Visualizzazione post con etichetta luna. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta luna. Mostra tutti i post

mercoledì 10 novembre 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/612. Prendi le nostre parole e fanne nuvole, pioggia o vento

 

 


 

A volte bisogna cambiare prospettiva per imparare di nuovo a vedere le cose. Un po’ come chiede il professor Keating nel film L’attimo fuggente ai suoi studenti quando li fa salire in piedi sui banchi. Salire su una scrivania in ufficio fa uno strano effetto, la stanza sembra più ampia e anche più luminosa. Salire sul tavolo della cucina permette di vedere la parte superiore dei mobili, i libri di ricette che non usiamo mai, la piccola collezione di bottiglie verdi, ricordo di cene e amici inghiottiti dal tempo. Per guardare da un’altra prospettiva il soggiorno e lo studio, ma anche la camera da letto, bisogna arrampicarsi in cima alla scala grande. Ecco dov’era finito quel romanzo di Carrère che era sparito, era solo scivolato tra il divano e il tavolino ed era rimasto intrappolato in una piega del telo colorato che cercava di difendere il divano dalla passione dei gatti che amavano rifarsi le unghie sugli angoli. Per guardare al quartiere con occhio diverso, bastava salire sino all’ultimo piano del palazzo e guardare verso nord-est per riconoscere le Tre Torri di City Life e riconoscere le vie che portavano verso la vecchia fiera che era un fantasma nella memoria. Tutta la città era una città fantasma, anche il fiume Olona scorreva sepolto sotto strati di terra e asfalto, il suo corso era stato deviato con un’ottima opera di ingegneria idraulica e in quel quartiere della città non c’erano esondazioni, come invece accadeva sempre dove scorrevano il Lambro e il Seveso.

Una volta arrivata in cima al palazzo aspetto che il sole tramonti, cerco di andare oltre le luci della città, verso la luna, invisibile, e le stelle fioche e remote. Anche se l’aria è già fredda, approfitto della sedia a sdraio della signora Luisa e mi accomodo meglio. E riporto alla mente una conferenza interessantissima dove una brillante filosofa aveva parlato di Pico della Mirandola, di Giordano Bruno e del Rinascimento. È proprio in quel preciso momento che sento in me e intorno a me che la terra è il cielo della luna. Noi siamo il cielo di qualcun altro? Possiamo cadere da questo cielo? È solo la forza di gravità che ci impedisce di cadere o è, piuttosto, la forza dell’immaginazione?

 

 

Guardare senza credere a ciò che vediamo

 

Luna, mia luna che sei

il cielo di questa terra,

non cadere su questa

città e sulle sue case,

lascia che noi siamo,

per oggi almeno, il tuo

cielo e tu la nuova

terra, quella dove vanno

a riposare i sogni prima

di tornare a casa. Prendi

le nostre parole e fanne

nuvole, pioggia o vento.

Noi staremo buoni, buoni

e in silenzio. Per la prima

volta densi come le nuvole

che crediamo leggere e

forti come il vento che

soffia gli impeti della volontà

prima ancora di quelli della

memoria. Terra o luna due

arance blu nel cielo nero,

se guardiamo senza credere

a ciò che vediamo.

 

 

Gli esercizi per lo sguardo sono seri e molto impegnativi, continuo ad allenarmi, non mi stanco mai. Com’è vasto il mondo, come mi sorprende, come mi piace guardarmi intorno e immaginare quel che non riesco a vedere, quel che non c’è più, quel che non ci sarà mai.

Oggi è mercoledì 10 novembre del secondo anno senza Carnevale e la sua Cronaca 612, occhiuta più che mai, continua a guardarsi intorno e mi racconta tutto quello che vede.

martedì 22 giugno 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/471. Le lacrime invisibili della luna che amava le storie calabresi

 


Quando arrivava la notte più corta dell’anno, Maria “la pisana” era pronta per andare a raccogliere le erbe nei campi e nei prati, anche se per trovarle bisognava salire verso la montagna. Come ogni estate preparava il suo asinello e il cesto per le erbe e non appena il sole era calato si avviava ripercorrendo i suoi stessi passi anno dopo anno. La prima volta che era andata a fare la raccolta di San Giovanni, di anni ne aveva meno di dieci e nonna le aveva detto che era importante che lei imparasse prima di diventare una signorina. Le disse anche che nella notte di Natale le avrebbe insegnato il rito per togliere l’affascino, che non era solo il malocchio provocato dagli invidiosi, ma qualcosa di più profondo e sottile che poteva anche turbare le menti più impressionabili e fiaccare la volontà di chi già era messo a dura prova dalla vita. Ma ancora peggio era per quelli a cui le cose della vita andavano bene. Ci fu il caso del pastore Alfiero cui iniziarono a morire tutti gli agnellini appena nati, oppure di Filomena delle vacche, le cui vacche, appunto, avevano smesso di fare il latte e i vitelli non svezzati furono portati al macello mentre le madri si disperavano. E poi c’era stata la disgrazia delle sorelle Selvaggi, ma di uno dei rami minori, le povere Rosaria e Serafina che allevavano bachi da seta e in una notte morirono tutti. Ma loro non era andate a raccogliere le erbe la notte del solstizio e non lo aveva fatto neanche il piccolo possidente Michele Sammarco, le cui coltivazioni di tabacco erano andate in fumo a causa della disattenzione del suo fattore. Sì, a ben pensarci, le disgrazie misteriose che colpivano i beni delle famiglie erano frequenti, così come erano frequenti dalle loro parti, i bambini che nascevano nelle famiglie sbagliate, quelli che, anziché assomigliare al padre, assomigliavano a uno zio, o al barone, o alla mamma del mezzadro. Insomma, gli spiritelli dei boschi erano sempre pronti a fare dispetti, soprattutto, se non si stava bene attenti quando si passeggiava sotto le querce, perché quelli delle querce erano i più dispettosi di tutti e avevano anche il potere di rubarti il nome e di tenerlo imprigionato sino a che non tornavi con cesti e cesti colmi di salsicce, peperoni, pane fresco, pomodori maturi, cipolle rosse e un fiasco di olio buono e almeno un paio di vino. Chi aveva provato a rifilare loro vino che era andato in aceto oppure olio di semi di girasole, che pure era buono, non certo un veleno, ebbene questi disgraziati riuscivano a ritornare a casa dopo giorni ma non riuscivano a parlare che dopo un mese dal loro ritorno in paese. Nonna Rosa conosceva tutte queste storie e gliele raccontava perché voleva che lei sapesse tutte le vicende del paese per poterle tramandare poi alle figlie e alle nipoti. Fece un unico errore nonna Rosa, di insegnare alla nipote anche la formula per non sembrare bella, formula che lei usò sin da ragazzina per tenere lontani i maschi, che non aveva nessuna voglia di diventare grossa come una giovenca e poi di dovere badare al nugolo dei suoi pargoli come se fosse state la guardiana dei niani. Quando spiegò a Maria cosa bisognasse dire e fare, la reazione della sua amica fu proprio il contrario della sua. A lei i maschi piacevano, e le piacevano forti e ben piantati. Per questo si era fidanzata ennemila volte prima di trovare quello giusto che era stato capace di domarla, cioè di tenerla in camera da letto, e in qualunque altro posto capitasse, per giorni e giorni. Fu proprio lui, Luigi Maria, a farle fare il primo dei suoi figli e anche il secondo e il terzo. Poi quando lui si distrasse con Caterina, la figlia del barone Randone, Maria si consolò molto in fretta con uno dei giovani mezzadri col quale fece una bambina che portava però il nome di suo marito. Non è che in paese queste cose non si sapessero, tutti sapevano e le mogli di paese accettavano quelle di campagna e viceversa, i bambini di paese giocavano con i fratelli di campagna e tutti andavano d’accordo. Il vescovo, l’arcivescovo e i parroci di San Nicola e di San Giovanni Battista, sembravano molto duri in pubblico, ma tra loro gioivano per il tasso di peccaminosità del paese e di tutte le sue contrade. Molti peccatori significavano molte confessioni e molte prebende, grandi donazioni ai santi e alla curia, ex-voto d’argento e oro per ringraziare della grazia ricevuta e tutte le messe, le orazioni e i vespri seguiti non solo dalle donne, ma anche da molti uomini. Seppure tanti si fossero fatti ammaliare dalla bandiera rossa del socialismo e in chiesa ci andavano per far contente le madri.

A tutte queste storie pensava Maria “la pisana” mentre andava a passo lento nei suoi campi. Ci mise meno di un’ora ad arrivare e poi lasciò il somarello a brucare l’erba e a lume di candela, ne aveva una sacca piena, andò a scegliere le erbe che le servivano. Lì nei campi cercava soprattutto l’artemisia, la verbena, il ribes e l’iperico, perché salvia, rosmarino, ruta, aglio e lavanda li aveva già raccolti nell’orto e preparati sul tavolo. Non ci mise molto e se ne tornò verso casa respirando i profumi che arrivavano dal cesto. Dopo aver governato il somarello nella stalla, andò a raccogliere l’acqua fresca nel pozzo. Sulle colline tutt’intorno si vedevano i bagliori dei fuochi e lei immaginava i giovani inseguirsi tra prati e boschi, come aveva fatto la sua amica Maria quando era ragazza. Tornata in casa, diede una sciacquata alle piantine e ai fiori e poi mise tutto nel bacile di terracotta che mise sul davanzale esterno della sua camera a prendere l’aria della notte e le lacrime invisibili della luna che era attratta da tutti quegli aromi. A lume di candela gli oggetti prendevano vita nella cucina, e lei si mise a un angolo del tavolo per ascoltare le storie che avrebbero raccontato.

Maria “la pisana” è già tornata a mostrarmi la sua storia, me l’ha sussurrata in un orecchio insieme alla voce del camino e quella del tavolo. Per questo, anche la Cronaca 471 di martedì 22 giugno del secondo anno senza Carnevale è una storia calabrese, forse vera, forse inventata, forse un po’ tutte e due le cose.

venerdì 27 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/264: di notte, lungo palazzi di nuvole aspettiamo il sorgere del fuoco



Inizia una nuova cerimonia nel Monastero di Colorno, gli abitanti sono già tutti schierati e io mi confondo tra loro e cerco tra quelli che arrivano, la nuova voce che qui si fermerà.

Lo riconosco dalla folta chioma bianca e dall’uomo che lo precede, una versione di se stesso in vesti giovanili.

Mi chiedo sempre se il poeta giovane già senta in sé la ruggine del tempo, le rughe che saranno, il disincanto e le parole che sono ancora nell’occhio di Dio.

Allo stesso tempo mi chiedo se il poeta incarnato nell’uomo anziano, ancora tenga in sé quel furore dei versi giovanili. Mi chiedo se sia ancora in grado di separare il grano dal loglio e accettare la sentenza della luce che non fa mai sconti a chi vive nelle parole, a chi cerca nomi anche dove nomi non ci sono, né possono esserci.  

 

Fuori

 

Fuori ormai non vado più,

ci sono, fuori. A metà strada tra la palma

e il fico. Sotto la mezza

luna, sette ore ancora alla rugiada.

Gocce sulla piombaggine.

 

Come si chiama ogni ora

della notte, come si chiama ogni minuto

dell’ora? Se i giorni hanno nomi,

perché non i minuti?

 

Ogni istante della nostra vita

dovrebbe avere un nome

che non assomigli al nostro,

che ci dimentichi. Ogni secondo

una cifra su un registro

 

di battiti di ciglia, sussurrio

origliato, versi di poesia

inframmezzati ai giornali,

sussurrio di brina e di neve,

la più lenta poesia

della durata.

 

Tutto a formare un cerchio,

tondo come un quadrato,


ogni cosa per sempre

sposata a se stessa.

 

 

Così ci mancano i nomi e ci mancheranno per sempre, perché i frammenti di tempo non possono avere un nome, non sono divisibili oltre una certa misura. La più piccola unità di tempo è l’istante e di istanti costruiamo la narrazione delle nostre vite.

Ma come il pescatore non riesce a intrappolare i pesci più piccoli, così noi lasciamo sfuggire le preziose sembianze di un tempo che pure è stato ed è ancora dentro di noi, anche se non lo sappiamo.

Così quando il buio scivola tra le strade e le case, cerchiamo una nuova forma per l’attesa e rinunciamo al nome che non ci verrà donato.

 

Notte

 

Di notte, lungo palazzi di nuvole

e un’ultima terrazza di chiaro di luna,

il sogno di viaggi proibiti,

un portone, sempre chiuso,

ora socchiuso, il pericolo di un’altra

vita, una poesia

 

di un’esistenza capovolta,

in cui la morte non ha falce:

è un amante su zoccoli d’oro

che ti accarezza il seno

e srotola il tappeto di stelle

perché ti ci possa stendere sopra.

 

Luce ovunque, fino ai denti

della belva, fino alle unghie

dell’assassino e al pugnale lucente

che scrive l’ultima parola,

fuoco, poi con i tuoi occhi di nessuno

vedere senza mai una fine,

 

vedere chi eri.

 

 

Ma è il fuoco che scrive l’ultima parola di questa sera e ci invita al riposo e alla quiete. Ora, nella cesta davanti al camino, riposano anche i frammenti di tempo, brillano come lucciole per un po’, e poi si spengono allo sguardo e restano vivi solo nel nostro cuore.

 

Questa Cronaca 264 è figlia dell’ultimo venerdì e ventisettesimo giorno di novembre dell’anno senza Carnevale. Nel silenzio degli alberi e nella voce del fuoco cerco risposte e sono poesie che mi vengono incontro a far scintillare questo tempo ancora oscuro, quelle di stasera sono di Cees Nooteboom, tradotte da Fulvio Ferrari per la raccolta Luce ovunque. 2012 - 1964, Einaudi 2016.

sabato 21 novembre 2020

Cronache dall’anno senza Carnevale/258: la nebbia, una luna zoppa, le parole rinchiuse nei loro gusci invernali

 


Ascolto la nebbia e nella nebbia batte il cuore della città ancora addormentata. La notte ci ha lasciato un velo scintillante di brina e il sole si insinua tra le nuvole basse e i nostri sguardi ancora addormentati.

Oggi non posso stare chiusa tra le solite mura, ho bisogno di respirare aria diversa e così valico il confine verso la terra delle Montagne della Nebbia.

I giorni freddi e corti sono arrivati anche qui, il misterioso architetto ha terminato di decorare la stanza delle stelle binarie e Roxanne è venuta a trovarlo senza passare dalla Casa delle Parole.

Li saluto senza fermarmi, loro stanno parlando fitto fitto e io voglio tornare a respirare quell’aroma di legna bruciata nel camino di fumo e caldarroste.

Ai miei abituali coinquilini si è aggiunto Julius, il gran Maestro delle Parole che si manifesta oggi per la prima volta in questa terra immaginaria dove vivo per buona parte del mio tempo.

La sua visita rincuora i fantasmi degli scrittori che sono passati a trovarci e forse è per questo che Roxanne si trova qui anziché al Monastero di Colorno.

Sono tutti seduti intorno a lui che fronteggia il camino acceso e ci racconta proprio di fantasmi e narratori. Ha una voce a tratti aspra, come un vino novello e si accodano sul sentiero tutti i fantasmi che lui tratteggia: Flaubert e James, Auster e Foster Wallace. Vorrei chiedergli dove si è fermata Virginia Woolf, ma lo farò un’altra volta.

Mi piace ascoltare ed entrare in un mondo che non conosco, il suo mondo autoriale, il suo narratore che si svela, mentre di Julius, sino ad ora, conoscevo solo i suoi libri.

Un autore non è il suo narratore, così come le storie non sono la sua biografia, la vita trasposta in narrazioni. Ma alla fine, forse, quello che conta sono solo i libri, anche se è appassionante andare a ritroso nel tempo e cercare di riconoscere i sentieri che si sono intrecciati, quelli che sono stati abbandonati ma che risplendono nell’ombra delle storie non raccontate.

Forse l’unica vera immagine che ogni scrittore nasconde in sé, è quella del conte Alessandro, nascosto in chiesa sotto una panca. Uscitone ha scritto la cattedrale della lingua italiana e segnato il destino di studenti e scrittori.

È vero chi scrive non è mai solo, non perché ha i personaggi, più o meno benevoli che lo circondano, chi scrive non è mai solo perché ci sono almeno un fantasma e un narratore che fanno da ponte tra la vita e le storie, tra la vita e la memoria, tra le intenzioni e la trama.

Quindi a scrivere un romanzo non c’è mai soltanto una persona, ma una coorte di figure che filano, tramano e tessono. Ricordano, cancellano e riscrivono.

Julius ha appena iniziato a parlare, sarà una notte lunga e feconda nel cielo dove troneggia una luna zoppa e dove le stelle ancora non si sono accese.

Oggi è sabato 21 novembre dell’anno senza Carnevale, un sabato denso di storie e di parole grazie a Giulio Mozzi e alla sua bottega.


sabato 11 aprile 2020

Cronache dall'anno senza Carnevale/34: il silenzio prima della Resurrezione


Il tempo è compiuto, il cielo si è squarciato, l’evento è accaduto e l’orrore è diventato visibile ai nostri occhi.

La scena numinosa della morte di Cristo in croce era una fonte di sgomento negli anni dell’infanzia.

Prima di quella morte il mondo non aveva un prima e un dopo, il mondo fluiva e con esso il tempo, in un’unica direzione.

Quella morte atroce ha costituito per l’umanità, credenti e non credenti, una cesura netta e implacabile tra il prima e il dopo.

Il giorno del sabato, dopo il venerdì della morte e prima della domenica della Resurrezione, è quella cesura, è il giorno del silenzio in cui non vengono pronunciate orazioni o parole, il giorno in cui la stagione si ripiega su se stessa come una rondine nel nido e aspetta.

Il sabato è dunque il giorno del silenzio e dell’attesa. Ma cosa stiamo aspettando? Non lo sapevano e non potevano immaginarlo i contemporanei di Cristo, mentre noi, due millenni dopo, credenti e non credenti, sappiamo che dalla morte si può ritornare.

Il sabato del silenzio può essere metafora di queste settimane che sono una quarantena a tempo indefinito ma non indeterminato.

Il nostro vecchio mondo è morto, quello che nascerà ancora non riusciamo a immaginarlo.

Ma non possiamo permetterci di continuare ad adorare la cenere di ciò che è stato; come diceva Gustav Mahler, la tradizione è conservare il fuoco, non adorare la cenere.

Questo silenzio è la condizione che ci permette di distinguere ciò che è estinto da ciò che ancora vibra e scintilla e su cui possiamo soffiare per tenerlo in vita. Il soffio vitale è un’altra immagine che rimanda alla cristianità sotto la cui iconografia siamo cresciuti, soprattutto noi italiani. Per tutte le immagini e rappresentazioni sacre vale il Cenacolo vinciano qui a Milano, che ho visitato diverse volte e di quelle visite ne ricordo una in particolare nel giugno del 1988, dove ero andata a vederlo con la mia amica Annemarie. C’eravamo solo noi nella sala e siamo rimaste ferme un tempo lunghissimo, senza parlare, a contemplare la messa in scena di uno dei momenti più importanti nella vita umana. Il tempo del pasto, la condivisione del cibo, la presenza degli amici alla propria tavola, cioè tutto ciò che nell'anno senza Carnevale, non ci è dato vivere.

Il sabato del silenzio è il margine del tempo in cui noi stiamo in bilico tra un mondo morto e uno non ancora nato, come scriveva Edgar Morin.

Stare in bilico tra il vecchio e il nuovo non è proprio una delle specialità di noi esseri umani, perché o conserviamo il vecchio in adorazione perpetua, o lo abbandoniamo con slancio feroce verso la ricerca del nuovo.

Stare fermi è una delle cose più difficili al mondo, anche stare in silenzio lo è.

Quando ero bambina alle scuole elementari, la maestra esausta ci faceva fare il gioco del silenzio. Una bambina a lei benvoluta usciva per scrivere alla lavagna il nome delle compagne che bisbigliavano. Quelle che invece erano capaci di vincere il gusto naturale della parola e stavano al banco con le braccia conserte, il busto ritto e la bocca ben sigillata, concorrevano per un premio. Non ricordo proprio quale fosse il premio per la bambina più silenziosa o composta, forse non l’ho mai vinto o forse l’ho dimenticato perché era poco importante.

Così sto attraversando questa giornata silenziosa in attesa della Resurrezione, della domenica che sancirà la vittoria della vita sulla morte.

Un ritorno alla vita che ha un prezzo altissimo. Noli me tangere disse il Cristo alla Maddalena, Non toccarmi o forse Non trattenermi come si è più propensi a tradurre oggi.

Perché Noli me tangere, dunque? Forse perché chi è tornato ha visto quelle cose che non possono essere dette, chi è tornato deve ritornare lì da dove è venuto.

Mi fermo in questo silenzio perché la Resurrezione sarà domani, nel tempo che ancora deve venire.

So che verrà, perché mi hanno detto di alberi che sembravano morti e che sono sbocciati di nuovo, ne ho visti due proprio in questi giorni, una quercia e un olivo centenari, sono lontani migliaia di chilometri ma comunicano tra loro come accade tra le creature che sono tornate alla vita. I lupi vanno a visitarli e si fermano ad ammirare la luna. Quando il lupo sotto la quercia ulula, in lontananza la lupa risponde nella loro lingua segreta e le stelle fanno capolino e sembra si fermino ad ascoltare quel canto.

Il congedo di questa sera è una poesia di Danilo Bramati.


Dietro ogni silenzio

Mai, in verità, ho raggiunto

le soglie estreme del silenzio.

Mai, mai, neppure

quando ascoltavo il grande platano
sillabare nella nebbia,
quando tacevo con gli amici,
con la gente.

C’è un silenzio oltre quel platano,

un silenzio oltre il silenzio.
Guardo il cielo che si oscura:
in ogni stella una stella tace.


Danilo Bramati

Dietro ogni silenzio
Atì editore 2017


venerdì 22 settembre 2017

mentre il vento degli autunni

Il celeste


Il tempo è stato lungo
Signore, ma breve la rincorsa
per portare il respiro oltre
le onde. Tu solo sai
l’esatta distanza tra
il mare e la luna e cerchi
la chiave per aprire il mio
cancello. Le reti sono state
tirate e l’erba è bruciata
nel colmo dell’estate.
I frutti tardivi non coprono
alcuna tavola, mentre il vento
degli autunni accorcia
la nostra fiamma.


Elena Petrassi
Sillabario della Luce
Moretti&Vitali 2007

mercoledì 8 marzo 2017

dentro quest’albero spoglio ci sono foglie e fiori bianchi di ciliegio

Inverno


Vedi, dentro quest’albero spoglio, grigio
fra palazzi grigi e tetti,
ci sono foglie e fiori bianchi di ciliegio.

Dentro le facciate fredde dei palazzi
ci sono stanze, spazi che si aprono in spazi,
case che rifugiano uomini, sentimenti.

Vedi, questo striminzito cielo nuvoloso

ha sole, luna e innumerevoli stelle.


Annalisa Manstretta
Gli ospiti delle stagioni
Atì editore 2015

martedì 31 gennaio 2017

L'inverno, la sera:lo spazio sembra una stanza foderata in legno

L'inverno, la sera:
                          allora, talvolta, lo spazio
sembra una stanza foderata in legno
con dei tendaggi azzurri sempre più scuri
su cui si smorzano gli estremi riflessi del fuoco,
poi la neve si accende contro il muro
come una lampada fredda.

O sarà già la luna, che, levandosi,
si lava di ogni polvere
e del vapore delle nostre bocche?


Philippe Jaccottet
Alla luce d'inverno
traduzione di Fabio Pusterla
Marcos y Marcos 1997



L'hiver, le soir :
                        alors, parfois, l'espace
ressemble à une chambre boisée
avec des rideaux bleus de plus en plus sombres
où s'usent les derniers reflets du feu,
puis la neige s'allume contre le mur
telle une lampe froide.

Ou serait-ce déjà la lune qui, en s'élevant,
se lave de toute poussière
et de la buée de nos bouches?

mercoledì 11 gennaio 2017

e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore

Giornata d’inverno

Cosa vuole questa luce strana?
Il giorno è sotto stelle bianche.
E i sogni germogliano sotto la luna.

La montagna ha parole racchiuse dentro di sé
ma il petto è rigido e la barba gelata.
Il fiume risponde con brevi riflessi, si apre per un attimo breve,
e i pini offrono un po’ di resina.
Il regalo scuote la neve
e il cavallo freme con il muso coperto di brina.
La legna spreme fuori una crosta di grasso gelato,
e il ghiaccio divora il taglio della scure.

Ma ora la vetta manda in mille pezzi il disco del sole, torce
il suo sguardo furtivo verso un mondo lontano.
Gli alti abeti candele sulle creste dei monti si spengono,
e gli alberi si acquietano nel bosco per la notte.
Il fiume sospira nella gola, condensa in ghiaccio la nostalgia di mare,
e le pietre dormono sotto la neve con sogni verdi nel cuore.

Olav H. Hauge
La terra azzurra
traduzione di Fulvio Ferrari
Crocetti editore 2008

sabato 31 dicembre 2016

i venti che soffiarono a ogni tempo e le tempeste di quattro stagioni

Si ricorda di te l’umida terra
di primavera, con tutti i suoi fiori,
le strade polverose, i cardi, e il lento
crescere della tonda luna, e tutte
le gole che cantarono d’estate,
le ali in partenza, i nidi, i rami spogli,
i venti che soffiarono a ogni tempo
e le tempeste di quattro stagioni.
Tu non vai più col tuo passo di gloria
sui sentieri dell’alba e della bruma,
non vegli al vento, non ascolti il palpito
d’invisibili ali alte nell’aria.
Qualcosa in piú che giovane e gentile
eri tu: l’anno intero ti ricorda.

Edna St. Vincent Millay
L’amore non è cieco
a cura di Silvio Raffo
Crocetti Editore 1991, 2001

lunedì 14 novembre 2016

dove una stella devota si smarrisce, sul petto le cade e si sfrange

Canti di un'isola

Frutti d’ombra cadono dalle pareti,
luce lunare intonaca la casa,
e cenere di spenti crateri
entra col vento marino.

Tra gli amplessi di bei giovinetti
dormono i litorali,
la tua carne rammemora la mia:
già mi era incline
quando le navi
abbandonavano la sponda e croci
grevi della nostra spoglia mortale
facevano da alberature.

I luoghi di supplizio sono deserti, adesso:
ci cercano e non ci trovano.

Quando tu risorgi,
quando io risorgo,
non vi è pietra davanti alla porta,
non vi è barca sul mare.

Domani i tini rotoleranno
incontro alle onde domenicali;
noi arriveremo alla spiaggia,
coi piedi unti, laveremo i grappoli
e pigeremo a vino la vendemmia,
domani alla spiaggia.

Quando tu risorgi,
quando io risorgo,
il carnefice è appeso al portale,
il martello s’inabissa nel mare.

Dovrà venire la festa, un giorno!
Sant'Antonio, tu che hai sofferto,
San Leonardo, tu che hai sofferto,
San Vito, tu che hai sofferto.

Largo alle nostre preghiere, largo
a chi prega, largo alla musica e alla gioia!
Abbiamo imparato il candore,
ci uniamo al coro delle cicale,
mangiamo e beviamo,
le gatte magre strisciano
intorno alla nostra tavola:
fin che comincia la messa serale,
io ti tengo per mano
con gli occhi,
e un cuore tranquillo e coraggioso
a te sacrifica i suoi desideri.

Miele e noci ai bambini,
reti colme ai pescatori,
fecondità ai giardini,
luna al vulcano, luna al vulcano!

Oltre i limiti divampano le nostre scintille,
oltre la notte fanno ruota i razzi,
la processione sopra buie zattere
si allontana e il tempo cede
al mondo preistorico,
ai sauri striscianti,
alle piante lussureggianti,
ai pesci febbrili,
alle orge di vento e alle voglie
della montagna, dove una stella
devota si smarrisce, sul petto
le cade e si sfrange.

Siate perseveranti adesso, o santi stolti:
al continente dite che i crateri non hanno pace!
San Rocco, tu che hai sofferto,
o tu che hai sofferto, San Francesco.

Quando uno parte, deve gettare
in mare il cappello pieno di conchiglie
raccolte durante l’estate,
e andarsene con i capelli al vento.
Deve scagliare in mare la tavola
apparecchiata per l’amato,
deve versare in mare il vino
avanzato nel bicchiere,
dare ai pesci il suo pane
e mescolare al mare una goccia di sangue.
Deve infilare bene il coltello
dentro le onde e affondarci le scarpe,
cuore, àncora e croce,
e andarsene coi capelli al vento!
Allora sì, ritornerà.
Quando?
                 Non domandare.

Vi è fuoco sotto la terra,
e il fuoco è puro.

Vi è fuoco sotto la terra,
e roccia liquida.

Vi è un fiume sotto la terra,
che in noi si riversa.

Vi è un fiume sotto la terra,
che abbrucia le ossa.

Si avanza un grande fuoco,
si avanza un fiume sopra la terra.

Noi ne saremo testimoni.

Ingeborg Bachmann
Poesie
traduzione di Maria Teresa Mandalari
Guanda 1978

***

Lieder von einer Insel

Schattenfrüchte fallen von den Wänden,
Mondlicht tüncht das Haus, und Asche
erkalteter Krater trägt der Meerwind herein.

In den Umarmungen schöner Knaben
schlafen die Küsten,
dein Fleisch besinnt sich auf meins,
es war mir schon zugetan,
als sich die Schiffe
vom Land lösten und Kreuze
mit unsrer sterblichen Last
Mastendienst taten.

Nun sind die Richtstätten leer,
sie suchen und finden uns nicht.

Wenn du auferstehst,
wenn ich aufersteh,
ist kein Stein vor dem Tor,
liegt kein Boot auf dem Meer.

Morgen rollen die Fässer
sonntäglichen Wellen entgegen,
wir kommen auf gesalbten
Sohlen zum Strand, waschen
die Trauben und stampfen
die Ernte zu Wein,
morgen am Strand.

Wenn du auferstehst,
wenn ich aufersteh,
hängt der Henker am Tor,
sinkt der Hammer ins Meer.

Einmal muss das Fest ja kommen!
Heiliger Antonius, der du gelitten hast,
heiliger Leonhard, der du gelitten hast,
heiliger Vitus, der du gelitten hast.

Platz unsren Bitten, Platz den Betern,
Platz der Musik und der Freude!
Wir haben Einfalt gelernt,
wir singen im Chor der Zikaden,
wir essen und trinken,
die mageren Katzen
streichen um unseren Tisch,
bis die Abendmesse beginnt,
halt ich dich an der Hand
mit den Augen,
und ein ruhiges mutiges Herz
opfert dir seine Wünsche.

Honig und Nüsse den Kindern,
volle Netze den Fischern,
Fruchtbarkeit den Gärten,
Mond dem Vulkan, Mond dem Vulkan!

Unsre Funken setzten über die Grenzen,
über die Nacht schlugen Raketen
ein Rad, auf dunklen Flößen
entfernt sich die Prozession und räumt
der Vorwelt die Zeit ein,
den schleichenden Echsen,
der schlemmenden Pflanze,
dem fiebernden Fisch,
den Orgien des Winds und der Lust
des Bergs, wo ein frommer
Stern sich verirrt, ihm auf die Brust
schlägt und zerstäubt.

Jetzt seid standhaft, törichte Heilige,
sagt dem Festland, dass die Krater nicht ruhn!
Heiliger Rochus, der du gelitten hast,
o der du gelitten hast, heiliger Franz.

Wenn einer fortgeht, muss er den Hut
mit den Muscheln, die er sommerüber
gesammelt hat, ins Meer werfen
und fahren mit wehendem Haar,
er muss den Tisch, den er seiner Liebe deckte,
ins Meer stürzen,
er muss den Rest des Weins,
der im Glas blieb, ins Meer schütten,
er muss den Fischen sein Brot geben
und einen Tropfen Blut ins Meer mischen,
er muss sein Messer gut in die Wellen treiben
und seinen Schuh versenken,
Herz, Anker und Kreuz,
und fahren mit wehendem Haar!
Dann wird er wiederkommen.
Wann?
            Frag nicht.

Es ist Feuer unter der Erde,
und das Feuer ist rein.

Es ist Feuer unter der Erde
und flüssiger Stein.

Es ist ein Strom unter der Erde,
der strömt in uns ein.

Es ist ein Strom unter der Erde,
der sengt das Gebein.

Es kommt ein großes Feuer,
es kommt ein Strom über die Erde.

Wir werden Zeugen sein.

Anrufung des Großen Bären
München 1956