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domenica 6 dicembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/273: la casa delle nuvole è l’angolo di cielo sopra il primo albero che le ha chiamate per nome

 

Quando mi svegliai ero una foresta, non una foresta qualsiasi ma proprio quella che, in sogno, mi accoglieva da anni e anni.

Alti pini marittimi si mescolavano alle betulle russe, le palme della Riviera chiacchieravano fitto fitto con gli oleandri, l’acero rosso con l’albero di fico e i cespugli di rose con se stessi, perché si sa, la rosa è un fiore molto riflessivo.

Più di tutto mi piaceva essere l’albero bellissimo che è un acero riccio e ha arricchito la mia vita e la mia collezione di foglie anno dopo anno.

Ma ero anche tutti gli altri alberi della via, anche quelli che sono stati espiantati e sono anche gli alti ippocastani dall’altro lato della strada e gli immensi abeti dell’Himalaya che ombreggiavano la casa nel bosco di Soliva e la grande quercia nel campo dietro la casa di mia nonna in Calabria.

Mi addormentai quel pomeriggio leggendo le poesie di Louise Glück e, forse, è questo il motivo per cui mentre dormivo in forma umana, la mia anima si staccò e divenne la foresta di tutte le foreste, di tutti gli alberi che avevo ammirato e amato, di tutti quelli che avevo solo letto o sognato.

Anche oggi è accaduta la stessa meraviglia, mi sono addormentata donna, con le poesie della Glück in mano e al risveglio ero una foresta.

È stato lungo il tempo per sentire bene il mio stesso respiro, lungo il tempo dove ho accettato che non ci fossero più foglie sui rami.

La foresta protegge i lunghi sonni invernali della mia specie e i sogni lievi ricoperti di neve. Ha molte voci questa foresta e molte ne arrivano in sogno.

Ora sono capace di riconoscere anche le voci di voi che leggete, perché diversi sono i vostri respiri e le pause, le sospensioni mentre gli occhi scorrono le parole una dopo l’altra e lasciano che ognuna diventi una scintilla in un luogo remoto dell’anima che si incendia e chiede a sua volta parola.

Non si fermano questi alberi che intessono la mia anima, non smettono le radici di farsi profonde e i rami di stirarsi verso il cielo per attirare almeno una piccola nuvola.

Sono leggendarie le conversazioni tra gli alberi e le nuvole, sono voci di baritoni e tenori che dalla terra si elevano verso il cielo dove le nuvole soprani e contralti rispondono senza fermarsi mai a lungo.

Eppure, quel legame nato dalle voci inudibili alle nostre limitate orecchie umane, fanno sì che le nuvole sappiano ritrovare sempre la strada di casa. E casa per loro significa l’angolo di cielo sopra il primo albero che le ha chiamate per nome.

La Cronaca di oggi 6 dicembre dell’anno senza Carnevale è la 273 e il libro di Louise Glück che mi ha fatto risvegliare foresta è L’iris selvatico, tradotto da Massimo Bacigalupo e appena ripubblicato da il Saggiatore. Come sono allegri gli alberi d’inverno: sognano l’estate e aspettano la primavera.


giovedì 5 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/242: il tempo è una piccola finestra riempita dalla luce

 

Nell’ultimo giorno non rosso di questo tiepido novembre, ho scelto di chiedere asilo alla poesia.

Ho sfogliato un mucchio di libri prima di decidere dove andare e poi, come sempre, è la poesia che mi ha chiamata.

È un lungo testo del neo premio Nobel per la Letteratura Louise Glück e bisogna entrarci molto piano, lasciarsi prendere dalle immagini più che ancora dalle parole.

Se il mondo esterno è un groviglio di pericoli e preoccupazioni, starsene rinchiusi in una poesia come in un guscio d’uovo perfetto, mi sembra davvero una buona strategia di sopravvivenza immaginativa.

L’anima ha bisogno di essere supportata e nutrita, accarezzata e curata.

Facciamolo in compagnia di questi versi che vi invito a leggere e rileggere per prepararsi al primo giorno rosso per lombardi e piemontesi, giallo o arancione per il resto d’Italia.

 

Albata

 

Il mondo era molto grande. Poi

il mondo era piccolo. Oh

molto piccolo, piccolo abbastanza

per essere contenuto in un cervello.

 

Non aveva colore, era tutto

spazio interiore: niente

entrava o usciva. Ma il tempo

si infiltrava comunque, quella

era la dimensione tragica.

 

Prendevo il tempo molto seriamente in quegli anni,

se mi ricordo bene.

 

Una stanza con una sedia, una finestra.

Una piccola finestra, riempita dalle forme create dalla

luce.

Nel suo essere vuoto il mondo

 

era sempre intero, non una scheggia di qualcosa, con

il sé al centro.


E al centro del sé,

dolore al quale non credevo sarei sopravvissuta.


Una stanza con un letto, un tavolo. Lampi

di luce sulle superfici nude.

 

Avevo due desideri: desiderio

di essere al sicuro e desiderio di sentire. Come se

il mondo stesse prendendo

 

una decisione contro il bianco

perché disdegnava il potenziale

e voleva al suo posto sostanza:

pannelli

d'oro dove la luce colpiva.

Nelle finestre, le foglie

rossastre del faggio ramato.


Fuori dalla stasi, fatti, oggetti

sfuocati o intessuti insieme da qualche parte

 

il tempo era agitato, il tempo

reclamava di essere toccato, di essere

palpabile,

 

il legno lustrato

scintillante di decorazioni -

 

e poi io ero di nuovo

una bimba in presenza di ricchezze

e non sapevo di cosa le ricchezze fossero fatte.

 

Rimando di nuovo a domani il girovagare nei tre libri acquistati ieri e vi auguro una buona notte. Oggi è giovedì 5 novembre dell’anno senza Carnevale e questa Cronaca 242 risplende di poesia e autunno. La poesia è tradotta da Elisa Biagini e inclusa nella raccolta Nuovi poeti americani, Einaudi 2006

 

 

Aubade

The world was very large. Then
the world was small. O
very small, small enough
to fit in a brain.

It had no color, it was all
interior space: nothing
got in or out. But time
seeped in anyway, that
was the tragic dimension.

I took time very seriously in those years,
if I remember accurately.

A room with a chair, a window.
A small window, filled with the patterns light makes.
In its emptiness the world

was whole always, not
a chip of something, with
the self at the center.

And at the center of the self,
grief I thought I couldn't survive.

A room with a bed, a table. Flashes
of light on the naked surfaces.

I had two desires: desire
to be safe and desire to feel. As though

the world were making
a decision against white
because it disdained potential
and wanted in its place substance:

panels
of gold where the light struck.
In the window, reddish
leaves of the copper beech tree.

Out of the stasis, facts, objects
blurred or knitted together: somewhere

time stirring, time
crying to be touched, to be
palpable,

the polished wood
shimmering with distinctions--

and then I was once more
a child in the presence of riches
and I didn't know what the riches were made of.


venerdì 30 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/236: Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria

 

Cerco ogni giorno il bello del mondo dentro e fuori di me. Mi guardo intorno, leggo e rileggo, mi lascio trasportare dalle onde della poesia, a volte mia, molto più spesso di altri. Così, oggi mi sono imbattuta in questa poesia della neo-premio Nobel per la letteratura Louise Glück.

 

 

 

Nostos

 

C’era un melo nel cortile –

saranno forse

quarant’anni fa – dietro,

solo prati. Ciuffi

di croco nell’erba umida.

Stavo a quella finestra:

fine aprile. Fiori di primavera

nel cortile del vicino.

Quante volte, davvero, l’albero

è fiorito nel giorno del mio compleanno,

il giorno esatto, non

prima, non dopo? L’immutabile al posto

di ciò che si muove, di ciò che evolve.

L’immagine al posto

della terra inarrestabile. Che cosa

so di questo luogo,

il ruolo dell’albero per decenni

preso da un bonsai, voci

che vengono dai campi da tennis –

Terreni. L’odore dell’erba alta, tagliata di fresco.

Quello che uno si aspetta da un poeta lirico.

Guardiamo il mondo una volta, da piccoli.

Il resto è memoria.

 

 

In questi versi che trovo belli è l’ultimo verso più di tutti che mi colpisce e impone una domanda: ma è vero che guardiamo il mondo solo una volta da bambini e che il resto è memoria?

Credo che, scientificamente, sia vero perché l’atto della visione è una continua ricostruzione a partire da quanto abbiamo già veduto e memorizzato nel corso del tempo. Se un piccolo trauma rende cieco uno dei due occhi, accorgersene non è immediato perché il cervello ricostruisce ciò che l’occhio non vede.

Ma non sono le implicazioni delle neuroscienze a interessarmi di questi versi, ma il portato umano e poetico.

Il mondo è nuovo solo una volta, ma quella sola volta ci fa amare uno specifico paesaggio cui torneremo con nostalgia per tutta la vita.

La ripetizione dell’atto del guardare, visto come funziona il nostro cervello, rafforza la dimensione mnemonica. Ma è sempre quella prima volta che ci modella lo sguardo e rimane in noi come un marchio indelebile.

Lo sguardo è il senso più implicato nello scrivere poesia, il tatto, cioè le mani, segue a ruota. I polpastrelli sfiorano una tastiera, le dita impugnano una penna. Il terzo senso è l’udito perché le parole devono cantare nel nostro orecchio interiore e tessere, sillaba dopo sillaba, quel ritmo unico che rende parole allineate con molti a capo, una poesia.

L’olfatto e il gusto sono sollecitati in maniera minore e sono tramitati dalla memoria o sollecitati da un fattore esterno che sollecita la memoria che, così, riporta a galla qualcosa di perduto, qualcosa che non sapevamo più di sapere.

Così il piacere delle prime cose possiamo ricordarlo ed evocarlo grazie ai molto strumenti umani che, nel corso della storia, hanno potenziato i nostri sensi: la pittura, la scultura, il disegno, la fotografia, la poesia, il canto, la musica, la scrittura, la letteratura, il cinema, la Rete.

Tutte le nostre produzioni artistiche ci riportano a quello sguardo primigenio che ha suscitato in noi lo stupore di essere nel mondo e di essere mondo.

Un essere mondo che colloca noi e i nostri manufatti artistici in un preciso tempo, cioè in uno spazio dove lo sguardo della prima volta resterà eternamente.

Poi ci saranno solo ripetizioni, infinite, perché le tecnologie permettono di riprodurre all’infinito quella materia diventata arte, quello sguardo che si è incarnato in un’opera umana che andrà oltre la vita breve di ogni creatore.

L’arte è la più grande sfida al tempo che noi umani abbiamo mai lanciato. Il tempo ci consuma  e ci lascia naufragare sulle rive dell’eternità. Ma non così le nostre opere, perché crediamo fermamente alla sopravvivenza di ciascuna di esse e alla sopravvivenza della nostra anima in esse.

E anche per questo che continuo a scrivere queste Cronache, giorno dopo giorno. In queste parole rimane qualcosa di me e di quel mondo che ho veduto per la prima volta.

 

Oggi è il trentesimo giorno di ottobre dell’anno senza Carnevale, un anno che sarà solo il primo degli anni senza Carnevale? Vorrei che non fosse così, ma temo che lo sarà. Il titolo della Cronaca, nonché verso della poetessa, li ho letti sul sito del Post e ho seguito il link per arrivare a leggere l’intera poesia tradotta da Claudio Giunta. Di seguito la versione originale.

 

Nostos

 

There was an apple tree in the yard —

this would have been

forty years ago — behind,

only meadows. Drifts

of crocus in the damp grass.

I stood at that window:

late April. Spring

flowers in the neighbor’s yard.

How many times, really, did the tree

flower on my birthday,

the exact day, not

before, not after? Substitution

of the immutable

for the shifting, the evolving.

Substitution of the image

for relentless earth. What

do I know of this place,

the role of the tree for decades

taken by a bonsai, voices

rising from the tennis courts —

Fields. Smell of the tall grass, new cut.

As one expects of a lyric poet.

We look at the world once, in childhood.

The rest is memory.

 

Louise Glück, Meadowlands, Harper Collins, New York 1996.


giovedì 8 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/214: il segno ascendente, la stella, il fuoco, la furia?

 


Una Cronaca è ancor più cronaca se parla del tempo presente. Oggi Louise Glück ha vinto il premio Nobel per la letteratura e mi fa molto piacere perché lei è una poetessa straordinaria. Come quasi sempre accade con i vincitori, nel nostro panorama letterario sono sconosciuti. Louise Glück credo sia nota solo nel piccolo mondo dei poeti e dei lettori di poesia. Le uniche sue traduzioni italiane, entrambe di Massimo Bacigalupo, sono Averno, pubblicato da Libreria Dante&Descartes nel 2019 e L’Iris selvatico da Giano nel 2003. Nel 2005, se non ricordo male, ho scritto questa recensione uscita sulla rivista Poesia di Crocetti Editore e con grande piacere vi propongo:

 

“Un domestico, inaspettato paradiso terrestre accoglie il lettore dell’intensa raccolta di liriche L’iris selvatico della poetessa americana Louise Glück, magnificamente tradotta da Massimo Bacigalupo che firma anche la postfazione. Il paesaggio è dunque un giardino nella piena fioritura, l’io poetico una giardiniera affaccendata che se ne prende cura. Uno scenario di quieta normalità che si anima subito della disorientante voce dei fiori. È l’iris selvatico che ci chiama ad una comune appartenenza di creature di questo mondo intermedio tra altri mondi sconosciuti: “Tu che non ricordi / passaggio dall’altro mondo / ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò / che ritorna dall’oblio ritorna / per trovare una voce...”.  Dunque, i fiori sono portatori di un segreto che si rivela loro solo nella fioritura, e a noi nella contemplazione. Nella sua domesticità questo giardino allude sia al paradiso perduto, sia al giardino di un convento dove la cura sia parte di una preghiera che l’anima assetata volge al creatore imprigionato nella distanza e in un silenzio senza rimedio. Queste preghiere innalzate da una voce poetica, che continua a cercare nonostante questo silenzio, sono Vespri e Mattutini che si inseriscono virtuosamente tra i canti dei fiori. Fiori che nella poetessa/giardiniera cercano una mediazione con il Dio nascosto che ci ha fatti mortali. La poesia è anche volontà di salvare la bellezza e la caducità dell’esistenza dall’oblio, senza cadere mai nella Glück in una tentazione descrittiva che imprigioni la sua voce poetica in una piattezza senza possibilità alcuna di redenzione. È il Trillium a dare voce al dolore insito nell’atto stesso della creazione: “Pensa quanto comprendo già. / Mi sono svegliato ignorante in una foresta; / un momento fa ...finché questa parola venne, finché sentii / pioggia scorrere da me.” Per chi crede che la poesia possa e debba essere anche un uso non comune della lingua comune, senza cadere in inutili giochi linguistici, questa raccolta offre una ricchezza di interpretazioni davvero straordinaria. I fiori sanno molto più degli uomini di quanto accade dentro e intorno a noi: il Lamium ci insegna che “Non tutte le cose vive richiedono / luce nella stessa misura. Alcuni di noi / si fanno luce da soli…”; Il papavero rosso parla come noi “Perché in verità / sto parlando ora / come fate voi. Parlo / perché sono spezzato.” Il coro dei fiori che ha “solo il corpo per voce” interloquisce, arringa, richiama la poetessa a una visione della vita e della poesia che mai si fermi alle virtù dell’apparenza e alla semplicità del reale. Perché può forse la poesia accettare di essere costretta nella boccia di vetro del reale come fosse uno stanco pesce rosso d’allevamento? No che non può e sono questi fiori a cantarcelo, queste preghiere laiche pronunciate da una voce rispettosa che crede che “il senso dello scrivere” sia anche un tentativo di conquistare tutto ciò che non è più, tutto ciò che vediamo e anche tutto ciò che non vediamo e che in qualche modo si manifesta ai nostri sensi in maniera inusuale e implausibile. Perché - ci suggerisce questo Dio dei fiori e dei poeti - “Se apriste gli occhi / mi vedreste, vedreste / il vuoto del cielo / specchiato in terra, i campi / di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve…// poi luce bianca / non più travestita da materia.” … e infine “Perché vi avrei fatto se avessi / voluto limitarmi / al segno ascendente, / la stella, il fuoco, la furia?”

 

Speriamo che questo libro venga ripubblicato e che altre traduzioni seguano.

 

Ecco, adesso me ne vado a zonzo con questi versi nel cuore:

“Non tutte le cose vive richiedono / luce nella stessa misura. Alcuni di noi / si fanno luce da soli”.

 

La Cronaca 214 racchiude e celebra giovedì 8 ottobre dell’anno senza Carnevale.

mercoledì 10 giugno 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/94: bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto


Sono tornata alla Casa delle Sorelle sulla spiaggia, in veranda c’è solo il ragazzo che sta leggendo un libro che conosco.

  
"Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis quello dell'economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l'altro diventa difficile e vera. Il pensiero meridiano infatti è nato proprio nel Mediterraneo, sulle coste della Grecia, con l'apertura della cultura greca ai discorsi in contrasto, ai dissoi logoi".

(…)

Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l'anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada.
Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo."

Questo libro è sempre stato una grande fonte di ispirazione per me, il ragazzo mi mostra, senza parlare, i brani che ha sottolineato e che, a mia volta, copio per portarli in questa Cronaca.

Quando ho finito, mi fa cenno di entrare in casa e io lo seguo senza chiedere nulla.

Le tre sorelle sono intente a scrivere ognuna sotto una diversa finestra e non fanno cenno di voltarsi e salutare. Forse, anche per questo motivo, non mi accorgo che nell’ampio sofà davanti al camino spento, c’è un uomo dagli abiti di foggia orientale che ha in mano quel taccuino rosso.

- Buongiorno cara narratrice, bene arrivata! È lui a salutarmi per primo e io non posso fare altro che rispondere.

- Buongiorno architetto o come devo chiamarla?

- Architetto va bene, qui nessuno usa i nomi della terra di là. Vedo che ti piace proprio intrufolarti nelle case altrui. Ho giusto finito di copiare una poesia per te e stavo per tornare nella mia nuova casa, nella “tua” Casa delle Stelle, ma visto che sei qui puoi leggere davanti a me…

- Se è proprio necessario…

Mi porge il taccuino già aperto e io leggo la poesia che ha scelto per me.



Mattutino


Non solamente il sole ma la terra
stessa splende, fuoco bianco
che balza dalle montagne vistose
e la strada piatta
tremolante di primo mattino: è questo
solo per noi, per provocare
una risposta, o sei anche tu commosso, incapace
di controllarti
in presenza della terra? … Mi vergogno
di quello che pensavo tu fossi,
distante da noi, considerandoci
un esperimento: è
cosa amara essere
l’animale sostituibile,
cosa amara. Caro amico,
caro compagno tremante, cosa
ti sorprende di più in quel che provi,
il bagliore della terra o il tuo stesso piacere?
Per me, sempre
il piacere è la sorpresa.


- Non so perché tu abbia deciso di comunicare con me attraverso la poesia, ma sono molto curioso e vorrei scoprirlo. Accompagnami a casa, così ci diciamo.

Usciamo insieme, la giornata è ancora splendida.

Camminiamo allo stesso passo, vedo in lontananza i lupi che corrono e giocano, le aquile che custodiscono il cielo e le tigri alla foce del fiume.

Il re con la regina sta passeggiando nel Giardino delle Rose, il poeta li osserva poco distante.

La sacerdotessa e il sapiente guerriero stanno osservando con il solito cannocchiale uno spicchio di cielo in cui si intravede la luna calante.

Ogni cosa è al suo posto qui, ai piedi delle Montagne della Nebbia.

Cammino con l’architetto, con il suo stesso passo, respiro la sua stessa aria, sto bene.

La gioia mi sorprende dopo poche decine di passi. C’è qualcosa in questa giornata che fa presagire una svolta, una nuova forma del pensiero.

Con quale poesia potrò rispondere alla sua poesia? Perché le sorelle non si sono nemmeno girate a salutare?

Domani tornerò nella loro casa, qualcosa, di sicuro accadrà.



Mattutino è una poesia di Louise Glück, tratta dalla raccolta L’iris selvatico (Giano 2003)


Matins

Not the sun merely but the earth
itself shines, white fire
leaping from the showy mountains
and the flat road
shimmering in early morning: is this
for us only, to induce
response, or are you
stirred also, helpless
to control yourself
in earth’s presence – I am ashamed
at what I thought you were,
distant from us, regarding us
as an experiment: it is
a bitter thing to be
the disposable animal,
a bitter thing. Dear friend,
dear trembling partner, what
surprises you most in what you feel,
earth’s radiance or your own delight?
For me, always
the delight is the surprise.


La prima citazione è un frammento da un libro imperdibile: Il pensiero meridiano di Franco Cassano. Laterza editore 1996