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martedì 8 febbraio 2022

Cronache dagli anni senza Carnevale/702. Come un lupo è il vento


 


 

Amo il vento, quello reale, quello cantato dai poeti, quello atteso quando si è in mare aperto. Ieri è stata una giornata di vento inatteso e inusuale qui a Milano, un vento cattivo che ha ferito persone, abbattuto alberi, cornicioni, danneggiato staccionate, muri e tetti. Per fortuna non dovevo uscire e non l’ho fatto, ma ho visto anche sui poveri alberi nella mia strada, l’effetto ventoso di questo evento anomalo. Una volta il vento a Milano era talmente raro da essere una festa, ne ho scritto talmente tante volte, sia nei romanzi che nelle poesie, soprattutto nelle poesie, dove il vento è spesso uno dei protagonisti dei miei versi e che ho anche usato nel titolo del mio quarto libro Scrivere il vento, per l’appunto. Quando c’è il vento qui nella città mai più silenziosa la prima poesia che mi viene sempre in mente è questa di Attilio Bertolucci tratta dalla raccolta Sirio del 1929:

 

Vento


Come un lupo è il vento
che cala dai monti al piano,
corica nei campi il grano
ovunque passa è sgomento.
Fischia nei mattini chiari
illuminando case e orizzonti,
sconvolge l’acqua nelle fonti
caccia gli uomini ai ripari.
Poi, stanco s’addormenta e uno stupore
prende le cose, come dopo l’amore.



Quando il vento smette di soffiare è proprio lo stupore che resta e il silenzio, un silenzio diverso dal silenzio precedente. Mi viene in mente una giornata ventosa e letteraria del settembre della terza media, quando avevo letto su una rivista femminile un racconto che si intitolava (forse) “Stasera scrivo una lettera a Mauro” e la protagonista femminile si chiamava Elena. Mi ero così emozionata, come se fosse un segno del destino, perché Mauro era il ragazzo per cui avevo una cotta, come qualche altra decine di ragazzine, perché lui piaceva a tutte, aveva i capelli biondi lunghi e suonava la chitarra. Tra le altre fan c’era una cattivissima compagna di classe, tale Antonella che con la sua sodale Laura (mi ricordo i cognomi di tutti, ma non sarebbe gentile scriverli), si appropriò del mio diario da me sbadatamente lasciato sotto il banco durante l’ora di ginnastica. Quando tornai in classe mi accorsi subito che il diario era stato spostato ma non mi aspettavo certo di trovare le pagine strappate. Credo di avere litigato con le due compagne di classe, quel racconto non riuscii mai più a recuperarlo e rileggerlo, ma quell’aura della giornata di settembre ventosa e amorosa è rimasto in me, intatta, come se davvero io avessi vissuto nel racconto. Non so che fine abbiano fatto gli altri protagonisti di questa breve storia, certo Antonella resterà la ladra di racconti e Laura l’aiutante stupida. E che dire di lui? Posso dire solo che era bello e che suonava bene la chitarra. Chiudo così questa giornata senza più vento, dove i ricordi tornano a posarsi come polvere e foglie secche nella città della memoria. 

Oggi è martedì 8 febbraio del terzo anno senza Carnevale e questa Cronaca 702 ancora corre nel vento.

mercoledì 14 ottobre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/220: dove le parole sembrano poche, ma ottobre è dolce nei pensieri

 


Quando in me la poesia fa il nido e riposa, non cerca una strada da percorrere, non cerca di essere per il mondo, mi fermo e ascolto, mi fermo e guardo quel che mi accade intorno.

Mi fermo e leggo e rileggo poesie che amo e che oggi voglio condividere con voi. Parto con Antonella Anedda.

 

ottobre, notte

 

Accetta questo silenzio: la parola stretta nel buio della gola come una bestia irrigidita, come il cinghiale imbalsamato che nei temporali di ottobre scintillava in cantina. Livido e intrecciato di paglia, il cuore secco, senza fumo, eppure contro il fulmine che inchiodava la porta, ogni volta nel punto esatto in cui era iniziata la morte: l'inutile indietreggiare, il corpo ardente, il calcio del cacciatore sul suo fianco.

Chiudi gli occhi. Pensa: lepre, e volpe e lupo, chiama le bestie che cacciate corrono sulla terra rasa e sono nella fionda del morire o dell'addormentarsi sfinite nella tana dove solo chi è inseguito conosce davvero la notte, davvero il respiro.

 

 

 

Dopo la Anedda scelgo un’altra poetessa, Cristina Campo.


E mentre indugia tiepida la rosa

                                          1945

 

 

Si ripiegano i bianchi abiti estivi

e tu discendi sulla meridiana,

dolce ottobre, e sui nidi.

 

Trema l'ultimo canto nelle altane

dove il sole era l'ombra ed ombra il sole,

tra gli affanni sopiti.

 

E mentre indugia tiepida la rosa

l'amara bocca già stilla il sapore

dei sorridenti addii.


E poi chiudo con un poeta: Attilio Bertolucci.

 

Sereno d'autunno

Non ricordavo un ottobre
così a lungo sereno,
la terra arata
pronta per la semina,
spartita da viti rossastre
molli come ghirlande.

Ma non ditemi non ditemi
che è una stagione clemente:
il fumo che la stria
sale da foglie che non sono più,
le cene brillano sparse.
Perché non si aspettano i morti?


Ecco, tre poesie bastano per accompagnare questa giornata verso la sua fine. L’aria è fredda, il cielo pieno di nuvole in cammino.

Ci sono giorni come questo, dove non c’è bisogno di dire molto e di scrivere. Guardarsi intorno e leggere, sembra poco ma è il senso del mondo che ci invade.

Questa Cronaca 220, pigra e meditativa, accompagna il quattordicesimo giorno del decimo mese dell’anno senza Carnevale.

Questi sono i libri da cui ho preso le poesie.

Antonella Anedda, Notti di pace occidentale, Donzelli editore 1999.

Cristina Campo, La tigre assenza, da Passo d'addio, Adelphi 1991.

Attilio Bertolucci, Il viaggio d'inverno, Garzanti 1971.


martedì 14 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/37: di ogni istante la mente s’innamora


Non ci importa sapere se la mente è un prodotto del cervello, come ci insegnano i neuroscienziati, non ci importa se mondo e coscienza siano in realtà un’unica cosa come ipotizza il filosofo e psicologo Riccardo Manzotti, né se davvero Proust fosse un neuroscienziato come dichiarava il titolo di un bellissimo libro di Jonah Lehrer, raffinato giornalista scientifico caduto in disgrazia per essersi inventato un’intervista con Bob Dylan, non ci interessa qui confutare l’errore di Cartesio, dove mente e corpo sono irrimediabilmente scissi e dove sul tema Antonio Damasio ha scritto un bellissimo libro. O meglio mi interessano da morire tutti questi temi, ma oggi voglio riferirmi alla mente nella sua dimensione poetica e creativa, nient’altro.

La mente si innamora di ogni istante ha scritto Attilio Bertolucci ed è proprio così. Alla mente del poeta non sfugge nulla, è come se fosse un setaccio, una calamita, un oceano profondissimo quando cattura il mondo che noi percepiamo al di fuori di noi.

La direzione contraria, quelle parole che arrivano da un altrove sconosciuto, è l’altra faccia della mente innamorata, è il canto delle Muse che scelgono il loro cantore senza prima spiegare le regole.

La mente poetica conosce già quelle regole, è stata conformata dalla lettura folle, è stata cesellata dalla scrittura nel deserto, ha vissuto con il proprio corpo tutto quelle esperienze che l’anno scolpita, ha percepito il mondo e lo ha inglobato e se non lo ha riconosciuto lo ha ricreato.

Virginia Woolf, in una bella recensione ai diari di Katherine Mansfield, contenuta nella raccolta Voltando pagina, coglie lo spettacolo di una mente sensibile:
“Nel suo diario non interessa la qualità della sua scrittura o l’ampiezza della sua fama, ma lo spettacolo di una mente – una mente terribilmente sensibile – che recepisce e registra una dopo l’altra tutte le impressioni casuali e disparate di otto anni di vita. Per la Mansfield il diario era un compagno, qualcuno con cui aveva un rapporto di tipo mistico. «Vieni amico mio invisibile, sconosciuto» dice nell'iniziare un nuovo volume. In esso annotava dei fatti: il tempo, un impegno preso; descriveva brevi scene; analizzava il suo stesso carattere; descriveva un piccione, o un sogno, o una conversazione. Niente avrebbe potuto essere più frammentario; niente più intimo. Sentiamo, leggendolo, che stiamo osservando una mente sola con se stessa; una mente che così poco pensa a un pubblico da usare un tipo di scrittura stenografica di sua invenzione e che, come è incline a fare la mente quando si chiude nella sua solitudine, si divide in due e conversa con se stessa. Katherine Mansfield parla di Katherine Mansfield”.

Per questi motivi i racconti della Mansfield ci toccano e sconquassano come uragani anche a cento anni dalla loro scrittura, per l’abilità di quella mente luminosa che in poche stagioni ha condensato tutta la bellezza, durezza e crudeltà del mondo.

Nel Catalogo della gioia Antonella Anedda annota:
“1.
Il senso vivo dell’arte e della poesia, il significato che non
può che essere vivo, stanno nel rimando, nel cortocircuito,
nel punto d’incrocio, nella visione tanto precisa quanto
imprevista e imprevedibile. Il quotidiano con la sua
modestia è anche l’unica realtà forte capace di sostenere la
rete di simboli che attraversano la mente, l’unica realtà
capace di dare radice a ciò che altrimenti sarebbe vacuo
riferimento senza sostanza. E qui la sostanza è nel continuo
rovesciamento delle parti tra l’elaborazione storico-formale 
e l’annotazione, l’appunto, l’istantanea”.

Sia con Anedda che con Mansfield torniamo all’intuizione di Bertolucci, della capacità della mente di innamorarsi di ogni istante come condizione necessaria allo sgorgare della poesia e della scrittura.

Una conversazione notturna su Facebook con Anna Simone mi ha indotta a chiedermi perché la mente cerchi rifugio nei film e nelle serie tv anziché nella lettura, tanti lettori forti stanno raccontando delle difficoltà che provano in questa fase. Forse perché la funzione immaginativa della mente è meno sollecitata guardando film e serie tv, mentre sono iper-sollecitati i neuroni specchio. Leggendo, l’immaginazione galoppa e produce i nostri scenari e paesaggi mentali quindi è più facile distrarsi dalla trama e trovare un altrove rassicurante. (Comunque sia, viva i film e le serie tv. Ho appena visto Martin Eden e la serie Netflix Unhortodox, entrambe storie della lotta dell’individuo creativo contro la società dominante).

La mente creativa dell’individuo cerca sempre di sfuggire ai luoghi comuni, alle bugie consolatorie e crea un mondo alternativo dove poter vivere e respirare.

Così spiega questa dimensione la scrittrice Anaïs Nin, caduta nel dimenticatoio come tanti e tante altri autori e autrici del passato, nella sua raccolta di saggi La mistica del sesso:

“Perché si scrive è una domanda a cui posso rispondere facilmente, dato che me lo sono chiesto così spesso. Penso che un autore scriva perché ha bisogno di creare un mondo in cui poter vivere. Io non potrei mai vivere in nessuno dei mondi che mi sono stati offerti: il mondo dei miei genitori, il mondo della guerra, il mondo della politica. Dovevo crearne uno tutto mio, come un luogo, una regione, un'atmosfera in cui poter respirare, regnare e ricrearmi quando ero spossata dalla vita. Questa, credo, è la ragione di ogni opera d'arte. L'artista è l'unico a sapere che il mondo è una creazione individuale, che c'è una scelta da fare, una selezione. É una materializzazione, un'incarnazione del suo mondo inferiore. Quindi spera di attirarvi altri. Spera di riuscire a imporre il suo modo di vedere le cose e di poterlo condividere con altri. E quando non riesce a raggiungere questa seconda fase, l'artista continua tuttavia coraggiosamente a tentare. Pochi momenti di comunicazione con il mondo valgono la pena, perché è un mondo per altri, un'eredità per altri, un dono. Ma scriviamo anche per accrescere la nostra consapevolezza della vita. Scriviamo per lusingare e incantare e consolare altri. Scriviamo per fare “serenata ai nostri amanti. Scriviamo per gustare la vita due volte, nell'istante presente e nel ricordo. Scriviamo, come Proust, per rendere tutto eterno, e per convincere noi stessi che è eterno. Scriviamo per poter trascendere la nostra vita, per arrivare al di là di essa. Scriviamo per insegnare a noi stessi a parlare con gli altri, per testimoniare il viaggio nel labirinto. Scriviamo per ampliare il nostro mondo quando ci sentiamo soffocati, o limitati, o soli. Scriviamo come gli uccelli cantano, come il selvaggio danza i suoi rituali. Se nella scrittura non respiri, se non piangi, se non canti, allora non scrivere, perché la nostra cultura non contempla alcuna utilità per la scrittura. Quando non scrivo, sento che il mio mondo si restringe. É come se fossi in prigione. Sento che ho perso il mio fuoco e il mio colore. Deve essere una necessità, come il mare ha bisogno di incresparsi, e io questo lo chiamo respirare”.

La mente innamorata dell’istante deve poi scriverne in forma poetica o narrativa.

Mi congedo con una mia poesia questa sera, dove non sono più così sicura che la mente possa riposare nelle storie soltanto e non nella poesia.


La mente riposa nelle storie
prima la luce, poi il suono
per questo preferisco la poesia
alla narrazione. Amo quella
velocità particolare che ti
attraversa la lingua e
il battito e giunge nel
fondo dell’orecchio.
Solo quando la stanchezza
di troppo tempo sulle mani
prevale, lascio che la mente
riposi nelle storie.

Elena Petrassi
Scrivere il vento

Ati editore 2016

lunedì 13 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/36: il vento che abbiamo dentro


Ci diciamo attraversati dal vento, siamo sconquassati dalle raffiche, ci pieghiamo su noi stessi ed avanziamo se proprio non possiamo farne a meno, cerchiamo un rifugio se non possiamo proseguire.

Il vento trascina le nuvole, sconquassa gli alberi, agita il mare.

È soffio divino, simbolo della collera di un dio inferocito, impedisce il ritorno di Ulisse e lo costringe a soste che non aveva cercato.

Il vento è voce del mondo, sua incarnazione, non udremo il suono degli alberi e delle nuvole se non fosse il vento a farsi carico di questa incombenza.

Essere la voce di qualcun altro è una sfida altissima che non sempre va a buon fine. Poeti e scrittori spesso affermano di voler essere la voce di qualcun altro, la voce dei diseredati, degli ultimi del mondo.

Due sono le strade che possono poi intersecarsi, la prima è quella della cronaca che diventa storia, penso tra i tanti autori a Paolo Rumiz e Ryszard Kapuściński.

La seconda strada è forse ancora più ardua perché attraverso l’immaginazione vuole dare voce a chi non l’ha avuta, non ce l’ha e non l’avrà mai.

La voce e il vento diventano così strumenti di riscatto e di memoria, sconfitta dell’oblio cui tutti siamo destinati.

Poi ci sono le malattie del vento, così le chiama la medicina tradizionale cinese, ma non solo.

L’etnopsichiatra Piero Coppo, autore del libro Guaritori di follia, ne aveva parlato durante un suo intervento alla Libreria Utopia circa un quarto di secolo fa, raccontando del popolo Dogon.

Il vento porta la ragione fuori di sé, entra in noi e ci possiede, ci smaschera ci fa diventare altri rispetto a ciò che eravamo stati. Ci rende forse autentici? Ci accompagna verso la libertà?

Il teologo Vito Mancuso, in una recente intervista che si può leggere sul suo sito, dice “Questa malattia attacca i polmoni, ricordandoci quanto dipendiamo dal respiro. In greco, in latino, in ebraico, in sanscrito, nella lingua indù, la parola spirito significa proprio respiro, aria che si muove, vento. La domanda è: perché tutte queste lingue, tra le tantissime parole che avevano a disposizione, sono andate a prendere proprio questa per nominare quella parte dell’essere umano che noi chiamiamo spirito? Ha la risposta? Suppongo che sia perché l’aria è la cosa più imprendibile che ci sia. Non si vede. Non si sa da dove viene. Né dove va. È imprevedibile e inclassificabile. Cosa vuol dire questo? La spiritualità non è andare in Chiesa: è qualcosa che riguarda tutti gli esseri umani che vogliono essere liberi, cioè tutti quelli che si pongono il problema di gestire le raffiche di vento che hanno dentro. Non di eliminarle, né di rimuoverle. Perché è questo caos che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi e ci rende uomini”.

Le raffiche di vento che abbiamo dentro sono simbolo del nostro desiderio di essere liberi.

Il vento è il respiro che entra dentro di noi, sosta e viene poi espulso. Leggete il blog di Nicoletta Cinotti e guardate i suoi video su Youtube: la consapevolezza del respiro è uno dei primi passi per la consapevolezza più ampia del nostro essere su questa terra, in questa casa cui siamo arrivati senza averlo chiesto, dove troviamo nutrimento e riparo.

A nessuno di noi possono bastare nutrimento e riparo, l’anelito alla libertà e alla pienezza della vita è tutto quel vento che ci agita dentro.

Il poeta Attilio Bertolucci, padre dei registi Bernardo e Giuseppe, ha scritto una delle poesie che più amo sul vento:


Vento
Come un lupo è il vento
che cala dai monti al piano,
corica nei campi il grano
ovunque passa è sgomento.
Fischia nei mattini chiari
illuminando case e orizzonti,
sconvolge l’acqua nelle fonti
caccia gli uomini ai ripari.
Poi, stanco s’addormenta e uno stupore
prende le cose, come dopo l’amore.


Attilio Bertolucci

Sirio
Alessandro Minardi Editore 1929

Se Bertolucci ci consola e ci dà un sollievo temporaneo, è di nuovo Danilo Bramati a squarciare questo nostro tempo di respiri corti e di vento impazzito.

Il vento

Il vento succhia, tira, strappa,

stropiccia folle di alberi,
il vento incalza, ti costringe
a uscire fuori da te.
Tu non vuoi, ti ribelli,
inutilmente.

E le strade sono inquiete,

tutti che cercano riparo
infagottati negli abiti pesanti.
Non c’è sciarpa, non c’è bavero che tenga,
dovranno subire questo vento.

Vento, perché ci assali,

ci torturi, ci strapazzi?
Sgombra le nostre strade,
lasciaci liberi di andare!

Ma siamo tutti incamminati

nei medesimi sentieri
e un vento ci scava dentro:
questo è il clima, questo è il tempo.

Danilo Bramati
Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017

domenica 17 aprile 2016

D'ogni istante la mente s'innamora

D’ogni istante la mente s’innamora
come fa la farfalla che guardiamo 
dimentichi, seduti sul mattone
consunto, ancora in ombra, della soglia,
svegliandoci dubitosi, le mani
calde allacciate alle ginocchia.
Quanto dura il silente abbandono,
la pace, il muovere lento del sole
nel volo sù sù per l’aria celeste
di fumo che si sfa?
Oh, infinitamente se perduto
che ha l’occhio il palpitare irragionevole
stanco ritorna a terra e d’improvviso
ci sorprende alle spalle una presenza,
la nostra fanciullezza troppo mite
scolora in volto, l’ora brucia.
Così eccoci, non lontani dal punto,
la soglia porosa, ove sedevamo, l’inverno
accettato da tutti qui. Il tempo
è un battito di minuti che si sente
a intervalli e si perde e ritrova
senza spavento, mentre l’ultima
luce del giorno s’apprende a un comignolo
solitario, al curvo viandante
che se ne va e non torna sino all’anno
nuovo. Allora si sarà aperta l’aria
un’altra volta, le strade tenere
nel disgelo porteranno qua e là
in una confusione di raffreddori e di auguri,
i piccioni nel prato, le lenzuola nel cielo
la posta del mattino azzurra fra le mani.


Attilio Bertolucci

36 poesie
(Frammento escluso da "La capanna indiana", 1951)
Mondadori 1997

domenica 17 gennaio 2016

Come un lupo è il vento

Tutto il giorno con questa poesia in testa, anche se questo è un vento invernale...


Vento
Come un lupo è il vento
che cala dai monti al piano,
corica nei campi il grano
ovunque passa è sgomento.
Fischia nei mattini chiari
illuminando case e orizzonti,
sconvolge l’acqua nelle fonti
caccia gli uomini ai ripari.
Poi, stanco s’addormenta e uno stupore
prende le cose, come dopo l’amore.


Attilio Bertolucci
Sirio
Alessandro Minardi Editore 1929

sabato 17 ottobre 2015

Non ricordavo un ottobre così a lungo sereno

Sereno d'autunno

Non ricordavo un ottobre
così a lungo sereno,
la terra arata
pronta per la semina,
spartita da viti rossastre
molli come ghirlande.

Ma non ditemi non ditemi
che è una stagione clemente:
il fumo che la stria
sale da foglie che non sono più,
le cene brillano sparse.
Perché non si aspettano i morti?

Attilio Bertolucci
Il viaggio d'inverno
Garzanti 1971

martedì 18 agosto 2015

la luce d’estate lenta a spegnersi nutriva del suo fuoco

Ringraziamento per un quadro

Come potrò uguagliare il pittore
dilettante Fiorello Poli che
fece la «Mietitura del ’44»
nei miei campi, vivendo da sfollato
in casa del mezzadro e alternando
deschetto e tavolozza, se il verde
delle piante, il giallo del frumento,
l’azzurro delle colline lontane
e del cielo, il rosso e il viola di due
donne, una chinata a mietere
l’altra dritta a stringere un mannello
e assorta in un pensiero improvviso,
non saranno mai più quali furono?
Era un giorno bellissimo e gli stavo
vicino: il suo tocco quietava
la mia angoscia
come ascoltassi il battito d’un cuore
che la luce d’estate lenta a spegnersi
nutriva del suo fuoco, della sua
verità: avrei dovuto allora
umilmente seguirne la pazienza
nel descrivere il volgere del tempo
a un ardore più temperato, a un
primo fresco della sera.
Oggi di quel trapasso raggiante
mi parlano le ombre proiettate
dagli olmi sulle stoppie e sulla messe
rimasta intatta per metà del campo
ormai illuminato dal sole per sempre.

Attilio Bertolucci

Viaggio d’inverno
Garzanti 1971

lunedì 1 dicembre 2014

A quest’ora al tramonto se a occidente il cielo nuvoloso

Discendendo il colle


I

A quest’ora al tramonto se a occidente
il cielo nuvoloso si piagava e diveniva celeste
a oriente il campo mietuto e saccheggiato
ardeva di tanti fuochi: era la città di Roma

nel tardo autunno e qui il Tasso a occidente
del mio cammino in Sant’Onofrio e a oriente Gramsci
in Regina Coeli patirono la bellezza di cieli
similmente piagati un tale ardere di fuochi

poi che un altro anno finiva assai
amaramente della loro vita entrambi
da reclusione e castità sorrisi mentre
più giù più giù nell’ombra che infittisce

e palpita di corpi abbracciati un commercio
prospera per cui non moriranno i borghi
da queste alture ancora ocra e rosa
prima della notte e di un lume di luna

tiepido come latte e portatore d’insonnia.


II

Splendi ottone risuona legno poi che
dicembre ha disperso la nuvolaglia e viene
Natale tutto il cielo è celeste
chiara la città come una rosa.

O pomeriggio trasmutato in sera o baci
nell’illuminarsi e perdurare scuro
di vicoli e piazzette, petali
umidi di una polluzione notturna:

questa notte sveglia, la rosa
e le cornamuse dolcemente nasali
che seguirono il sereno e i suoi
lampi, lontane. E fu

il marasma o la sua prova
generale: doveva accadere qui in un
inverno corruttore e languido
così che il sudore improvviso sembrasse naturale.


III

Lo stesso amaro profumo del sempreverde
e sapore di fumo in bocca per
sarmenti bruciati – è il lavoro d’ogni giorno
da metà gennaio per questi
giardinieri avventizi, uomini
di grandi vizi e d’una media miseria,
adulteri stempiati per cui
i minorenni s’equivalgono, amati
più della vita.
Qui dove ormai, e sempre,
la bellezza soltanto dà suono
sincero, metallo che corrusca
non si consuma alla saliva dei baci.
Ne riceve ferite discendendo
il colle inebbriante di sereni lontani –
l’orizzonte aperto perché le giornate s’allungano –
chi si credette temprato dai rigori
d’un’infanzia ostinata
nell’Italia e nell’Europa che ancora
avvolge notte e nebbia e stringe gelo delirante d’inverno.
Ma lascia che al braccio piegato
(piagato) d’una curva sbianchi
la facciata d’un ospedale
dove soffrono bambini, senti
gemere il sempreverde nel piccolo
falò terminale: non disperare.

Attilio Bertolucci

da Viaggio d’inverno
Garzanti 1971

domenica 2 novembre 2014

Gli ultimi fiori hanno umidi gli occhi

ULTIME FOGLIE


Cadon le foglie, e così è di me
Gli ultimi fiori hanno umidi gli occhi.
Così è di me.
Raro si ode sul ramo ora l’uccello
Gioioso o mesto
Per l’intero bosco.

Ecco l’inverno s’avvicina e porta
Più presso al fuoco il cerchio che si stringe,
Ogni anno di più, dei vecchi amici,
Venga esso, già il cielo s’oscura,
Primavera ed estate non son più
Ogni cosa è soave ora quaggiù.

Walter Savage Landor
traduzione di Attilio Bertolucci
Imitazioni
Libri Scheiwiller 1994

sabato 1 novembre 2014

Piccola ode a Roma

                                                                       a P.P. Pasolini


Ti ho veduta una mattina di novembre, città,
svegliarti, apprestarti un altro giorno a vivere,
alacri fumi luccicando ai pigri margini orientali
percossi dalla luce tenera come un fiore,
argenti di nuvole più sopra infitti nell'azzurro
offuscandosi per brevissimi istanti, suscitatori di tremiti,
e risfolgorando a lungo, poi che il bel tempo è tornato
e durerà, se è neve quel viola lontano
oltre i colli che ridono di borghi noncuranti
le mortificazioni dell’ombra, poi che il sole ha vinto, o vincerà.

Tu eri viva alle nove della mattina,
come un uomo o una donna o un ragazzo che lavorano
e non dormono tardi, hanno gli occhi
freschi attenti all'opera assegnata,
nell'odore di legno bagnato e di foglie bruciate
o in quello amarognolo degli alberi sempre verdi
che crescono sui tuoi fianchi e si vedono dall'altura
per cui io scendo inebriato ai ponti
fitti di gente in transito, da qui silenziosi e bianchi
come ali d’uccello a pelo dell’acqua giallina.

Io penso a coloro che vissero in questa plaga meridionale
scaldando ai tuoi inverni le ossa legate da geli
senza fine in infanzie intirizzite e vivaci,
a Virgilio, a Catullo che allevò un clima già mite
ma educò una razza meno arrendevole della tua
e perciò soffrì, soffrì, la vita passò presto per lui,
passa presto per me ormai e non mi duole come quando
le gaggìe morivano a poco a poco per rifiorire
il nuovo anno, perché qui un anno è come un altro,
una stagione uguale all'altra, una persona all'altra uguale,

l’amore una ricchezza che offende, un privilegio indifendibile.

Attilio Bertolucci



da Viaggio d’inverno
Garzanti 1971

martedì 16 settembre 2014

Felice come una nuvola o un albero bagnato

Torrente

Spumeggiante, fredda,
fiorita acqua dei torrenti,
un incanto mi dai
che più bello non conobbi mai;
il tuo rumore mi fa sordo,
nascono echi nel mio cuore.
Dove sono? Fra grandi massi
arrugginiti, alberi, selve
percorse da ombrosi sentieri?
Il sole mi fa un po' sudare,
mi dora. Oh questo rumore tranquillo,
questa solitudine.
E quel mulino che si vede e non si vede
fra i castagni abbandonato.
Mi sento stanco, felice
come una nuvola o un albero bagnato.


Attilio Bertolucci
La capanna indiana 
Garzanti 1973