi ricordo tante cose di te, della nostra vita
insieme. Fino a che ci saranno i ricordi saremo insieme qui, poi saremo insieme
per sempre. Il giorno del tuo funerale ho sentito forte che mentre la tua vita
terrena era conclusa, una vita nuova e diversa iniziava per te. È stata un’esperienza
di trascendenza fortissima, perché mentre tu scomparivi sotto la terra scura,
io venivo trascinata dall’azzurro luminoso nel luogo dove ci ritroveremo.
Il colore dell’alfabeto necessario
È azzurro l’altrove che ci
aspetta, un salto lo precede
sempre. Un salto lo seguirà
per il ritorno e allora,
solo
allora, capiremo di avere
appreso l’alfabeto
necessario
per scrivere una lettera
nell’aria
silenziosa. È azzurro l’altrove,
è azzurro tutto questo
silenzio.
Mentre al mattino mi sono
preparata al momento preciso del tuo trapasso, dopo essere stata diverse ore
nel tuo piccolo cimitero, il resto del giorno se n’è andato e non so come è
arrivata sera, è arrivata l’ora di scrivere queste mie poche parole quotidiane.
Oggi è mercoledì 13 aprile del terzo anno senza Carnevale e del primo anno
guerra. E questa Cronaca 766 gioisce con me che tu e la mamma non abbiate
dovute vivere prima la pandemia e ora la guerra.
Questa è una domanda importante per chiunque scriva, per chiunque ami scrivere. La scrittura non arriva mai nel vuoto e nel silenzio che non siano già stati segnati dalla presenza della parola. Uno scrittore, un poeta, nascono laddove la poesia si è già manifestata, laggiù nello stesso luogo dove è nato prima di tutto un lettore. E lettori lo si diventa per caso, per ambizione, ma soprattutto per grazia. Il mio primo incontro con la poesia è stato con Garcia Lorca, con la narrativa con Verne e London. Da bambina lettrice vorace non immaginavo ancora che sarei diventata una altrettanto vorace poetessa e scrittrice. Perché anche questa non è stata una scelta, ma una grazia, una condizione ineludibile sulla quale non mi stanco di riflettere. Di nuovo mi accompagno ai versi di René Char che mi si confà davvero molto in questo freddo mese di aprile.
Come venne a me la scrittura?
Come piumaggio d’uccello
sul vetro della mia finestra,
d’inverno.
Immediatamente,
si accese nel camino
una battaglia di braci
che, ancora oggi, non si sono
spente.
Trovo meravigliosa l’immagine della battaglia
di braci che ancora non si sono spente, è davvero così, conosco quel fuoco,
conosco quelle braci, mi stuzzicano, mi sollecitano e mi scaldano. Anche in
questa fredda, fredda prima domenica d’aprile che ci porterà la Pasqua e speriamo
anche la fine della guerra. Oggi è il 3 aprile del terzo anno senza Carnevale e
questa Cronaca 756 combatte nella battaglia di braci che si combatte ogni giorno
in me.
Questo sabato è stato un sabato speciale, così ricco di incontri e di impegni, di scritture, di condivisioni, di pensieri profondi, riflessioni, amici e speranza. Prima una giornata di lezione su scrittura, storia e autobiografia con i compagni di Philo, poi la presentazione, con Rosaria Guacci, del romanzo di Laura Guglielmi Lady Constance Lloud. L’importanza di chiamarsi Wilde, un libro notevole, autobiografia romanzata della moglie di Wilde, sì Oscar Wilde era sposato, poi al finissage della mostra di Cesare Viel, marito di Laura alla Galleria Milano, un luogo di fascino settecentesco e una mostra interessante, l’incontro con altri due artisti che non conoscevo, Francesco Voltolina e Riccardo Arena. Poi una lunga passeggiata e una cena in compagnia di amici e amiche vecchi e nuovi. Milano, la mia città, è stata il proscenio di tutti questi incontri e ho apprezzato questa fortuna di essere qui oggi, delle parole che ho ascoltato, delle riflessioni condivise, delle storie già vissute e da scrivere. Da questa sabato così fitto ho imparato, una volta di più, che bisogna stare nel presente, sciogliere i nodi e trovare i fili della gioia e del senso, fili che a volte si intrecciano con quelli della paura e del non-senso, fili che vanno curati giorno dopo giorno.
Le storie che escono
dalla tessitura
Corrono veloci le mani,
corrono sul telaio invisibile
del giorno, corrono e
incidono l’aria, danno senso
ai nostri gesti, ne disegnano
i contorni e noi nel vivere
li riempiamo di senso e di
speranza. Poi si fermano
le mani, cercano il riposo
della notte e ascoltano con
noi, in silenzio, le storie
che escono dalla tessitura.
Oggi è sabato 12 marzo del terzo anno senza Carnevale e
del primo anno di guerra e questa Cronaca 734 sta ancora tirando questi fili
per farne una matassa, un filato pronto per la nuova tessitura.
Mi piace ascoltare le persone, mi piace ascoltare storie vere d persone vere, tanto quanto mi piace leggere storie più o meno inventate in romanzi e racconti. Ieri sera il mio amico Luciano mi ha raccontato una storia tragica e toccante che riguarda sua sorella. Ero appesa al filo del suo racconto, talmente intenso e perfetto, che l’ho ascoltato senza parlare, fino alla fine. Eravamo in piedi nella sua cucina, abbiamo pelato le patate, messo del petto di pollo a friggere, stappato una bottiglia di vino, e all’improvviso lui ha iniziato a raccontare una storia che inizia con una bella storia d’amore e finisce con una tragedia, la morte di un’amata nipote. Ci siamo fermati, l’aria intorno si è fermata e il tempo si è fermato e ci siamo trovati a camminare nel cuore di un inverno canadese. Lui è una persona che ha il dono dell’amicizia, che sa mettere in relazione le persone, è accogliente, intelligente, colto e affronta la vita con lo stesso entusiasmo di un sedicenne. Poi oggi a pranzo, ancora immersa nell’atmosfera di ieri sera, sono uscita a pranzo, in una vecchia trattoria milanese che ci ha portato indietro nel tempo, con Elvio, che conosco dai tempi delle scuole superiori. Anche lui è un uomo di rara intensità, ci siamo aggiornati sulle cose accadute in questi ultimi mesi o anni, abbiamo iniziato a parlare di progetti futuri insieme, di libri, di poesia. E poi di pandemia e di guerra, perché alla realtà è impossibile sottrarsi. E dopo Elvio una lunga chiacchierata con Fiorella, nuova amica, anche lei con un’energia giovanile incredibile. Poi al telefono con Elis e i problemi idarulici a casa sua e con Giuseppe che è in grado di risolvere qualunque problema pratico e di aggiustare qualunque cosa. E poi lavoro, tanto lavoro, tante cose da leggere e da scrivere. E di nuovo fuori a cena, questa volta con la mia amica poetessa Annalisa. Siamo andate nel solito cinese dove mangiamo sempre gli stessi piatti e siamo state bene, eravamo avvolte in una bolla di intimità, di confidenza e di vicinanza. Abbiamo parlato di guerra, pandemia, lavoro, colleghi, amicizia e di poesia, di moltissima poesia e lei mi ha letto le poesie nuove tra cui un testo profetico, con immagine di guerra che ha scritto un mese prima che davvero i russi invadessero l’Ucraina. Non so come sono arrivata alla fine di questa giornata, ho parlato e ascoltato tantissimo, ho imparato cose nuove, mi sono angosciata, ho riso e scherzato e la notte è scesa su di noi, non benevola, non ostile. Noi, che viviamo in questo angolo di mondo ancora tranquillo e ancora protetto.
Scrivere come se
fosse la cosa più importante
E adesso scrivo, scrivo
per non perdere nulla
di questa giornata, scrivo
come se fosse la cosa più
importante, più importante
ancora dell’avere respirato
e riso e pianto e avere
alzato insieme gli occhi verso
queste cielo innocente che
accarezza le nuvole e sorride
al vento. È quasi primavera,
è quasi pace, è quasi, tutto
deve ancora arrivare a
compimento. Sorrido con
il cielo e mi abbandono
alle nuvole. Respiro, svanisco.
Ora posso abbandonarmi alla notte e al sonno, sperare che
il cielo di domani si risvegli con me in un mondo più quieto, senza guerra,
senza dolore. Oggi è giovedì 10 marzo del terzo anno senza Carnevale e del
primo anno di guerra e questa Cronaca 732 è già addormentata.
Sono uscita anche oggi per una breve passeggiata all’imbrunire, ma faceva freddo, il vento gelido e la pioggia mi hanno spinta a rientrare a casa il prima possibile. Così ho fatto, incerta se riprendere in mano gli appunti del pomeriggio o rimettermi a rileggere la parte finale del romanzo nuovo. Così ho fatto e mi sono lasciata riprendere dalla storia e dai miei personaggi, mentre la Cronaca nuova, non ancora scritta, grattava alla porta come un gatto curioso e così ho dovuto lasciarla entrare. Aveva questa poesia per me e l’ho accettata.
Canto per un lunedì
invernale
Posso lasciare il tuo nome
in bilico tra l’abete e questo
cielo bianco che copre nuvole
addormentate e un vento ancor
più improbabile, quieto come
sta sulla cima dei rami. Sembra
rovesciato il mondo, non senti
quanto silenzio dove prima
brillavano le luci della
sera? Ma tu non rispondi, non
puoi, neanche se ti ho chiamato,
non puoi, perché hai smarrito
il mio nome e anche la mia voce.
È così dolce sentire le parole che scorrono tra le dita e
il foglio, scivolano e occupano il posto che già stavano reclamando, perché le
parole amano anche l’inverno e i suoi infiniti lunedì.
Oggi è proprio un lunedì, il 14 febbraio del terzo anno
senza Carnevale e questa Cronaca 708 ha preso molto sul serio il suo essere
gatto e si sta lisciando le zampine, io la guardo in silenzio.
Ho imparato l’incertezza in questi anni, forse ho imparato a ricordarla, a ricordare pandemie minori degli anni Sessanta del secolo scorso, crisi geo-politiche, la Guerra fredda e la sua fine, la caduta del Muro di Berlino, l’implosione della Jugoslavia, l’assedio di Sarajevo, le guerre del Golfo e così a ritroso e avanti e indietro nel tempo. La nostra civiltà aveva relegato la morte nei videogiochi, dove si risorge, e nei libri gialli e neri, dove l’assassino viene quasi sempre punito. Il virus non aveva volto, odore, consistenza e ha iniziato a colpire alla cieca i più fragili delle nostre società, gli anziani, gli ammalati. In qualche modo, a fatica, abbiamo resistito, abbiamo creduto di essere fuori dopo le prime cinque settimane di lockdown nel maggio 2020. Poi un’estate libera, la sensazione di essere tornati a quella normalità che avevamo negato strillando ai quattro venti che “niente sarà più come prima”. Niente è più come prima, la fragilità della nostra civiltà, di tutta l’umanità, non è più polvere che si può nascondere sotto un tappeto. Ciò nonostante soffiano venti di guerra in Ucraina e non è certo che la pandemia si stia davvero trasformando. Quando finì l’epidemia di Spagnola, oltre cento anni fa, nessuno ebbe la voglia di analizzarla, ricordarla, scriverne. Un grande meccanismo di rimozione collettiva ha fatto sì che quella storia fosse ancor meno ricordata delle grandi epidemie di peste nera. Accadrà così anche la nostro virus? È probabile, probabile che i ricordi si facciano sempre più blandi, che altre preoccupazioni arrivino a travolgerci. Come reagirà il corpo sociale? Parleremo sempre e solo di ripresa e crescita economica? La politica riuscirà a trovare quella centralità che l’economia le aveva scippato da decenni? Cambieranno le politiche pubbliche di investimento in istruzione e sanità? Sono tutte domande aperte che troveranno risposte nel tempo. Intanto continuiamo a vedere i numeri del contagio contrarsi, le proteste anti-sistema aumentare a partire da Canada e Francia, arrancare in Italia, dove ha prevalso il buon senso e il riconoscimento dell’autorevolezza della medicina. Se ci pensiamo bene tutta la nostra vita si basa sulla fiducia in qualcosa o qualcuno. Non possiamo vivere senza fiducia, non possiamo vivere senza prudenza. Ma la giovinezza ci chiama a essere spericolati e l’età di mezzo a guardare con un po’ di rimpianto quella libertà e quella sfrontatezza che abbiamo conosciuto da giovani. Certo, le giovani generazioni dovranno imparare a elaborare il trauma della distanza fisica e della scuola in DAD, ma ci riusciranno, chi prima e chi dopo, ognuno a modo suo e con i suoi tempi. Mi colpiscono molto di questi tempi soprattutto le storie degli anziani che in questi anni di pandemia hanno fatto ordine nelle proprie case, nei ricordi, hanno regalato le cose preziose o significative, buttato quelle che non lo erano più e poi hanno cominciato a progettare nuovi viaggi, cene con gli amici e hanno imparato ad accettare la perdita come una dimensione stabile della nostra vita. Dunque le parole di questi giorni sono incertezza, fiducia e perdita. Un’oscillazione continua di senso che delinea e delimita la condizione umana. E che per questo rende la nostra esperienza, il nostro passaggio su questo bellissimo pianeta, così straordinario. Mi sto chiedendo spesso se continuerò a scrivere queste Cronache ancora a lungo e penso che lo farò, perché sono un esercizio quotidiano, una ricerca personale di senso per me e per i miei lettori e mi concedono la gioia di una condivisione. Scrivo perché mi piace scrivere, perché è il mio modo di stare al mondo, perché l’atto dello scrivere mi riporta ai libri e agli autori che amo, alla grazia di averli nella mia vita, alla gratitudine.
Oggi è sabato 12 febbraio del 2022, terzo anno senza
Carnevale e questa Cronaca 706 è meditabonda e riflessiva quanto me che la sto
scrivendo, perché al contempo è lei a scrivere in me, a portarmi il mondo e a portarmi
nel mondo.
L’amicizia e l’amore, i libri letti e quelli scritti, la
stagione che muta, il sole che cala sempre più tardi, la luce chiara, l’intelligenza
luminosa di un’amica adorabile, il buon cibo, la passeggiata nella città
pre-serale, la consapevolezza di avere ben lavorato e la gioia di ricominciare
domattina. Questo è il bello dell’essere vivi e di vivere in una città che amo
e che conosco ogni giorno sempre meglio. Mi interessa sempre più esplorare i
quartieri che ancora non conosco bene, visitare antichi palazzi che portano
pezzi di storia in sé, leggere libri che sono pieni di storie sconosciute e gongolare
per queste storie e vederne i personaggi, appesi come una scimmietta al ramo
preferito. Poi leggere gli incipit dei nuovi racconti di questa giovane mente
luminosa e non vedere l’ora di leggere il seguito. E poi, a fine giornata,
immergersi nello studio, nella casa e nella città ormai silenziose e pronte alla
notte che per me è stato sempre il momento migliore, forse perché ho iniziato a
lavorare quando ero molto, molto giovane e la notte è stata la compagna degli
studi universitari e anche della scrittura. Forse per questo sono una creatura
più notturna che diurna, perché il buio è amico, favorisce il raccoglimento, la
riflessione e la scrittura, l’introversione, mentre il giorno è tutto slancio
verso il mondo e per il mondo.
Non so dove mi
porterà il fiume
Ho smesso da tempo di
contare le ore passate
sui libri di notte, non so
più quante sono, ma
continuo a provare la stessa
meraviglia, a sorridere nel
buio e a continuare a
esplorare tutto il mondo
che i libri custodiscono
e mi donano, pagina
dopo pagina. Poi scrivo
anch’io, seguo una vaga
idea, un frammento, anche
una piccola suggestione e
non so dove arriverò. Fuori
è davvero molto buio e limpido,
intravedo le stelle e poi
torno alla scrivania e apro
un quaderno e scrivo. Non
so dove mi porterà il fiume.
Ecco che posso concludere con questo desiderio di altrove e di scoperta anche questa Cronaca 697 di giovedì 3 febbraio del terzo anno senza Carnevale che adesso mi si siede accanto mentre continuo a scrivere.
Come mi piace trovare subito un libro quando lo cerco e,
subito dopo andare a cercarne un altro e non trovarlo. Quindi ricominciare la
caccia al tesoro libresca che tanto mi appassiona. Al punto di essere sempre in
ritardo con la pubblicazione delle Cronache che spesso si stirano e stirano e
scavallano nel giorno nuovo. Ma anche in questi casi mantengo ferma la
numerazione e la data di pubblicazione, perché ognuno di questi 696 giorni da
che ho iniziato a scrivere con maniacale ossessione queste righe quotidiane,
valeva per me la pena di essere raccontato, e questo non è solo scrivere una
Cronaca o un diario, cosa che pure mi piace fare, è un esporsi ogni giorno agli
occhi dei miei lettori, delle amiche e degli amici, portare il mondo qui dentro
e restituirlo a chi legge, scrivere racconti a puntate, molte poesie, lasciare
che le parole fluiscano e si accompagnino al silenzio più puro come le stelle
fanno con la notte.
Dove danza il colore
della primavera
La luce dei lampioni chiama
quella delle stelle, quella luce
di oggetti misteriosi cui mai
abbiamo resistito. Se dico
stella dico cielo, dico notte e
dico poesia. Se dico cielo
ecco che arrivano le nuvole e
gli alberi agitano i rami in
un saluto gioioso che solo
loro conoscono. Mi fermo a
guardare e respiro l’aria fresca
di questo mattino invernale
dove ancora non si sente
primavera, ma il suo colore
già danza tra noi.
Oggi è stata una buona giornata di lavoro e scrittura, di riordino di libri e di molto, molto silenzio. Una giornata gioiosa anche per la città che aspetta quanto me un cambiamento, una gioia a lungo attesa, parole che mi piace ascoltare e riascoltare, la poesia che è una fedele compagna, anche oggi che è mercoledì 2 febbraio del terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 696 sta riordinando il guardaroba e vorrebbe tanto portare i cappotti in tintoria. È tempo, forse è tempo di tornare a essere fiduciosi, forse la pandemia sta davvero rallentando, forse il Covid sparirà così come è apparso e come fece la Spagnola che impestò la terra per un paio d’anni e poi sparì.
Quali
sono le cose che rendono ogni giornata una giornata felice? Di sicuro il sole,
quando intiepidisce l’aria, mi chiama a sedermi su una panchina fuori dalla
biblioteca e si offre al mio viso e io faccio lo stesso. Mi sono fermata a lungo,
sino a quando la luce e il calore non hanno iniziato a farmi girare la testa e
allora, piano, mi sono spostata verso una zona d’ombra e sulla soglia dell’ingresso
ho sentito risuonare i passi degli operai che entravano a lavorare alla De
Angeli–Frua, fabbrica tessile andata distrutta durante la Seconda Guerra
Mondiale. È tutta una stratificazione di ricordi quest’area vicino a casa, dove
c’era anche un bosco spontaneo sorto sulle rovine della fabbrica e che venne
quasi completamente tagliato durante un tentativo di speculazione edilizia, di
cui ho già scritto, nell’agosto del 1991. Ma sono così tante le tracce del
passato in questo quartiere che non mi stanco mai di andare a cercare particolari
che non conoscevo sui libri e su internet. Oggi sembrava proprio primavera, l’aria
era sottile e immaginavo di sentirci profumi che ancora non ci sono. Una fervida
immaginazione rende una giornata qualunque una giornata felice. Sono passata apposta
davanti al panettiere solo per poter respirare l’aroma del pane appena sfornato
e dal fruttivendolo per catturare con le narici quello dei molti agrumi esposti
sul bancone. Ho fatto anche un esercizio che non riesco mai a finire, cioè
riuscire a ricordarmi tutti i negozi che si sono succeduti in via Marghera, una
delle vie più belle di Milano, ma non ci riesco quasi mai, anche se ricordo
quanto era piacevole questa zona della città, metà borgo antico e metà
quartiere elegante, quando ho iniziato a frequentarlo negli anni delle scuole
superiori. Intorno alla scuola Novaro-Ferrucci e alle rovine della fabbrica ci
ho camminato così tante volte che i miei passi potrebbero avere contribuito a
incidere il selciato. Così come i miei sguardi che non si fermano mai e
continuano a interrogare i palazzi e le finestre alla ricerca di storie nuove
da raccontare o raccontare di nuovo perché nessuno le ricorda più. Amo molto
gli scrittori che si identificano, almeno in parte, con la città in cui vivono,
a volte da quando ci sono nati, come Paul Auster e New York, Fernando Pessoa e
Lisbona, Virginia Woolf e Londra, giusto per citarne alcuni. Anche Milano è
stata molto raccontata nel corso del tempo da numerosi scrittori che l’hanno
anche solo visitata nel giro di pochi giorni. Ho raccolto un’infinità di
citazioni e testimonianze per il romanzo che ho appena finito di scrivere e mi
piace andare a rileggere di quella Milano antica che nessuno vedrà mai più. Una
giornata felice è anche quando scopro le tracce di altri scrittori per le vie
che più amo e mi piace questa convivenza immaginaria con loro e la mia città,
anche se spesso i palazzi dove hanno vissuto non esistono più.
Il canto di Milano
È
forse questo il segreto
della
parola, custodire
per
noi quella luce e
quei
volti che non abbiamo
mai
veduto ma che possiamo
ricordare
come se fossero
nostri,
come se il tempo
fosse
solo un luogo che
ci
appartiene e cui apparteniamo
anche
se non lo sappiamo, anche
se
non lo vogliamo. Per tutti
quelli
che l’hanno amata, per
quelli
che la vivono senza
amarla,
per tutto il passato
e
per questo presente, per
tutta
questa vita intorno e
dentro
di me, io canto questo
tuo
stesso canto, mia amata
Milano,
la mia città, il mio
posto
nel mondo.
E
così, su queste note amorose è trascorso questo sabato 29 gennaio del terzo
anno senza Carnevale e questa Cronaca 692 è molto orgogliosa di essere milanese
e io con lei.
Due
delle attività umane che più mi piacciono sono in perfetta antitesi: stare
ferma alla scrivania – a leggere e scrivere - , o uscire e andare a zonzo per
la mia città come se fossi una turista e riuscire a stupirmi davanti al mio
albero bellissimo come se non lo avessi visto mai. Le novità che l’occhio
coglie sono favorite soprattutto dalla diversa luminosità e atmosfera, anche
questa mattina c’era una leggera nebbia, perché i colori del mondo cambiano
moltissimo a seconda della luce. Così, di fatto, è proprio la luce a essere la
scrittrice del mondo e io ne sono una fedele lettrice impegnata a decifrare
significati, a stratificare ricordi e a trasporli sulla mia carta che non è il
mondo intero ma un foglio bianco, reale o virtuale, poco importa.
La
luce ha molti aiutanti in questa faticosa opera quotidiana e chi sono i
principali? Sono le nuvole, le meravigliose nuvole che impediscono o
favoriscono che la luce arrivi sino alla superficie del mondo e lavori di
cesello sulle case e sugli alberi, sulle strade e su di noi umani, noi che
passeggiamo e cerchiamo di attraversare il tempo in punta di piedi, senza fare
troppo rumore, senza lasciare troppe tracce intorno a noi.
Il luogo dove tutti
i luoghi non sono che uno
Con
passo di volpe hai
attraversato
il bosco urbano
che
circonda la mia casa. E
non
sono i sussurri delle foglie,
non
i fischi del vento che mi
hanno
rivelato il tuo passaggio,
un
andare veloce che non si è
trasformato
in presenza, ma
solo
in tracce che gli elementi
hanno
presto cancellato. Nessuna
impronta
sul selciato, niente
piume
nel nido abbandonato,
non
una sola parola incisa sul
muro
che circonda il mio
giardino.
Eppure so che sei
passato,
me lo dicono i sogni,
notte
dopo notte, me lo dice
la
luce che si ritrae a ogni
mio
passo per condurmi
verso
di te, in quel regno
che
posso solo immaginare,
in
quel luogo fatto di tutti
i
luoghi che è la nostra
memoria
comune, madre.
Eppure
vorrei, proprio vorrei
per
una volta ancora vedere
le
tue mani nude scavare
nella
terra e poi la pianta e
poi
il fiore, rosa, perfetto e
profumato
che non avresti
mai
raccolto. È quel profumo
la
nostalgia, è quel colore che
tinge
tutte le parole che non
ci
siamo dette, che ancora
non
ci siamo dette.
Così
la città mi ha accolto con tracce di mia madre nei luoghi dove siamo state
insieme e dove non l’ho cercata, è stata lei a trovarmi in questa giornata di
inverno gelido e umido, venerdì 28 gennaio 2022, il terzo anno senza Carnevale.
Sono queste Cronache a custodire quel che trovo qua e là e questa Cronaca 691
non è da meno di quelle che l’hanno preceduta e tiene in ordine in una specie
di erbario tutto quello che abbiamo raccolto insieme, in giro per la nostra città.