giovedì 27 aprile 2017

Un alito come di fuoco era attorno a te – Venivi dalla rosa

Dove è ghiaccio, li è frescura per due.
Per due: così ti feci venire.
Un alito come di fuoco era attorno a te –
Venivi dalla rosa.

Io domandai: com'eri chiamata laggiù?
Tu me lo dicesti, quel nome:
era cosparso d’un chiarore come di cenere –
Dalla rosa, venivi.

Dove è ghiaccio, lì è frescura per due:
io ti diedi il doppio nome.
Sotto, spalancasti allora il tuo occhio –
Dove il ghiaccio s’apriva ristava alto un bagliore.

Ed ora, dissi, io chiudo il mio –:
Prendi questa parola – il mio occhio la declama al tuo!
Prendila, ripetila con me,
ripetila con me, lentamente,
ripetila con me, tu la devi trattenere
e, il tuo occhio, tenerlo aperto finché ciò dura!

Paul Celan
Di soglia in soglia
a cura di Giuseppe Bevilacqua
Einaudi 1996



Wo Eis ist, ist Kühle für zwei.
Für zwei: so ließ ich dich kommen.
Ein Hauch wie von Feuer war um dich ?
Du kamst von der Rose her.

Ich fragte: Wie hieß man dich dort?
Du nanntest ihn mir, jenen Namen:
ein Schein wie von Asche lag drauf ?
Von der Rose her kamst du.

Wo Eis ist, ist Kühle für zwei:
ich gab dir den Doppelnamen.
Du schlugst dein Aug auf darunter ?
Ein Glanz lag über der Wuhne.

Nun schließ ich, so sprach ich, das meine ?:
Nimm dieses Wort ? mein Auge redet's dem deinen!
Nimm es, sprich es mir nach,
sprich es mir nach, sprich es langsam,
sprich's langsam, zögr es hinaus,
und dein Aug ? halt es offen so lang noch! 

martedì 11 aprile 2017

Scrivere significa corteggiare la Musa dell'Impossibilità

LE VIRTÙ DELL'ARTISTA IMPERFETTO

Un giorno di dicembre del 1919, il ventenne Jorge Luis Borges, durante un breve soggiorno a Siviglia, scrisse una lettera in francese al suo amico Maurice Abramowics a Ginevra nella quale, quasi en passant, gli confessava i sentimenti contraddittori che nutriva verso la sua vocazione letteraria: «Talvolta penso sia stupido avere l'ambizione di essere un creatore più o meno mediocre di frasi. Ma questo è il mio destino». Borges sapeva fin da allora che la storia della letteratura è la storia di questo paradosso. Se da un lato c'è l'intuizione profondamente radicata negli scrittori che il mondo esista, per dirla con l'espressione abusata di Mallarmé, per sfociare in un bel libro (o almeno in un libro mediocre, come pensava Borges), dall'altro permane la consapevolezza che a governare quell'impresa sia quella che Mallarmé chiamava la Musa dell'Impotenza, (o, per usare una traduzione più libera, la Musa dell'Impossibilità). Nell'Autobiografia Mallarmé aggiunse che chiunque si sia cimentato nella scrittura, perfino i cosiddetti geni, ha tentato di completare questo Libro ultimo, il Libro con la L maiuscola. E tutti hanno fallito.
Questa doppia intuizione scaturisce dalla letteratura stessa. Vi è un momento, quando ci accostiamo per le prime volte alla lettura, in cui scopriamo che dalle macchie di inchiostro sulla pagina emerge un mondo compiuto e magicamente vero.
Questa esperienza ci trasformerà e, da quel punto in avanti, il nostro rapporto con il mondo tangibile e quotidiano non sarà più lo stesso. Dopo aver toccato con mano la capacità creativa del linguaggio, grazie alla quale le parole non soltanto riescono a comunicare e a etichettare, ma a dare vita a quanto etichettano e comunicano - quando siamo diventati cioè dei lettori - non potremo più percepire il mondo con innocenza. Una volta nominata, la cosa non è più se stessa, nel senso platonico che Borges avrebbe poi elaborato con grande passione: la cosa si desume dalla parola che la definisce, contaminata o arricchita dalla storia, dalle connotazioni e dai pregiudizi che tale parola porta con sé (...).
Così le nostre creazioni sono, nella migliore delle ipotesi, una copia approssimativa di una vaga intuizione della realtà, essa stessa un'imitazione imperfetta di un archetipo ineffabile. Questa è la nostra sola e umile prerogativa.
Perciò anche lo scrittore, che immagina un uomo e non può che crearlo a parole come un povero Golem, deve recitare la parte del Golem, una creatura imperfetta e capace soltanto di imperfezione, una creatura incompetente che in compenso solleva dubbi blasfemi sulla competenza del suo Creatore. In questo gioco di specchi mutevoli, il difettoso Golem diventa la nostra modesta, manchevole, onnicomprensiva letteratura, e la letteratura diventa il Golem, destinata a sbriciolarsi in un mucchio di polvere. «Il nostro scopo nella vita», scrisse Stevenson, «non è riuscire, ma continuare a fallire nella migliore delle intenzioni». E allora il fallimento, così come lo avvertono gli scrittori, non è soltanto l'unico esito possibile di un'impresa letteraria, ma ne è il fine, la massima realizzazione. (...) Ogni opera d'arte o di letteratura, che sfugga alla nostra comprensione, tanto da farcela chiamare grande è, in quanto tale, incompleta, perché deve mantenere vive le domande sulla sua essenza e incerta l'intuizione dell'insieme. Deve prevedere incrinature e varchi in cui il lettore possa spingersi a esplorare e interpretare. L'epilogo mortale dei racconti epici non pone mai fine alle eterne battaglie intraprese dagli eroi; le tragedie di Edipo e di Oreste rimangono insolute dopo Colono e Delfi; il padre di Amleto e lo spettro di Banquo continuano a vagare nel nostro immaginario, irrequieti, dopo la morte dei rispettivi oppositori; il lieto fine di molte narrazioni di Dickens è sopportabile solo perché poggia su una miriade di personaggi irrisolti che continuano la loro quest ben oltre l'ultima pagina del libro. Le uniche conclusioni assolute appartengono a storie di sola facciata, narrative prive di spessore e di profondità, sterili oggetti consumistici di fattura perfetta che assiepano gli scaffali di bestseller delle nostre librerie. «La stupidità», faceva osservare Flaubert, «consiste nel desiderio di concludere».
I modelli utopistici del mondo e le tabelle statistiche che misurano la realtà hanno una chiarezza rasserenante. In letteratura, però, le cose non funzionano così. La letteratura segue regole che prevalgono su quelle della fantasia e della realtà: non è fatta né di rosee speranze né di riscontri scientifici, né di arcadiche illusioni né di dogmi catechistici. Infatti, nonostante il desiderio di Dante, Beatrice alla fine - come sottolinea Borges in un saggio magistrale - sfugge al poeta; e Virgilio, fonte di ispirazione dantesca, deve mostrarsi fallibile, così come vuole la logica di sovvertimento delle cantiche; amici e nemici devono talvolta occupare posti inaspettati nell'Aldilà.E perfino il poema, la meticolosa, sorprendente, illuminata e illuminante Commedia, deve autodistruggersi. Le parole vengono meno a Dante e rifiutano di testimoniare la gloria ultima, lasciando il lettore abbagliato dal fulgore finale, quando volontà e desiderio si riassestano, con la muta consapevolezza che qualunque cosa sia o sia stata questa suprema rivelazione, essa «move il sole e l'altre stelle». (...) 

Alberto Manguel
frammenti dell'articolo pubblicato su Repubblica del 2 settembre 2011

sabato 8 aprile 2017

Uno scrittore, sua madre, la storia

«Scrivere un romanzo significa formulare una domanda complessa nella forma più complessa possibile.» 
(...)

Lo sfondo del romanzo è la guerra civile, ma il vero protagonista non è lo zio franchista. Il libro può essere letto come un confronto intimo con sua madre, con la casa di Ibahernando, con la sua storia di scrittore

«Sì, vero, è mia madre la protagonista segreta del romanzo. Per la prima volta racconto anche il nostro trasferimento dal piccolo e avvolgente villaggio di Ibahernando a Girona. E lo spaesamento che mi ha accompagnato negli anni di formazione. La scrittura è stata una forma di risarcimento, mi ha restituito quella protezione che era venuta meno». 

Qual è stata la reazione di Blanca nello scoprire che lo zio era in realtà un perdente? 
«Forse lo sapeva già, istintivamente. S’è divorata il libro per tre volte di seguito, scoprendo cose che lei stessa non sapeva». 

E lei Cercas cosa ho scoperto più di se stesso? 
«Per tutta la vita ho creduto che mia madre mi volesse come Manuel Mena, l’Achille dell’Iliade che trova in battaglia la morte eroica. E alla fine ho capito che invece mia madre mi voleva come l’Achille dell’Odissea che pensa sia preferibile conoscere la vecchiaia essendo il servo di un servo piuttosto che non conoscerla essendo il sovrano delle ombre. Questo mio romanzo è bellicosamente antibellicista. Ma mia madre è la più antibellicista di tutti, avendo visto la guerra».

Lei scrive: sono diventato scrittore per non essere scritto da mia madre. Però poi… 
«…scopro che alla fine sono stato scritto da lei. Resta una grande ambiguità, ma senza ambiguità la letteratura non esiste. È stata mia madre a farmi scrivere questo libro? Non lo so. Probabilmente sì. L’unica certezza è che dopo averlo scritto mi sono sentito meglio. Chi sono io, Javier Cercas? Ora lo so un po’ di più».

Javier Cercas
frammenti dell'intervista di Simonetta Fiori su Repubblica di sabato 8 aprile 2017

domenica 2 aprile 2017

L'amore è quel che resta dopo l'incendio

«Ascolta bene quel che ti dico bambina. Io so cos'è l'amore e l'amore non è nebbia che la stagione asciuga. È come il suono. Sembra andato ma intanto ti ha trasformata. Entrato dentro per sempre, nella forma di una parola che ti ha benedetta o di una musica che accompagna i tuoi giorni.
L'amore mio sarà con te quando giochi, quando dormi, quando ti alzi, quando cammini per strada, quando ti addormenti, anche quando non lo sentirai. Lo ritroverai nelle piante che coltiverai e nei fiori che disegnerai. Ti sorprenderà alle spalle come un gatto, che può scappare quando ti giri ma c'era e non eri sola. Allora il desiderio te lo farò cercare nelle persone che incontri e il desiderio è forte e ti confonde. Il seduttore non sa l'amore, vuole prendere quel che si può solo ricevere ma sa la forza del desiderio e le sue leggi. Non è il primo desiderio, né il secondo o il terzo l'amore. È quello che resta dopo l'incendio, dopo l'inganno che invece si è nebbia e la prima luce arriva come un regalo e lo umilia nel suo essere nulla.»
Aveva fatto una pausa perché il respiro tornasse a sostenere le parole. Poi sua madre aveva concluso così piano che forse lei lo aveva sognato: «Tu sei la luce, tu sei il regalo».

Mariapia Veladiano
Una storia quasi perfetta
Guanda 2016