Leggo sempre con grande curiosità le biografie e i memoriali degli
scrittori, così come i diari, le autobiografie e gli epistolari. Così tra ieri
notte e questa mattina ho letto il nuovo libro di Emanuele Trevi Due vite, in cui lo scrittore rievoca e
racconta per frammenti, così come la memoria funziona, le vite degli scrittori
Rocco Carbone e Pia Pera, suoi grandi amici di gioventù. Amo i libri di
ciascuno di loro e non potevo che amare questa narrazione dove la vita di Trevi
stesso diventa parte della geometria variabile di tre esistenze segnate dalla
passione per la letteratura, per il senso dell’amicizia, per le vite esemplari
di una generazione, la mia, troppo piccola per il ’68, ma abbastanza grande per
il ’77.
Cosa fa di uno scrittore uno scrittore? Nelle biografie, più o meno
letterarie, si cerca sempre di scoprire l’evento, l’azione, il moto dell’anima,
cioè la causa che porta un essere umano a chiudersi in casa a scrivere, così
come anche Trevi confessa. Il tempo del vivere e il tempo dello scrivere, le
ambizioni della gioventù, sia Carbone che Pera parevano destinati a una
brillante carriera universitaria, l’intrecciarsi di amori e amicizie, dove
scopriamo che Chiara moglie di Trevi è la scrittrice Chiara Gamberale che è
stata grandissima e intima amica di Rocco.
C’è una fotografia scattata da Rocco che ritrae Emanuele e Pia
sorridenti: “Inspiegabilmente, alla fotografia si associa l’idea dell’«immortalare»,
ma è più un modo di dire sbagliato, non c’è nulla che più della fotografia, in
un modo o nell’altro sempre vincolata all’attimo e al presente, ci ricordi la
nostra transitorietà e futilità. Come l’angelo con la spada infuocata (il più
incazzato e inflessibile degli angeli) il tempo ci sbarra ogni via del ritorno
a quel paradiso terrestre che vediamo nelle fotografie, trasformando ogni gesto
e ogni presenza nell’emblema di una caduta inarrestabile. D’altra parte, quell’attimo
che la fotografia ritaglia nella durata può rendere visibile un’essenza, un
aspetto permanente del carattere”.
La fotografia è un modo formidabile che fissa nella nostra memoria un
istante preciso del tempo e ci permette di riviverlo all’infinito. Un tempo,
dove non esistevano ritratti e dove era impossibile riconoscere qualcuno che
aveva attraversato la tempesta degli anni, era il symbolon, un oggetto diviso in due parti di cui una veniva
consegnata a chi partiva e che lo rendeva riconoscibile al ritorno. La fotografia
è simbolo di ciò che è stato e, come la scrittura, permette ai morti di
ritornare tra noi o di congedarsi definitivamente. Trevi racconta della
presenza inquieta del suo amico, dell’insonnio, del panico insorti dopo la sua
morte e che finirono solo quando lui si prese cura del romanzo inedito e
incompiuto di Rocco. Le fotografie di un tempo, hanno un gusto particolare perché
sono in bianco e nero o in colori sbiaditi, come se la luce fosse stata costretta
a restare nel luogo dove ci ha strappato la forma per imprimerla sulla carta.
Prendersi cura in ognuno dei mondi che abitava, umano, animale e
vegetale, era la cifra di Pia Pera, finissima traduttrice dal russo, squisita
narratrice che aveva smesso di scrivere romanzi dopo una brutta causa che le
aveva intentato il figlio di Nabokov. L’eredità di un casale di famiglia, le
offrì la possibilità di reinventarsi, di nuovo, la vita. Con l’orto e il
giardino nasceva una nuova scrittrice che aveva anche il piacere di gironzolare
per librerie a raccontare questa passione e infatti l’avevo conosciuta alla
libreria Utopia di Milano al tempo dell’uscita di L’orto di un perdigiorno che avevo letto e poi segnalato, forse
anche regalato alla mia amica Paola detta “del giardino” come la chiamava mia
madre per distinguerla dall’altra Paola nata lo stesso giorno, il 28 giugno, e
con le Paoline, come le chiamo io, abbiamo festeggiato compleanni e onomastici,
sempre più a distanza ma senza mai dimenticarci anno dopo anno.
I due scrittori scomparsi, Rocco per un incidente in motorino, Pia per un’inesorabile
malattia degenerativa, rivivono ed emozionano nella narrazione di Trevi e
lasciano tracce su di noi la loro scrittura, il loro dolore, la depressione
bipolare di Rocco e la SLA di Pia, come la polverina, un insieme di scaglie
colorate e microscopiche, che sta sulle ali delle farfalle e le rende
riconoscibili alla specie, oltre che oggetto di incanto per noi umani. Le
parole degli scrittori e dei poeti sono una polverina immaginaria che colora la
memoria e riporta in vita i morti.
Al duo degli scomparsi, fatti rivivere da Trevi, si accompagna sempre l’ombra
dello scrittore che confessa: “Scrivere di una persona reale e scrivere di un
personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere
il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il
linguaggio ci offre”.
Se Rocco era infelice, e questa infelicità era parte fondante del suo
essere, Pia era una creatura incantevole.
“Più la conoscevo, o credevo di conoscerla, più Pia mi sembrava
distaccata da una concezione comune del tempo. Per tutti noi, voglio dire, c’è
un tempo evidente, che è quello in cui prendiamo forma e veniamo consumati,
seguendo una direzione irreversibile, come una pallina su un piano inclinato. Ma
esiste anche un tempo meno percepibile e non misurabile in giorni o anni, nel
quale non facciamo che spendere energie puramente negative, necessarie a
respingere oscure minacce, a ricercare un instabile equilibrio tra forze
contrarie, a fuggire da ciò che i nostri genitori hanno desiderato per noi. Non
ce ne accorgiamo nemmeno, eppure, quando ci sentiamo stanchi, non dovremmo
pensare solo a ciò che abbiamo fatto, ma all’oscuro lavoro di sottrazione e
rinuncia che ci costa la nostra stessa consistenza, nella veglia e nel sonno. Credo
che avessero ragione gli antichi filosofi che supponevano uno strato della
nostra anima in comune con altre specie di esistenza, una dimensione “vegetativa”
del nostro essere che tende a sfuggire alla coscienza come l’attività di un
organo involontario. L’individuo che recupera alla sua consapevolezza questa forza
negatrice, questo potere cieco di pura persistenza, questo ritmo stagionale di
espansione e contrazione, riconoscendosi per questa via intuitiva in ogni
fenomeno della vita cosmica, non considerandosi molto diverso da un cane
randagio, da una venatura del marmo, da un cespuglio di rosmarino, ha ottenuto
qualcosa di molto simile alla salvezza. Invece di rinunciare all’egoismo (come
se fosse possibile!) lo ha attraversato fino in fondo, ed è sbucato nella
libertà senza bisogno di abiurare nessuna maschera indossata in precedenza.
Questa è stata la strada di Pia, e questa strada conduce a qualcosa che è
insieme metafisico e fisico al grado supremo: un giardino. È un’idea che si può
calpestare, che lascia tracce sulle scarpe, in un giardino, ciò che pulsava nel
buio, la forza oscura e caparbia che si consuma resistendo alla morte, affiora
alla luce. La freccia e il circolo trovano il loro punto di identità.
Quando immagino Pia nel suo giardino, una cesta di vimini in una mano e
una piccola zappa nell’altra, non mi viene in mente solo un essere umano che
rende vivibile o addirittura bello uno spazio estraneo. Quella che mi si fa
incontro è un’immagine della totalità della vita, un’immagine che racchiude in sé
ciò che è possibile sapere e ciò che non si può sapere, il giorno e quella
parte della notte che, come nelle sonate di Chopin, non diventa mai la luce
dell’alba, non passa, permane”.
Così è la nostra vita, un frammento di spazio/tempo che non passa e
permane, libro dopo libro, parola dopo parola, scrittore dopo scrittore,
lettore dopo lettore.
Ecco, anche per oggi ho finito di raccontare una storia ai miei amici
reali e immaginari, quelli che vivono nella città non più silenziosa, dove, teoricamente
risiedo anch’io e quelli che popolano le terre ai piedi delle Montagne della Nebbia.
Gli uni sono specchio degli altri e in ciascuno di essi io pure mi rispecchio,
come ha fatto Emanuele ricordando Rocco, che rivive in un ulivo piantato nel
luogo dell’incidente mortale, e Pia con il suo giardino segreto.
Gli scrittori, è sempre Trevi a ricordarcelo, come i bambini riescono a
costruire un mondo dentro il mondo, un regno che è sempre un regno e che offre
un luogo alla memoria, anche se incerta e fugace: “Come i fiori di melo appena
sfiorati dalla brezza, anche i ricordi di chi abbiamo conosciuto talmente bene
che la consuetudine è diventata quasi un riflesso condizionato, si staccano e
volano via con rapidità inconcepibile. Pensiamo di averne accumulati
tantissimi, così numerosi e vividi da renderli inestinguibili – e invece in
mano ci resta poco più di uno sfarfallio di immagini incerte e fuggitive. Forme
di memoria talmente insignificanti e sbriciolate da equivalere alla
dimenticanza”.
Noi non ricordiamo ciò che abbiamo dimenticato, ricordiamo solo ciò che
abbiamo già ricordato sentenzia la sacerdotessa.
Qual è allora la scintilla che rende un ricordo tale e come riconoscere quel
cono d’ombra che inghiottirà la maggior parte di quel che abbiamo vissuto?
Con queste domande si chiude l’ultimo pomeriggio, qui sul mare quieto che
ondeggia e scivola ai piedi delle Montagne della Nebbia.
Le citazioni sono tratte dal libro di Emanuele Trevi Due vite, Neri Pozza Editore, maggio 2020
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