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venerdì 7 marzo 2014

Il romanzo della nostra vita è un grande mare conradiano

I più grandi romanzi del Novecento, ha scritto Raffaele La Capria, sono dei «capolavori falliti». Non certo per difetto dei loro autori, fra i maggiori di ogni epoca - Musil, Kafka, Faulkner, Joyce, Svevo e altri, fra i quali alcuni sudamericani - ma proprio per la loro grandezza e la loro verità. 
Sono le grandi narrazioni che hanno affrontato, raccontato e assunto su di sé, nella loro stessa struttura, la verità della loro e nostra epoca, la disgregazione del mondo, l’eclissi di un significato centrale capace di dare unità e razionalità alle vicende individuali e collettive, la distruzione della concezione lineare del tempo. Il romanzo della nostra vita è un grande mare conradiano; un gorgo che risucchia, frantuma e disperde le storie e l’io stesso che le vive. Si è aperto un abisso fra scrivere la Storia e scrivere storie. Mentre lo storico e ogni persona, quando cercano di capire ciò che è accaduto e sta accadendo, non possono fare a meno di tentare di ordinare i fatti e il loro significato, quando invece si racconta - secondo le parole di Manzoni - come il singolo individuo, l’Io, vive quei fatti e ne viene intessuto o disgregato, il narratore non può narrare la Storia vissuta se non come quell’incubo di cui parlava Joyce o come la sconnessa serie di eventi stravolti nel Tamburo di latta

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Per citare, in un altro senso, il titolo di un libro di Corrado Alvaro, oggi i maestri possono essere solo maestri del diluvio; 
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Uno di questi sconcertanti, affascinanti, sconvolgenti maestri è oggi António Lobo Antunes. 
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La scrittura, per Lobo Antunes, è un fiume in piena, una mareggiata di tante opere che è quasi impossibile elencare tutte insieme ai loro traduttori. La memoria - come nel capolavoro Arcipelago dell’insonnia (2008) - è una surreale, folle abolizione del tempo. 
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Lobo Antunes spinge quasi all'estremo la dilatazione e la compressione del tempo, falce inesorabile e rugginosa, il gorgo del monologo interiore e del flusso di coscienza che tutto risucchiano e macinano, anche se ogni grido di dolore è inestinguibile e screzia l’aria in eterno. La prospettiva narrativa, la punteggiatura, l’unità della frase, la sintassi, lo stesso spazio grafico vengono scompaginati in un rimescolamento che è quello della vita intera. Tutto è un brulichìo di frammenti, ma tutto è sempre presente; non c’è differenza fra i vivi e i morti, come nel romanzo Pedro Páramo del grande messicano Juan Rulfo e come forse nella mente di Dio, in cui non c’è differenza fra ieri e domani. Antunes è un grande epico, perché coglie la totalità. 
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Credo che per lui vivere sia scrivere, solo scrivere, sempre scrivere, tessere un’enorme ragnatela di parole sperando di non poterne mai uscire; vivere per scrivere e scrivere per non vivere, costruire labirinti senza bisogno di un Minotauro al loro centro, perché la vita è piena di Minotauri, ce ne sono dappertutto pronti a divorare le vittime. Forse lo scrittore, nel labirinto delle sue parole, è proprio il Minotauro.

frammenti dell'articolo Lobo Antunes, minotauro nel suo labirinto"
Claudio Magris
Corriere della Sera
mercoledì 22 gennaio 2014

venerdì 31 gennaio 2014

Ogni libro è scritto per una voce e chiede una devozione assoluta

La voce di António Lobo Antunes è arrochita, profonda, quasi baritonale. L'autore portoghese, uno dei riconosciuti maestri della letteratura europea contemporanea (...) spiega che lo scrittore è una sorta di tramite: "Il libro sceglie il proprio cammino, io mi considero solo un intermediario tra due istanze: la prima che non so qual è, e la seconda che è il lettore ". Con forza rigetta l'idea stessa di vocazione  -  "È la mano che scrive con la testa che viaggia lontano"  -  e nega qualsiasi collegamento tra la sua letteratura e le esperienze lavorative come psichiatra: "Gli ospedali non mi diedero né mi portarono altro che non fosse orrore, sofferenza e dolore".

(…)

Quando ha capito che avrebbe voluto scrivere?
"All'età di sei o sette anni. Mio padre era un neurologo, professore all'università, ed io il primogenito di una famiglia che proveniva dal Brasile. Divenni psichiatra perché non volevo essere un medico. L'unico mestiere che ho mai desiderato fare nella vita è però lo scrittore. Ho sempre saputo che non sarebbe stato facile, e infatti sono trascorsi molti anni prima che trovassi la mia voce. Ho pubblicato il mio primo libro (Memória de elefante, n.d.r) a trentasei anni, e quasi fino ad allora la mia reazione era sempre la stessa: così non va. Riscrivevo in continuazione".

Come sono scandite le sue giornate?
"Dedico alla scrittura mediamente dieci ore al giorno e per ogni libro impiego uno o due anni. Il processo più complesso è però la correzione, quanto cambi di ciò che hai scritto; perché un testo non è mai finito, c'è sempre un avverbio, un pronome, un articolo che non convincono. Così quando finalmente chiudo un libro provo un sentimento ambivalente: da un lato sento una specie di sollievo, dall'altro so che ho iniziato a perderlo".

Soltanto la dedizione ad una passione esclusiva conferisce potenza, sostiene Stefan Zweig nella biografia su Balzac. Per resistere ore alla scrivania, Balzac si teneva sveglio bevendo moltissimo caffè; e lei?
"Fumo sigarette. Ciò che dice Zweig è esatto: serve una devozione assoluta se vuoi fare questo mestiere. Forse il talento non esiste, ci sono solo persone che provano e provano e provano ancora. Un giorno, ad uno che gli chiedeva come avesse potuto realizzare un certo magnifico passaggio, Bach rispose che se avesse lavorato quanto aveva fatto lui avrebbe ottenuto lo stesso risultato".

(…)

Io mi ricordo  -  scrive Hegel  -  vuol dire "io penetro nel mio interno, ricordo me". Che relazione sussiste tra memoria e immaginazione?
"L'immaginazione è l'unica possibilità che hai per affrontare la memoria concreta. Non facciamo altro che riadattare, riorganizzare e risistemare tutto il materiale memoriale in un ordine differente. L'immaginazione deriva da come lavoriamo questo materiale; prende forma dalla memoria. In uno studio su persone che hanno avuto un ictus, si dimostra che chi è stato privato della memoria è stato privato anche dell'immaginazione".

Ci sono immagini che più di altre hanno formato il suo animo?
"Non sono perseguitato da immagini ma da ossessioni. Sono loro che plasmano il mio animo. Ogni regista, o scrittore, o artista o pittore, è spinto dalle proprie ossessioni. Io poi non penso in forma logica, le cose mi appaiono già così nella testa, mi limito a seguirle; ed è male".

(…)

L'infelicità dei suoi personaggi sembra derivare dall'interpretazione di alcuni istanti del loro passato, e dall'esserne prigionieri.
"Non vedo i miei personaggi come felici o infelici, nemmeno li vedo i miei personaggi. Vedo una voce che viene, che va, che torna, che attacca, che scrive il libro. Ogni libro è scritto per una voce".

Una voce?
"Prende corpo dentro di me, e non so perché né da dove provenga. Alle volte, quando inizio a scrivere la mattina, devo aspettare tre o quattro ore prima che questa voce cominci a parlare. Non posso spiegare meglio, perché non scrivi ciò che vuoi ma ciò che devi, ciò che ti viene ordinato di scrivere. Sembrerà un pochino folle, ma questo è quello che faccio ed è quello che sono. Non ho mai capito in cosa consista davvero il sistema creativo. Quando ero uno studente di medicina ho letto moltissimi libri sui processi creativi e non ho mai trovato una spiegazione soddisfacente. Probabilmente rimarrà per me sempre un mistero".


frammenti della bellissima intervista di Sebastiano Triulzi a Antonio Lobo Antunes su Repubblica di sabato 25 gennaio 2014