domenica 31 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/329: le storie sono sempre le stesse, millennio dopo millennio, ma non sono mai uguali

 


Sono tornata a casa con un ricco bottino stasera: un sasso bianco e una foglia sempreverde di alloro. Quando passeggio nella città silenziosa, nelle vie del mio quartiere, è sempre difficile trovare frammenti di mondo interessanti, ma qui nel giardino ai piedi delle Montagne della Nebbia è talmente facile che scelgo con cura, rinuncio ai pezzi più belli con la promessa di tornare a prenderli durante una nuova passeggiata.

La foglia era ancora attaccata al suo cespuglio, lungo la recinzione occidentale del giardino e l’alloro ha ridacchiato quando ho staccato la foglia.

Il sasso, invece, l’ho trovato sulla riva del ruscello che attraversa il bosco e che, d’estate, è uno dei miei rifugi preferiti. Avevo già parlato numerose volte con il sasso bianco e avevo ascoltato la sapienza antica diffondersi intorno e raccontare vecchie storie a chi si fermava.

 

La pietra bianca e i sognatori

 

Era un uomo non molto

giovane, arrivò correndo e

si tuffò nelle acque verdi

come se le anime dell’inferno

lo stessero inseguendo. Cadde

e non si rialzò, se non dopo

istanti lunghi come le primavere

che lo avevano aspettato. Gridò

quando emerse da quelle acque

e implorò, implorò di avere indietro

il suo corpo, implorò di potersi

materializzare in questo mondo

una volta almeno, una volta ancora.

Era spaventato il fauno dalle

sembianze umane, spaventato al

punto che non sapeva di esserci

riuscito ad avere ancora quel corpo

che aveva amato. Quando si addormentò

al sole, caddero i frutti rossi dai rami

e bisbigliarono le foglie. Le giovani

ninfe vennero ad ammirare quella

bellezza che respirava al ritmo del

vento e la più ardita tra loro gli si

lasciò cadere accanto e si

addormentò con lui. Le altre

capirono di doverli lasciar stare

e i due innamorati dormono

ancora accanto al ruscello verde

e io, la pietra bianca, sono custode

del loro sonno e raccolgo i sogni

che maturano come i frutti e li

custodisco per chi vuole ascoltarli.

 

Vi starete chiedendo perché ho portato con me la pietra bianca e perché ho fatto un simile gesto che lascia indifesi gli addormentati.

Me lo ha chiesto la pietra stessa e staremo insieme solo per un giorno, loro si sveglieranno e potranno attraversare il bosco, scegliere se restare in questa dimensione insieme, conoscersi con occhi umani, perché solo in sogno si sono incontrati.

Domani, quando torneremo sulle rive del ruscello, rimetterò la pietra bianca dove l’ho trovata. Se i sognatori saranno tornati, ricominceranno a mostrarle i sogni, se saranno ancora nel bosco, saranno i fili d’erba a sussurrare nuove storie che arrivano dai luoghi umani.

Storie che sono sempre le stesse, millennio dopo millennio, ma non sono mai uguali.

Questa è la Cronaca 329 di domenica 31 gennaio del secondo anno senza Carnevale. La pietra bianca e i sognatori, poesia fiabesca, l’ho scritta con la vera pietra bianca accanto a me sullo scrittoio.

sabato 30 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/328: lettera scritta alla fine di un ventoso gennaio

 


Gennaio, gennaio, uno dei due mesi più noiosi dell’anno. Le feste sono finite, le giornate hanno da poco ricominciato ad allungarsi, almeno. Anche se tutti i giorni sembrano un lunedì.

Nel primo anno senza Carnevale, gennaio fu l’ultimo mese “normale”, quando si seppe che una malattia sconosciuta, causata da un altrettanto sconosciuto virus, si stava diffondendo in Cina. Una notizia rimasta nella periferia delle nostre orecchie per almeno un mese.

Ma gennaio che sta finendo non può sapere quello che sappiamo noi. I mesi sono strane creature e arrivano colmi delle aspettative dei loro simili che li hanno preceduti. Così gennaio pensava soltanto a come sarebbe stato pattinare sul ghiaccio, fare gli angeli sulla neve, correre la mattina presto mentre albeggia, bere un caffè bollente il mattino e una cioccolata ancor più bollente il pomeriggio. Andare in libreria il sabato, sempre di mattina, con tutta calma a scegliere un paio di romanzi nuovi e almeno un saggio, perché non si smette mai di imparare. Poi pranzare fuori, magari in uno di quei dehors semi riscaldati, solo per il gusto di guardare la gente che passa. Andare nel mercatino di piazza Wagner a comprare qualche leccornia e anche alcune rose da distribuire in giro per casa. La sera preparare la pizza e scegliere un paio di film o una serie tv per una maratona. O comprare la pizza e riscaldarla nel forno, farsi compagnia con la famiglia e gli amici, giocare con i bambini, iniziare a leggere il romanzo nuovo. Questa una giornata festiva tipica nella città silenziosa.

Qui, nella terra ai piedi delle Montagne della Nebbia, scegliere se passeggiare in salita verso l’altipiano o scendere, invece, sino al mare per ascoltare le onde ansiose che arrivano a riva e

“Lo sai cosa dicono le onde? Dicono io sono, io sono”.

Preferisco stare lontana dalla città, qui in riva al mare mi sento più libera di chiedermi il senso della vita al di fuori dei ruoli che ricopriamo e delle relazioni.

Dopo un anno di pandemia siamo in grado di definirci in maniera se non nuova, almeno in maniera diversa?

Continuo a interrogarmi e intanto passo dalla Casa delle Tre Sorelle a salutarle, perché sono mesi che non le vedo. Mi offrono un tè, parlano tutte insieme, e tutte insieme mi fanno capire che hanno altro da fare, cioè devono rimettersi a scrivere. Ma mi dicono anche di restare ancora davanti al camino se mi fa piacere e io accetto perché guardare le fiamme, le diverse fiamme di un altro fuoco, favorisce i miei vaticini.

 

Il fuoco, l’incendio e la brace cantano

 

Danzano le fiamme, sono

vive, parlano con lingue

guizzanti e veloci, occhi

emergono dal fuoco e mi

guardano, mi chiedono

risposte, ma io ho solo

domande e molte perplessità.

È strano il fuoco, ancor più

strana la sua voce, il calore

si diffonde insieme al

profumo delle pigne che

ho gettato nel centro del

cratere intravisto ai piedi

dell’incendio e immaginato che

fosse un pozzo per portare doni a

questa divinità esigente che

mi invita a cambiare attraversando

questo fuoco senza bruciarmi

mai, a scoprire che la fiamma è

un sentimento prima che una

sensazione. Allungo una mano

e dallo specchio fiammeggiante

si stacca una lingua che pare

prima una foglia, poi una farfalla

e infine un intero bosco che ha

risposto al richiamo e brucia,

brucia senza tregua sino al

compimento del suo destino.

Non so cosa nascerà da queste

ceneri, la Fenice ha sempre un

volto di donna e io la riconosco

una volta di più e le porto in

dono queste parole e il tramonto

albino che copre sia la città che

queste montagne nebbiose.

 

Finisco di scrivere con mano febbrile questa poesia di fine gennaio, saluto le mie ospiti indaffarate e ritorno a casa. Tutto è silenzioso, i miei coinquilini sono fuori o forse chiusi nelle loro stanza, ciascuno a interrogare il proprio fuoco.

Oggi è sabato 30 gennaio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 328. Il titolo è la parafrasi del titolo - Lettera scritta durante un ventoso gennaio -  di una poesia di Anne Sexton. Sua è anche la citazione “Lo sai cosa dicono le onde? Dicono io sono, io sono”. Il fuoco, l’incendio e la brace cantano è una mia poesia inedita scritta per salutare questa giornata ormai già nutrimento dell’oscurità.

venerdì 29 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/327: la nostra posizione nell’aria è stare nel luogo di desideri e poesia

 


 

I nostri corpi, noi, occupiamo svariate posizioni nello spazio e solo una alla volta. Siamo immersi nell’aria o nell’acqua. Camminiamo e nuotiamo alla nostra maniera. Ma non possiamo volare senza un ausilio esterno. Riusciamo a staccare l’ombra da terra ma non abbiamo ali, solo il desiderio di averle.

Negli altri due elementi, terra e fuoco, non possiamo vivere. Il fuoco divora l’aria intorno e muta irrimediabilmente ciò che tocca. La terra possiamo scavarla, ma per viverci dobbiamo avere tutta aria intorno.

Nell’aria possiamo camminare, fermarci in piedi, sederci, inginocchiarci, sdraiarci, saltare, voltarci.

Una posizione più di tutte è consona ai sogni e alle fantasie, all’amore e al riposo. Sdraiati possiamo contemplare il cielo e coprire la nostra ombra tutta intera, per far sì che anch’essa possa trovare riposo.

 

 

Un luogo di desideri e poesia

 

Non mi importa il peso, non

il calore, sto al riparo dai

tuoi pensieri e guardo il mondo

solo con gli occhi dell’immaginazione.

Il tuo sguardo, invece, disegna

cerchi e traiettorie infinite, solletica

i rami e non si ferma là dove finisce

il cielo. Quel confine e il desiderio di

varcarlo sono un unico moto che

spinge l’anima a rotolarsi nel

prato come un cucciolo alla sua

prima uscita. Perché se il corpo

ha limite nei suoi stessi sensi, per

l’anima il gioco è altro. Perché

l’anima conosce i misteri del mondo

e se ne nutre, accarezza gli sguardi

degli amanti e dorme con il capo

sotto l’ala e sogna, sogna con tutte

le anime di essere in quel luogo che

noi creiamo con i desideri e la poesia.

 

D’inverno non è semplice sdraiarsi a contemplare il cielo, ma è bello farlo, anche per pochi istanti. Una vecchia coperta e il nido è pronto. Guardo il cielo azzurrino, le rade nuvole, ascolto il silenzio degli uccellini, il canto solitario della fontana e poi il gatto curioso che viene ad annusarmi e a ronzare nelle orecchie. Potrei quasi addormentarmi, finire congelata, ammalarmi, ma resisto finché posso e l’oscurità della notte, il mio inchiostro non ancora diventato parola, tinge il mio cielo cristallino e mi spinge a rientrare.

La casa è calda, i lupi e i gatti sono davanti al focolare, metto il bollitore sulla stufa per scaldare l’acqua e preparare il tè. Nel forno cuoce della pasta condita con ragù e verdure. Butto nel fuoco le bucce del mandarino e inizio a scrivere.

Oggi è venerdì 29 gennaio del secondo anno senza Carnevale che profuma d’inverno e di ricordi buoni e Un luogo di desideri e poesia è inedita, l’ho scritta per questa Cronaca 327.

giovedì 28 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/326: il buio è solo inchiostro che ancora non è parola

 



Una giornata lunga di molte parole e di altrettanti silenzi, di scritture rimandate sino al limite estremo di questa giornata.

 

Gennaio, notte

Ho ascoltato tutti i silenzi che

la città mi ha dato, strada dopo

strada. Li ho ascoltati tutti e riposti

nel cesto della lana, accanto ai

gatti e al camino. Nell’ora estrema posso

filare e intrecciare, così che di ogni

silenzio vedremo l’ombra e cercheremo

la parola precisa che gli corrisponde.

Buonanotte amore, ovunque tu sia

so che mi stai ascoltando e che il buio

è solo inchiostro che ancora non è

parola.

 

Poche parole con molto silenzio intorno, ecco forse per oggi, giovedì 28 gennaio del secondo anno senza Carnevale ci sono riuscita con questa poesia inedita e scritta per la Cronaca 326.

mercoledì 27 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/325: è così che voglio scrivere, con altrettanto spazio intorno a poche parole



 

Oggi sto in silenzio e in compagnia del Diario di Etty Hillesum. Così questa Cronaca 325 del 27 gennaio del secondo anno senza Carnevale, è una tessitura di alcuni suoi frammenti e delle poesie che le ho dedicato negli anni trascorsi.

 

 

Esperienza amorosa con una primavera

per Etty Hillesum

 

Dio è la sorgente sepolta dalla

sabbia, non sarà facile arrivare

nel centro della polla e ammirare

l’acqua che sgorga pura e incontaminata.

Possiamo scavare solo a mani nude e

nudi nella polvere, scalzi i piedi.

Se non tieni la terra ben salda contro

l’intero corpo, non potrai inginocchiarti

a scavare. Allora l’ombra che siamo si

ridurrà e darà sollievo alle mani ferite che

dividono sasso da sasso, il sì dal no.

I ciottoli che feriscono le ginocchia

saranno il monito, il memento del

tempo a dire che possiamo vivere

o lasciarci vivere, dal tempo farci

molare e frantumare, o resistere.

Quando la sabbia sarà fresca e umida

nelle mani il vento visiterà la terra e

asciugherà il nostro sudore sotto

la sabbia antica, sotto i frantumi dei

giorni che siamo stati, ci saranno ancora

rocce a difendere la sorgente. Allora

potremo spostare ogni pietra a lato e

circondare lo scavo da noi compiuto e farne

un bacino dove l’acqua potrà sostare

prima di dissetare una gola riarsa, incapace

di parole e di farsi attrarre dal sole e seguirne

i raggi fondersi nella nuvola pensierosa

e ricadere nel mare, guizzante tocco

ai pesci che mai conosceranno la vita

dell’aria. E così poter amare la fresca

carezza della mano di Dio che ci

soccorre, dopo che noi lo avremo

aiutato.

E tenere nell’incavo del ricordo

l’acqua, la sabbia, la nuvola

l’impronta di quelle ginocchia

e la preghiera che non ascende

al cielo, ma nella materia oscura

canta una ripetizione e la nostra

nostalgia contornata dall’ombra di

Dio.

 

 

L’albero rosso-sangue di Etty

 

Ricordi il faggio rosso-sangue, quello

con cui avevi adolescente un rapporto

speciale? Io pure lo ricordo, ti vedo

prendere la bicicletta e andare per

mezz’ora veloce sino ai suoi rami.

L’incanto era la tua vista, le tue

parole oggi anche la mia nostalgia.

So come lo sapevi tu, che è possibile

avere, un’esperienza amorosa con

una primavera. Ricordi ancora?

 

Ora un brano dal diario della Hillesum.

 

"Oggi pomeriggio ho guardato alcune stampe giapponesi con Glassner*. Mi sono resa conto che è così che voglio scrivere: con altrettanto spazio intorno a poche parole. Troppe parole mi danno fastidio. Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono soltanto per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto. Come in quell'illustrazione con il ramo fiorito nell'angolo in basso: poche, tenere pennellate - ma che resa dei minimi dettagli- e il grande spazio tutto intorno, non un vuoto ma uno spazio che si potrebbe piuttosto definire ricco d'anima. Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono così poche per quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò - e chissà poi che cosa?-, mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto. E sarà più difficile rappresentare e dare un'anima a quella quiete e a quel silenzio che trovare le parole stesse, e la cosa più importante sarà stabilire il giusto rapporto tra le parole e il silenzio - il silenzio in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme. E in ogni novella, o altro che sia, lo sfondo muto dovrà avere un suo colore e un suo contenuto, come capita appunto in quelle stampe giapponesi. Non sarà un silenzio vago e inafferrabile, ma avrà i suoi contorni, i suoi angoli la sua forma: e dunque le parole dovranno servire soltanto a dare al silenzio la sua forma e i suoi contorni, e ciascuna di loro sarà come una piccola pietra miliare, o come un piccolo rilievo, lungo strade piane e senza fine o ai margini di vaste pianure. E' buffo: potrei riempire dei volumi su come vorrei scrivere, ma può darsi benissimo che a parte le ricette non scriverò mai nulla. Però le stampe giapponesi mi hanno fatto capire a che cosa io aspiri, e mi piacerebbe camminare una volta attraverso paesaggi giapponesi, per capirlo ancor meglio. Del resto credo che un viaggio in oriente lo farò, in futuro - per trovare in quei luoghi, vissute ogni giorno, quelle cose in cui qui ci si sente soli, in dissonanza."

 

5 Giugno 1942 da Diario 1941-1943, Etty Hillesum, Adelphi

 

*Evariste Edgar Glassner era un musicista e organista tedesco. Avendo perso il proprio impiego come organista di chiesa a Berlino, (era un mezzo ebreo, secondo la classificazione nazista) era emigrato ad Amsterdam: qui conobbe Julius Spier, partecipando ai concerti organizzati dagli ebrei dopo la loro esclusione dalle sale pubbliche

 

Di seguito la poesia che è scaturita dalla lettura di questo brano.

 

Invocazione alla luce

per Etty Hillesum, da una sua annotazione

Ti accompagniamo nella tua

crescita, silenzioso Glassner

e dall’altro capo dei giorni

io tendo l’orecchio alle

tue note e bevo la luce di

quella estate mai respirata:

cedi all’oscuro impulso

e rendi ebbra l’anima

di questa invocazione

“fa che torni primavera

dammi ancora quelle

note e la sua voce

che le ha precedute”.

 

 

Le mie poesie sono tratte da Figure del silenzio, Atì Editore 2010

 

Ora Un frammento di Etty tradotto da Lorenzo Gobbi, Il bene quotidiano. Breviario dagli scritti. (1941-1942), Edizioni San Paolo 2014

 

Prima, quando stavo seduta alla mia scrivania, mi sentivo sempre molto in ansia, come se stessi perdendo qualcosa della vita. Così, non sapevo concentrarmi bene sui miei studi. E quando ero nella "vita vera", tra la gente, avevo sempre molto desiderio di tornare alla scrivania, e non ero per nulla felice tra la gente. Questa separazione innaturale tra lo studio e la "vita vera", ora è scomparsa. Adesso, alla scrivania ci "vivo" davvero. Lo studio è diventato un'autentica "esperienza di vita" e ha smesso di essere qualcosa che riguarda soltanto la testa. Alla scrivania sono immersa totalmente nella vita, e nella "vita" porto la pace interiore e l'equilibrio che ho acquisito dentro di me. Prima, ero obbligata a ritirarmi ogni volta dal mondo perché le sue troppe impressioni mi confondevano e mi rendevano infelice. Dovevo fuggire in una stanza silenziosa. Adesso, porto con me questa che possiamo chiamare "stanza silenziosa", e posso rifugiarmi là in qualsiasi momento, anche se mi trovo se un tram affollato o su un treno che si ferma con tutto il suo peso. (...)

9 gennaio 1942

 

La poesia che segue è mia ed è tratta dalla raccolta Scrivere il vento, Atì editore 2017

 

Le cose che facevano parte di me

a Etty Hillesum

Le cose che facevano parte di

me erano nel tuo lento accumulare:

api che ronzavano alla finestra,

il ramo di glicine addormentato

nel bicchiere, il libro d’ore di Rilke,

l’acero rosso che contava le stagioni,

il desiderio di poter dominare

tutte le parole e tutto mettere in

parole, suoni, immagini per

dare conto a quelli che verranno

della tua esperienza amorosa

con una primavera.

 

“Ma ci sono anche dei giorni in cui

egli invecchia, i minuti gli passavano

sopra come anni” scriveva il poeta

all’amico Ewald. E ora che gli anni

sono passati sui tuoi giorni scomparsi

nella sabbia, come l’ultima onda prima

del tramonto seppellisce il mare,

tu che capivi la certezza della fine e

hai scelto di restare per essere il balsamo

di molte ferite.


“I cieli si stendono dentro di me

come sopra di me” scrivevi, sapendo

che tu sola potevi essere misura a

te stessa: la ragazza che non voleva

inginocchiarsi, che aveva iniziato

a costruirsi una casa pietra su pietra.

Incantata dal glicine odoroso, hai aperto

le mani e lasciato rotolare melodiosamente

il mondo fino alla mano di Dio e ti sei

immersa per cercare nel profondo i tesori

che vi giacciono senza possedere gli strumenti,

sapendo fabbricarli dal nulla delle parole.

 Oggi io sono qui nel cuore luminoso

di un giorno invernale, a indovinare

il glicine che sarà fiorito nella tua

primavera amorosa.

 

 

Ecco ho trascritto i frammenti e le poesie, posso tornare a leggere il Diario e a guardare l’unica rosa che tengo sulla scrivania e a pregare perché la prossima primavera sia un tempo di libertà rifiorita.

martedì 26 gennaio 2021

Cronache dall’anno senza Carnevale/324: l’oggi ha creduto in se stesso, oppure è caduto



Che relazione c’è tra l’artista e il suo tempo? E questo tempo di pandemia come si mette in relazione con gli artisti?

Nel XXI° secolo si può continuare a essere artisti come lo si era nel XX°? Mi faccio questa domanda dopo aver letto che la giovane poetessa Amanda Gorman, la cui notorietà è esplosa il giorno dell’insediamento del nuovo Presidente americano, è stata messa sotto contratto da una nota agenzia di modelle, è molto bella quindi non è strano. Ma lei scrive poesie, è un’attivista politica, perché fare la modella?

Oggi ho condiviso, grazie all’Associazione Culturale “Apriti Cielo”, una breve, ma non troppo, conversazione con alcune persone interessate a sapere qualcosa di più delle poetesse americane Anne Sexton e Sylvia Plath. È dagli anni Ottanta del secolo scorso che le leggo e le studio, ne scrivo – sull’Enciclopedia delle donne ci sono le due voci dedicate a loro – mi interrogo sulla loro voce poetica e sul loro destino di donne.

Il loro incontro avvenne nel gennaio del 1959 a un workshop dedicato alla poesia tenuto dal padre della poesia confessional Robert Lowell alla Boston University. Le due poetesse, non ancora famose ma già suicide, si riconobbero, si fiutarono, si studiarono, condivisero ogni volta con l’amico George Starbuck almeno tre Martini extra-dry, patatine fritte e lunghe conversazioni sui metodi migliori per suicidarsi, come descrisse la Sexton in un ricordo scritto dopo la morte della Plath,: «Spesso molto spesso, Sylvia e io riparlavamo dei nostri primi tentativi di suicidio: molto, in dettaglio e in profondità fra una patatina fritta e un’altra. Il suicidio, dopo tutto, è il contrario della poesia. Sylvia ed io la vedevamo spesso in maniera opposta, ma parlavamo della morte con ardente intensità, entrambe attratte da questa come le zanzare dalla luce elettrica».

Finito il seminario si scrissero qualche volta ma non si videro mai più. Ci sono brevi cenni sulla Sexton nei Diari della Plath; sappiamo che quando venne a conoscenza del suo suicidio tre settimane dopo l’accaduto, la Sexton si rammaricò che, anche quella volta, Sylvia fosse arrivata prima di lei. C’è poi un blando scambio di lettere dove vengono scritte opinioni sui libri pubblicati e sulla vita quotidiana. Coltivare patata e allevare api sono due delle attività che impegnavano la Plath nella sua fattoria nel Devonshire e che la Sexton riportò nella sua poesia La morte di Sylvia.

Entrambe avevano smascherato l’implacabile meccanismo del Sogno Americano che le aveva imprigionate. Anche se Anne aveva vissuto con più noncuranza e senza grandi obiettivi sino a quando non aveva scoperto che scrivere sonetti le veniva spontaneo, e che scrivere la faceva stare meglio. Soprattutto da quando era diventata madre e non sapeva fare fronte ai suoi doveri genitoriali. Scrivere era l’unica cosa che le interessasse, ormai.

In un’intervista rilasciata alla Paris Review nell’agosto del 1968 la Sexton ricorda così quel periodo: «Fino ai ventotto anni avevo una specie di sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, ma che passava il tempo a rimescolare besciamella e badare ai bambini. Non sapevo di avere alcuna profondità creativa. Ero una vittima del Sogno Americano, il sogno borghese della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzettino di vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che gli incubi, le visioni, i demoni, sarebbero scomparsi se io vi avessi messo abbastanza amore nello scacciarli. Mi stavo dannando l’anima nel condurre una vita convenzionale, perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito si aspettava da me… Questa vita di facciata andò in pezzi quando a ventotto anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi».

La Plath, invece, voleva essere tutto, brava figlia, madre, moglie, poetessa, insegnante e scrittrice. Questi desideri folli vennero meno quando andò a insegnare nella sua stessa università a Boston e scoprì che l’insegnamento aveva bisogno di tempo e studio, tempo e studio sottratti alla poesia.

Il loro fortunato incontro avvenne in un’epoca d’oro della poesia americana e occidentale e quella piccola comunità di riferimento fu fondamentale perché le loro radici si fortificassero. Per questo motivo sono convinta anch’io che per gli artisti, per chi scrive soprattutto perché questa è la mia arte, sia importante confrontarsi con altri poeti e scrittori, per farsi da specchio reciproco e condividere le ossessioni e le passioni. Che i primi lettori siano altre persone che scrivono aiuterà di sicuro nel portare avanti la propria ricerca e i propri progetti prima di arrivare al più vasto pubblico dei lettori.

Forse quando si scrivono solo romanzi questo passaggio è meno complicato, più complicato lo è quando si scrive poesia. Che non è mettere sulla carta le proprie emozioni, ma riuscire a combinare metafore, ricordi, immagini, parola, forma ritmo in quella misteriosa alchimia che fa di una poesia una poesia.

È poi lo spirito del tempo che va indagato, compreso e attraversato, ma su questo tema ritornerò, così come voglio continuare a riflettere sulla necessità di una comunità di riferimento per gli artisti, anche se il luogo da cui la poesia e la scrittura scaturiscono, è sempre un luogo misterioso.

Sylvia Plath scriveva questo delle origini della sua poesia:

«Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che la mia immagine del mare sia la cosa più chiara che possiedo… E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo di allora respira».

Il mondo di allora respira, perché la poesia salva e riporta in vita la gioia che abbiamo vissuto in qualunque momento.

Il titolo di questa Cronaca 324, scritta il 26 gennaio del secondo anno senza Carnevale, è un verso di Anne Sexton tratto dal poemetto La doppia immagine. 

lunedì 25 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/323: ninna nanna del fiocco di neve



 

Più me ne sto chiusa in casa, più penso all’importanza dei riti anche nelle piccole cose della vita quotidiana.

Il mattino presto, d’inverno quando fuori è ancora buio, mettere la vecchia moka di famiglia sul fornello, aspirare il profumo del caffè che sale, ascoltare il gorgoglio della bollitura, versare il caffè nella tazzina preferita, sfogliare i giornali, uscire sul balcone a fumare la prima sigaretta.

Andare a passeggio nelle strade fumando la prima sigaretta. Quello che il comune vorrebbe impedire di fare ai fumatori entro il 2025. Lo scrittore Antonio Scurati, nell’articolo «Un divieto ipocrita, fumerò all’aperto (senza disturbare)»  definisce “la scelta della giunta meneghina ipocrita e perfino ridicola”. Non sono una fumatrice, ma condivido appieno le sue argomentazioni e la sua analisi e l’invito alla disobbedienza civile viste le premesse. I milanesi vivono in una delle regioni più inquinate dell’intero pianeta, gli spazi di libertà personale sono stati ridotti anche dalla pandemia, il corpo patisce nello stare rinchiuso, “non esiste una vita immune”. Ciò premesso cari amici e amiche fumatori e fumatrici – molti più di quanto i moderni savonarola immaginino – se sarà necessario me ne andrò in giro per Milano con la sigaretta accesa per difendere il vostro diritto di fumare in un’aria pervasa dalle polveri sottili.

Ma ritorniamo ai piccoli riti della vita quotidiana senza tenere in conto lavoro, fabbriche, uffici e scuole. Tengo in considerazione solo i frammenti di tempo liberato durante la giornata: la pausa caffè, la pausa pranzo, la passeggiata serale, la spesa prima di rientrare e provare quella gioia del rientro di cui scrivevo ieri.

Un rito che adoravo da bambina era aiutare mia madre a preparare la cena, apparecchiare la tavola e poi tutti insieme, il fratellino ancora nel seggiolone, guardare il telegiornale delle venti. Il mondo entrava nelle case solo a quell’ora, le notizie riguardavano cose accadute il giorno prima, i commenti rispettavano i bilancini politici che hanno sempre governato la vita pubblica degli italiani.

Poi c’era Carosello, le abluzioni serali, lavare i denti, mettere il pigiamino, salutare mamma e papà e andare in cameretta con il fratellino che non si faceva imbrogliare. Alle ventuno, quando iniziava il film – lunedì, giovedì e sabato se la memoria non mi tradisce – tornare di soppiatto in soggiorno e poco dopo sentire lo scalpiccio dei piedini rivestiti dalle ghette del pigiama e vederlo sbucare e poi arrampicarsi in braccio a un genitore e riaddormentarsi poco dopo tutto felice.

I riti serali della vita adulta non hanno più la consolazione di qualcuno che viene a rimboccarti le coperte fino al collo, spostare il cuscino perché la spalla sia ben posizionata e raccontarti o leggerti una fiaba o cantare una ninna nanna per farti addormentare. Così mi dedico da sola questa

 

 

Ninna nanna del fiocco di neve

 

E adesso dormi piccolo fiocco, dormi

mentre ascolti la mia voce e sogni

di cadere, di lasciare la nuvola soffice

e scoprire il vasto mondo che sta laggiù.

Dormi mia piccola neve e copri con

il tuo candore tutta l’oscurità che abbiamo

intorno. Io sarò sempre dove sarai tu,

infreddolita e salva nei nostri sogni

di oro e rosa.

 

I riti serali degli adulti contemporanei spaziano dalla play-station, alle serie tv divorate a tre puntate alla volta, al romanzo letto come se, finalmente, si fosse approdati su un’isola dopo il naufragio. E poi ci sono i vari social, il tempo che da frammenti si spappola, si scheggia e dalle ore passate a compulsare lo schermo, non avremo ricordo e non avremo imparato nulla.

Riprendere le lunghe conversazioni serali davanti al camino acceso è uno dei privilegi della Casa delle Parole. Dare vita al tempo e tempo alla vita, dare senso, costruire senso, lasciare libere le immaginazioni, un buon bicchiere di vino rosso davanti o una tisana bollente. Poi mettere sul fuoco la zuppa per il giorno dopo, impastare il pane per farlo riposare, uscire a guardare le stelle che lontano dalla città silenziosa risplendono più che mai.

Pensare che domani sarà un altro giorno, diverso o uguale all’oggi che si sta ritirando, poco importa. Importa affrontarlo con quella tazza di caffè bollente e i desideri intrecciati alla speranza di un cambiamento. Siamo spinti da questa forza che diventa inerziale, cambiare per andare avanti, stare fermi non fa parte della natura umana.

Preparo anche la caffettiera e inizio a riflettere sul filo conduttore per la prossima Cronaca, che poi, come sempre, andrà per la strada che avrà scelto.

Questa è la Cronaca 323 e oggi è lunedì 25 gennaio del secondo anno senza Carnevale. La ninna nanna è un anticipo del rito della sera. Buonanotte a tutti e tutte, ai sognatori e ai ribelli, ai fumatori e alle scrittrici Ilaria, Elisabetta, Giorgia, Rita, Martina, Francesca e Roberta, e al nostro scrittore Simone: ho passato un bellissimo fine settimana in vostra compagnia.

domenica 24 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/322: la gioia di ritornare a casa aspetta i nuovi ritorni

 



 

È inverno, fa freddo, la giornata è stata lunga, forse siamo usciti di casa quando era buio e ora è di nuovo buio ed è quasi ora di cena. Che sollievo essere a casa!

È estate, fuori si soffoca, quando entriamo in casa le mura spesse hanno tenuto l’ambiente fresco, è bello essere a casa!

Tra le molteplici cose che la pandemia ci ha sottratto, c’è anche il piacere del ritornare a casa dopo una intensa giornata di lavoro.

Un altro piacere che è venuto meno, ma questo è purtroppo anche un beneficio, è avere lasciato che l’attività lavorativa entrasse nelle nostre case e ci costringesse a cambiare le abitudini.

Certo, milioni di persone nel mondo hanno smesso di viaggiare stipate sui mezzi pubblici e risparmiano le ore del tragitto quotidiano.

Ma l’ufficio manca, manca a moltissime persone, con i suoi riti, il caffè, la passeggiata. Ecco, penso che quello che ci vorrebbe adesso, sarebbe avere in ogni quartiere della città un luogo di lavoro condiviso, un luogo dove poter andare a piedi a lavorare in massimo mezz’ora. Quanto ne gioverebbero i quartieri e le città? Quanto l’economia locale?

Intanto che scrivo i miei sogni socio-lavorativi, i passanti per strada sono andati via via scemando. Nel tardo pomeriggio c’era gente ovunque, soprattutto gruppi di adolescenti e giovani che chiacchieravano, fumavano e bevevano per. Ho letto poco fa che Israele ha un piano di vaccinazioni anche per gli adolescenti. Avere la ragionevole certezza che gli adolescenti e i giovani non siano inconsapevoli vettori del contagio, può contribuire a liberare le loro energie represse e a rimettere in moto la vita.

Intanto, i piani vaccinali dalle nostre parti, nella vecchia Europa, vanno a rilento e i ritardi nella consegna dei vaccini ci hanno già fatto posticipare di un mese le vaccinazioni agli over 80. A oggi pomeriggio in Italia sono state vaccinate, secondo il report ufficiale del Governo 1.370.449 concittadini in un mese. Lo scorso mese di agosto la popolazione stimata era di 59.991.186 abitanti. L’aritmetica ci dice che di questo passo, ci vorranno circa 44 mesi a vaccinare tutti, senza contare le seconde vaccinazioni. Forse sto sbagliano nel fare questi elementari conteggi, ma è impossibile non cercare di capire. Bisognerebbe fare ragionamenti tra le classi di età, gli ammalati e i luoghi di contagio per fare un piano efficace di vaccinazioni. Continuo a scrivere di cose di cui so poco, ma stasera mi è presa questa piccola furia statistica che, insieme a quella sociologica, mi porta a fare ragionamenti impoetici e anche un po’ noiosi.

Anche se tutto è partito da un piccolo piacere perduto, il ritornare a casa la sera e godere del tepore delle nostre mura, degli oggetti significativi, della presenza dei nostri cari che sostituisce la lontananza della giornata che si sta chiudendo.

 

Quando mio padre tornava a casa

 

Apri la porta, i bambini già

ti corrono incontro, la fatica

del mondo resta chiusa fuori.

Sorridi e li prendi in braccio,

loro ridono e iniziano a

parlare tutti insieme, perché

vogliono raccontarti come

è stata la mattina a scuola.

Sorridi, perché la vita è anche

questo piccolo piacere che

scivola tra le pieghe del quotidiano

e l’amore è appeso al tuo

collo, la gioia è arrivata così.

 

Oggi è domenica 24 gennaio del secondo anno senza Carnevale e questa è la Cronaca 322 dove un ricordo di mio padre che tornava a casa dal lavoro, è diventata una piccola poesia.

sabato 23 gennaio 2021

Cronache dagli anni senza Carnevale/321: cammino per cercare la tana della volpe e un filo trasparente di nebbia e gelo viene con me

 



Un giorno nuovo è un libro non ancora scritto, l’alba è una copertina dal colore mutevole che cambia stagione dopo stagione.

Ogni giorno speriamo che il suo svolgimento non sia solo il lento srotolarsi di parole, luoghi e volti noti, ogni giorno vorremmo che il nuovo facesse irruzione.

Sentiamo ancor più questo desiderio in questo inizio del secondo anno di pandemia e il nuovo, ciò che prima non c’era o non faceva parte delle nostre vite, arranca e soffoca.

Dobbiamo continuare ad aspettare, per questo accolgo con gratitudine questo giorno che sarà simile ai 320 che l’hanno preceduto e guardo la copertina polverosa, grigio tenue e inframmezzata dai segni lasciati dai rami nel cielo chiaro.

Le pagine della mattina sono intessute di conversazioni che sono nuove e già questo giorno prende una piega diversa, un formato del libro non ancora sfogliato.

Ascolto la fontana, l’acqua e poi la pioggia che ne copre il rumore. I pensieri si adeguano ai suoni che giungono dall’esterno.

 

Un filo trasparente di nebbia e di gelo

 

Una voce che ripete le stesse parole,

una voce che ascolto in silenzio, anche

se il canto mi è noto, se la caduta è

vicina. Ha voce di gelo questa giornata

e l’acqua ha voce di sogno. Tutto è

avvolto in una coltre densa, tutto

quel che resta di ieri è un filo da

tenere saldo e sperare che ci sia

tu, all’altro capo, che mi stai cercando.

 

Filo e tesso i minuti con le parole, ascolto molto e non parlo. Sono così belle le voci umane, mi piace sentir parlare di libri e di stile, di letteratura e di scrittori. Anche uno scambio come questo, a distanza, nutre questo giorno invernale che scende lieve verso la dimora finale di tutti i giorni che l’hanno preceduto. L’eternità è un letto ampio e caldo, i giorni non la temono e anche noi dobbiamo immaginare come sarà il tempo allora, quando non ci saranno giorni e ore a farci da barriera.

 

Cammino per cercare la tana della volpe

 

Sono piccoli i passi dell’inverno

quando un’altra stagione reclama

lo spazio per il suo prossimo arrivo.

La stagione fredda è l’unica che

si muove per forza di levare. Strappa

le foglie ai rami, la luce al giorno, ad

alcuni uccelli toglie il canto, ad altri

anche il volo e la terra lontana oltre

il mare è l’unico cielo davvero amato.

Si presenta così l’inverno, spoglio e

rude, ci sfida a sentire il mondo

nonostante il gelo. Ci sfida anche

la pioggia ad accompagnare la sua

voce fredda e noi andiamo, noi

andiamo seguendo le tracce

verso le tane e troveremo rifugio

proprio in fondo alla radura e

la volpe ci accoglierà nonostante

la nostra voce, che è un sibilo nel vento,

una preghiera che sta ancora cercando

Dio, e sale verso il tramonto privo

di rondini e di stelle, in alto, dove

Dio si nasconde e noi ci inginocchiamo.

 

Ora il pomeriggio ha terminato di scrivere le ore quiete, sono stata bene, ancora a parlare di lingue e di stile. Posso affidarmi alla notte e continuare a scrivere poesie, che sono la mia preghiera, il mio desiderio e la mia immaginazione.

Questa è la Cronaca 321, scritta sabato 23 gennaio del secondo anno senza Carnevale. Le poesie sono inedite e sono zampillate dalla mia penna come l’acqua della fontana.